Cultura & Società

Giorgio Abrami, lo scrittore cattolico che «soccorse» Papini e Bargellini

di Francesco GurrieriDiciamo la verità: ad oggi, Giorgio Abrami non è ancora conosciuto quanto si dovrebbe. Colpa della sua umiltà che ne caratterizzò tutta la vita. Una vita che lo mise a dura prova ma che superò con intelligenza, raffinata cultura umanistica e profonda fede in Dio e nella provvidenza. Abbiamo appena passato il sessantesimo anniversario della sua scomparsa (1960) e, del «fine letterato» disponiamo ora di nuovi saggi e di una trattazione critica che ha avuto il suo evento più rilevante in un incontro svoltosi nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze con relazioni di Gloria Manghetti ed Ernestina Pellegrini. Ma il detonatore a questa nuova stagione di studi su Abrami si deve ad Andrea Cecconi e alla sua pubblicazione, Giorgio Abrami e gli Orti Guerrazziani. Si tratta di una caso di «giustizia culturale», come cercherò di dimostrare. L’Abrami era nato a Umago, in Istria, aveva studiato a Capodistria, trasferendosi poi a Firenze per i suoi studi universitari, inserendosi saldamente fra gli intellettuali del tempo.

Non è solo una curiosità, è un fondato indizio che si è fortificato leggendo e rileggendo dedicazioni e presentazioni: Giorgio Abrami (scomparso nel settembre del 1960) deve essere stato un referente importante per la scrittura di Papini, Bargellini e d’altri. E per «referente» intendo, sommariamente, il consigliere linguistico, per la forma e la stesura retorica, sintattica e persino grammaticale. E non è strano che questi «sospetti» siano espressi a molti anni dalla sua morte: tanto è il portato della sua (indisponente) modestia, e della sua capacità di godere delle altrui affermazioni, senza alcun velo di gelosia. Abrami scrisse poco, pochissimo.

Epigrammista finissimo, dettò epigrafi (quella di Castagno d’Andrea, ad esempio, per un affresco di Annigoni), scrisse piccoli compendi di saggezza, come Scacchiera della verità (Vallecchi, 1960), ci dette una delle più lucide esegesi degli epigrammi del Tommaseo.

Nel dicembre del ’49, quando Papini pubblicò la Vita di Michelangiolo nella vita del suo tempo (Garzanti), ne mandò copia in omaggio all’amico, dedicando di suo pugno: «all’amico/Giorgio Abrami/che valorosamente/mi soccorse per/dar gli ultimi tocchi/a questo libro del/suo Giovanni Papini».

Del resto, che l’Abrami fosse in stima a Papini si evince, oltre che da tante testimonianze di comuni amici, dalla frequentazione di «casa Papini» in via Guerrazzi, ov’era viva la consuetudine (lo ricorda assai bene il figlio Vittorio) degli incontri pomeridiani della domenica, ov’era facile trovare Bargellini, Rebora, Cicognani, Lisi, Sacchetti, Primo Conti e, appunto, l’Abrami.

È di Papini il seguente invito, a testimoniare della profonda confidenza per il nostro:

«10, via Guerrazzi/4 settembre 1947al sapido epigrammista/al dotto grecista/all’esperto grammatico/all’italianissimo esule/al fedele amico/Giorgio Abrami/si annuncia che domenica/7 Settembre verranno riprese/le adunanze degli/“Orti Guerrazziani”/Il Cancelliere/Giovanni Papini». Quando, nel gennaio 1945, Bargellini pubblicò «Caffè Michelangiolo», l’Abrami incassò questa dedica:«Al vecchio amico/Giorgio Abrami/questo caffè ch’egli ha conosciuto/in chicchi e mi ha aiutato a tostare».Piero Bargellini

È di tutta evidenza come si tratti, potremmo dire, di «dediche parlanti». Per Papini, che si volle intellettuale molto esclusivo e persino snob (Arnaldo Pini ricordava la freddezza con cui accolse Alberto Moravia), l’Abrami fu amico che «valorosamente lo soccorse per dar gli ultimi tocchi». E siccome è da escludere che i «tocchi» fossero solo le correzioni delle bozze, è legittimo dedurre che si trattasse di stesura fraseologica, di termini, paratassi (l’Abrami era grammatico assai esperto e pubblicò libri di grammatica per la scuola media).

