Cultura & Società

Giannelli, il «Drago» della satira

di Chiara Masini

E’ l’unico che scrive tutti i giorni sulla prima pagina del Corriere della sera, basta questo per capire l’importanza del personaggio. Ma l’avvocato Emilio Giannelli da Siena, classe 1936, già dirigente del Monte dei Paschi, non è per niente snob, mantiene l’ironia e la voglia di provocare dei toscani più autentici, che praticano la schiettezza senza se e senza ma.

Mentre in via Solferino si alternavano direttori e capiredattori, lui continua dagli anni Novanta a raccontare agli italiani quello che succede nella politica nazionale con il suo esilarante quadratino disegnato sotto il titolo del principale quotidiano italiano.

Giannelli, autore di una ventina di libri, che raccolgono le vignette pubblicate, hanno dei titoli che sono già un programma come «Contropelo», «Gli uomini che disfecero l’Italia», «Ricchi, Ricucci & Company» del 2005 o «Meno male che Silvio c’è» del 2009, ha ritratto Presidenti della Repubblica, primi ministri e segretari politici, mettendo in evidenza difetti e debolezze dei politici nostrani. E la politica italiana si sa, con una certa frequenza dà spunti per far sorridere, talora amaramente, ridere e comunque riflettere.

Incontriamo il vignettista del «Corriere della sera» nel suo elegante studio nel centro storico di Siena, dove accetta di parlare di satira, senza soffermarsi sulle recenti vicende bancarie senesi lui che per tre anni ha diretto la Fondazione Monte dei Paschi.

Giannelli, da dove nasce la voglia di disegnare vignette? E quando ha pensato che questa passione sarebbe diventata un’occupazione professionale?

«Il divertimento per il disegno nasce fin da bambino, un’occupazione professionale per modo di dire, in realtà è un hobby che si è professionalizzato per il cambiamento dei costumi. Quando ero giovane non c’era un quotidiano cosiddetto serio che pubblicava vignette, son venuti di moda molto dopo i quotidiani che hanno permesso di pubblicare nelle pagine interne e poi sulla prima pagina del giornale. Cominciò Repubblica nel 1976 quando il direttore era Eugenio Scalfari».

In passato lei ha lavorato proprio per Repubblica e ora da decenni per il Corriere della sera, come è cambiato il suo modo di disegnare passando da un editore all’altro?

«Il cambiamento c’è sempre. Forse con il tempo il disegno si affina, diventa molto più preciso, si entra meglio nella notizia, prima c’era una certa difficoltà. Il cambiamento sì comunque c’è stato perché con Repubblica la vignetta era nella pagina interna e poi pubblicavo un giorno sì e un giorno no, invece sul Corriere pubblico tutti i giorni e sulla prima quindi questo mi obbliga a tenere molto più stretti i contatti con il giornale, dato che la vignetta è d’attualità».

Le immagini, si dice, sono superiori alle parole. I suoi ritratti o caricature dei politici, immagini appunto, spesso evidenziano degli aspetti che non tutti i giornalisti possono o vogliono esprimere, perché li censurano o anche perché si autocensurano. La satira ha dunque un potere in più, perché riesce ad arrivare dove il giornalismo si ferma?

«Dire che la vignetta dice più di un articolo è una cosa che si dice spesso ma che non corrisponde a verità. In un tempo in cui tutte le cose sono così veloci, perché le persone vogliono tutto e subito anche la vignetta ha questa funzione perché può essere vista immediatamente e commentata mentre l’articolo occorre leggerlo. Quindi il messaggio è immediato e per questo ha maggiore fortuna. Il disegno poi ha potere di sintesi che la scrittura ha meno. Poi usando il linguaggio della satira, del paradosso e dell’ironia si possono non proprio dire ma far capire delle cose che è molto più difficile esprimere platealmente nello scritto. Questo è il vantaggio della satira, dell’allusione che la satira può far continuamente mentre per lo scritto è molto più difficile».

In anni e anni di carriera ha ritratto leaders della Prima e della Seconda Repubblica, personaggi italiani e politici stranieri, quali sono le caricature che fa più volentieri?

«Naturalmente il fisico e la faccia della persona agevola il caricaturista se ci sono dei tratti più spiccati rispetto ad altri. Però non credo che la vignetta debba basarsi unicamente sulla caricatura del soggetto ma bisogna sempre adeguare la caricatura del soggetto  alla critica che gli si fa, a ciò che la persona fa o dice. Un soggetto che non mi è mai venuto bene è l’ex premier britannico Tony Blair anche perché aveva sempre la solita espressione sorridente. Adesso invece ho qualche difficoltà a rappresentare Renzi perché non ha dei tratti fisici marcati».

Nella sua recentissima pubblicazione «Berluskamen» scrive «per la vitalità della satira è molto meglio che le lamentele siano superiori ai complimenti. Se, infatti, i complimenti sono troppi vuol dire che la satira è sterile». Da dove arrivano maggiori lamentele?

«In genere non sono i leaders direttamente che si lamentano, si ho avuto tre o quattro sparate di Berlusconi che in conferenze stampa mi ha tirato in ballo lanciando improperi contro le mie vignette. In genere però sono i fan che si lamentano, ho tante lettere anonime che sostengono che non andava bene perché facevo sempre Berlusconi e non facevo gli altri, cosa che non era vera. Così come le lamentele dei leghisti che non tollerano che io faccia Bossi come un cane. Poi molte lamentele della sinistra quando tocco certi nervi scoperti, mi ricordo di avere avuto anche un articolo dell’Unità, quando era direttore Padellaro, per aver fatto ironia sulla banca-barca di D’Alema. Le lamentele sono all’ordine del giorno ma se la satira contentasse tutti non adempierebbe alla sua funzione, quando scontenta quelli che colpisce è logico che va a segno».

Sui media nazionali si è aperto un curioso dibattito circa l’impatto sulla satira della parziale uscita di scena di Berlusconi, come è cambiata la satira da quando a Palazzo Chigi c’è Mario Monti?

«Da quando Berlusconi non è più presidente del consiglio non l’ho più ritratto, poi quello che faceva lui superava addirittura quello che si poteva fare in una vignetta era addirittura al di là. Poi ormai si era detto e fatto di tutto, non c’era più niente da dire sul conto di Berlusconi. Questo cambiamento, contrariamente a quello che dice qualcuno, è produttivo per la satira perché cominciamo a fare personaggi diversi e sarà sicuramente un vantaggio. Poi personaggi come Monti, così serio, si prestano bene alla satira».

Il leader della Lega Nord, Umberto Bossi, viene ritratto come un cane con la testa d’uomo, che significato vuol trasmettere?

«Bossi come cane è perché si prestava molto alla posizione che egli aveva nei confronti dell’uomo Berlusconi, il fedele amico dell’uomo non poteva che essere un cane. Dopo alcune beghe iniziali durante il primo governo Berlusconi, Bossi ha sempre dato amicizia all’inquilino di Arcore. Poi questo binomio con il guinzaglio, significava che a volte si andava dove tirava il cane, era questi e non il padrone a tirare il guinzaglio. La posizione della Lega adesso mostra che forse il guinzaglio si è rotto, ma perché Berlusconi non è più il padrone, poi credo che ci sia una parabola discendente per tutti e due i soggetti, mi preparo a rappresentare altri della Lega come Maroni».

Lei è toscano, precisamente senese della contrada del Drago, nato in piazza Matteotti, quanto è forte il legame con la città del Palio?

«Il mio legame con Siena è come quello di una persona che  ci è vissuto tutta la vita quindi che ama la sua città e che ne conosce bene pregi e difetti e che oggi quanto mai è abbastanza triste per una città che vedo non certo cambiata in meglio, anzi sia dal punto di vista economico sia dal punto di vista di una certa aristocrazia in declino. Per quanto riguarda il Palio noto che anch’esso è cambiato rispetto a quello che conoscevo io da giovane, questo è naturale perché le cose vitali devono cambiare, se rimanessero sempre uguali morirebbero. Una cosa che mi dispiace è che nel Palio si è accentuata la competitività e la drammaticità e si è perso molto quello che era il divertimento e l’ironia. I numeri unici di contrada erano diversi, prendevano in giro l’avversario, ora invece si preferisce solo la celebrazione, sono pieni di fotografie dei dirigenti di contrada che stanno sul palco o a tavola come fossero delle autorità. Una volta i numeri unici erano scherzosi ora invece sono delle pubblicazioni serie, trionfalistiche, con tutte le foto di chi piange quando piglia il Palio, io quando ha vinto il Drago non ho mai pianto, riso sì tanto, invece ora questo isterismo non mi piace. Poi oggi il Palio è strumentalizzato troppo, una volta era più autentico, prima alle contrade veniva dato meno peso e penso che stessero meglio, adesso ci sono parecchi contradaioli improvvisati che arrivano solo gli ultimi giorni e sono quei duemila o tremila che vengono a cena in contrada».

Quanto incide la toscanità sulla sua capacità ironica?