E che cosa può significare, nella dedica bargelliniana «…questo caffè ch’egli ha conosciuto in chicchi e mi ha aiutato a tostare»?, se non il fatto che l’Abrami aveva letto i testi dell’amico Piero e lo avesse aiutato, consigliandolo, emendando, suggerendo modalità linguistiche alternative e più efficaci? Gli anni di collaborazione al «Frontespizio» avevano sicuramente palesato a tutti quanto l’Abrami fosse capace di soccorrere. Soccorrere è portare aiuto a qualcuno. Portare aiuto, nella pubblicazione di un testo, talvolta, può persino significare riscrivere interi «periodi».

Non sembri troppo azzardato tutto questo, perché a leggere con tanta attenzione la presentazione che Piero Bargellini antepone alla umile efficace «Scacchiera della verità» si capiscono molte cose. Poche volte si era vista una prefazione così estesa, dettagliata ed esplicita; ad un certo punto c’è un’apertura che mi pare non lasci dubbio sul significato reale:«Fu lui a insegnarmi come s’incocca la freccia/del linguaggio: fu lui a rivelarmi lo/splendore della parola, non eletta, ma pulita./Egli, istriano, chiarì il mio fiorentino senza/peraltro mortificarlo o raggelarlo; al contrario,/rendendolo più sciolto e spedito./Non fui solo a sottoporre i miei scritti alla/Sua revisione grammaticale ed anche stilistica,/ma forse fui il primo, perché, dopo di me,/altri scrittori lo presero come consulente linguistico./Sicché si ebbe a Firenze, questo strano,/ma forse non inconsueto fatto, d’un istriano/maestro di lingua fiorentina. Nell’Ottocento,/il dalmata Tommaseo non aveva forse esercitato un simile magistero?».

Dunque, Abrami «revisore grammaticale e stilistico», che è appunto ciò che sospettavamo e volevamo insinuare.

La domenica pomeriggio era il giorno di ricevimenti. Tra gli invitati c’era anche Giorgio Abrami. L’aveva portato Piero Bargellini, l’amico di sempre. C’erano là il musicista Vito Frazzi, sempre un po’ sornione, l’anglicista Piero Rebora, il marchese Torrigiani col faccione rubicondo (talvolta in compagnia del figlio letterato), l’avvocato Fortuna, ed un altro aristocratico, il Ridolfi, insieme a Nicola Lisi, Bruno Cicognani, il pittore Primo Conti e Carlo Betocchi. Non mancava la pecora nera: Enrico Sacchetti, disegnatore e caricaturista, sempre aggressivo nei confronti di Piero Bargellini («Ma Bargellini quando la farai finita di darti tutte quelle arie?»).

A quel tempo Giorgio Abrami fu ripreso più che mai dalla passione di scrivere, traducendo Marziale. Giovanni Papini, malgrado tutta la sua stima per l’esule istriano non era molto convinto dei suoi epigrammi: «Caro Abrami, tu non pungi ma ricami». Ne spiegava la ragione con lo spirito evangelico del suo autore seppur apprezzasse l’eleganza di quelle «frecce scagliate su volpi e barbagianni» come ebbe a scrivergli in un saluto augurale dopo una difficile operazione che Giorgio Abrami ebbe a subire. Molti degli epigrammi sono leggibili nella raccolta antologica curata da Dino Provenzal ed edita da Ceschina all’inizio degli anni ’60. Ma la scena letteraria fiorentina doveva subire una drammatica svolta. Giovanni Papini scompariva, stroncato dal male. Piero Bargellini si lasciava attirare dalle sirene della politica. Così, per Giorgio Abrami tornò il tempo dell’umiltà e del silenzio. Ma ora è tempo di riparlarne.