«Incide perché noi siamo abituati ad usare sempre un linguaggio ironico, secondo me c’è anche una vena di timidezza che ci porta ad esprimerci così perché con lo scherzo ci si giustifica meglio rispetto alle cose dette seriamente. In realtà anche le persone quando si salutano e dialogano hanno un modo di parlare più scherzoso rispetto ad altre zone del Paese, a Milano la gente non usa il nostro stesso linguaggio, con le stesse sfumature. Noi usiamo sempre qualche parola ironica o scherzosa, anche il nostro modo di comportarci, lo scherzo, la burla dai tempi dei tempi è sempre stato il pezzo forte dei toscani».

Siamo all’inizio del 2012, cosa si augura Emilio Giannelli per se stesso e per la Toscana?

«Mi auguro che si esca da questo tunnel in cui è precipitata non solo la Toscana ma l’Italia e l’Europa, purtroppo la situazione è alquanto difficile. Io vengo da una generazione che ha conosciuto la guerra da bambino, le condizioni che avevamo nel dopoguerra erano molto difficili ma erano il contrario di oggi, c’era povertà, indigenza, austerità ma c’era la speranza di migliorare oggi invece c’è la consapevolezza di peggiorare e questo rende ancora più triste la situazione. Soprattutto il mio rincrescimento è la mancanza di lavoro per i giovani, che credo sia la croce dei nostri tempi, l’insicurezza che c’è ho timore che prima o poi esploda anche in maniera violenta».

I target differenti del nostro Alessio Atrei

I lettori di Toscana Oggi, che se lo tiene ben stretto, lo conoscono già. È Alessio Atrei, vignettista per pura passione da ormai 20 anni, ormai presenza stabile del settimanale che, come lui stesso ammette, «è la collaborazione più stabile del mio curriculum». Un curriculum o carriera che nasce spontanea, tra gli anni Ottanta e Novanta, e che all’inizio dell’ultimo decennio del secolo passato (1993 col Vernacoliere) si concretizza nelle prime pubblicazioni: segno e battuta essenziali che rivelano che la stoffa c’è. Un tessuto, e possiam pure definirlo tale visto che Alessio Atrei vive a Prato, che con l’andar degli anni, col lavoro e con la successiva scuola, si è affinato. Il tutto senza perdere, beninteso, una propria originalità. E poco conta che al confronto con un «maestro» come Emilio Giannelli si schermisca un po’, non tanto nel senso pieno del proteggersi quanto nel chiedersi a che cosa si debba un accostamento di tale portata. Alessio Atrei, ovvero l’Atrìde come si definisce spesso, comprese le pagine del suo sito ufficiale (www.alessioatrei.it), parla volentieri del come e del perché disegna, pur continuando, bisogna certo vivere, a lavorare in banca. Meglio, in ogni caso, procedere con ordine.Ha poco più di 40 anni, 41 compiuti a fine novembre, a voler essere precisi, e si vanta in definitiva di un solo aspetto: riuscire a piacere a un pubblico eterogeneo.

Molto diverso, in effetti, è il lettore tipo del Vernacoliere, sul quale le sue vignette furono pubblicate la prima volta, e chi sfoglia con puntualità Toscana Oggi. Beninteso. C’è chi legge tanto il mensile labronico quanto il settimanale toscano, senza porsi troppi problemi. Il taglio da dare alle vignette e i contenuti stessi delle pagine sono però, e lo sappiam bene, assai differenti. «Cogliere target tanto differenti per me è importante – dice Alessio Atrei – Credo che l’importante restino l’essenzialità del disegno, perché una cosa è la vignetta e un’altra è un fumetto, e l’ironia». Il primo punto presuppone un dono innato, «ma affinato in seguito alla scuola di comics»; il secondo richiede una buona dose d’intelligenza, soprattutto se si vanno a coprire ambiti diversi. Sul «mercato» della vignetta, poi, il disegnatore di Prato – ma fiorentino, come tiene a precisare con una punta d’orgoglio e senza volerne ai pratesi – è aperto a ogni proposta seria.

Una precisazione va però fatta. «Magari vivessi di vignette, facessi il disegnatore a tempo pieno – riprende Atrei –. Mi piacerebbe ma continuo volentieri a lavorare in banca e a disegnare nel tempo libero. Internet, in tal senso, mi offre nuove possibilità», a cominciare da quelle di allargare il giro delle conoscenze e degli apprezzamenti. E con la banca, invece, come si mette? Nessun problema. «Non tolgo tempo al lavoro», premette il diretto interessato. Anzi, si diverte pure, perché «vignette e disegni attaccati nell’ufficio del direttore non sono mai mancati». Il bancario che sa disegnare, insomma, va saputo prendere per il verso giusto. Un collega con una marcia in più, certo, e che fa ridere qualche volta, volendo parafrasare una rubrica storica di La Settimana Enigmistica, a denti stretti.

Fabio Barni