Cultura & Società
«I Templari» a San Miniato
La storica piazza del Duomo dal dopoguerra scena di un teatro che diventa ponte immaginario tra «terra e cielo» diventerà quest’anno la magione segreta nella quale Elena Bono descrive i suoi «Templari». La vicenda infatti è ambientata in una vecchia torre posta sulla costa tirrenica già proprietà dei Frangipane che secondo una tradizione continuò ad esistere a San Felice Circeo, nel Patrimonio di San Pietro, anche dopo che i monaci-soldati ebbero ceduto nel 1259 quei loro possedimenti al cardinal Giordano, vicecancelliere della Chiesa. Tutta la storia avviene nei giorni in cui a Gubbio gli inquisitori dichiarano scomunicati il Gran Precettore, Giacomo da Montecucco e tutti i Templari del Patrimonio di San Pietro. Un’epoca, il Tardo Medioevo, di grandi ansie, di sconvolgimenti sociali, di ore buie. Siamo nel marzo del 1310 ed è in atto, dal 13 ottobre del 1307, lo scontro tra Filippo il Bello, Re di Francia, e l’Ordine dei Templari sorto al tempo delle Crociate per la conquista dei Luoghi santi. I Templari sono accusati di eresia, di idolatria, di sodomia e di altre pratiche immonde. E contro di essi è stato imbastito un processo che si concluderà con la confisca di tutti i loro beni e la condanna al rogo del Gran Maestro dell’Ordine, Jacque del Molay, che verrà giustiziato il 18 marzo 1314 su un’isola della Senna.
Questo il quadro storico-politico nel quale interviene la Bono autrice che al Teatro dello Spirito di San Miniato ha dato nel 2000 «Le spade e le ferite», riproponendo e attualizzando l’eterno dibattito tra potere politico e potere religioso cercando di ricostruire uno spaccato di vita e d’avventure con tutte le problematiche che l’agitarono, nel tentativo, ancora una volta, di renderne le istanze di fondo ragione di riflessione oggi, nell’era delle autostrade telematiche e del braccio pericolosamente armato della scienza. «Nell’opera della Bono, una delle voci più autorevoli della letteratura contemporanea, le vicende dei Templari diventano di straordinaria attualità», spiega il direttore artistico Salvarore Ciulla, secondo laico alla guida del Dramma: «L’eterna lotta per il potere, la natura felina del gioco politico. Ma anche la pura idealità dei migliori, la ricerca della verità, la possibilità del riscatto anche delle creature più degradate, il sacrificio degli innocenti». Il tutto attraverso una solida drammaturgia unita ad un magistrale uso della lingua forse punto di maggior forza nella scrittura della Bono che spazia (così era anche ne «Le Spade e le Ferite») dall’italiano al latino, dal francese all’arcaico dialetto laziale.
San Miniato torna al teatro difficile? Ai drammi «popolari» solo per l’universalità della riflessione, abbandonando le più comuni vite de’ Santi e dei cavalieri di Ventura? Punta sull’opera alta anziché sul «cartellone» che fa ditta? Forse sì, la scelta di questi «Templari» significa anche una inversione di rotta verso un teatro meno scontato e convenzionale, che sfronda la storia tentando di rileggerla con gli occhi di chi vive un mondo e una società nei quali l’esteriorità vale più della sostanza, la fama più dei principi e della professionalità, la prepotenza della quotidianità più della lezione storica. E questo tentativo la riuscita è tutta da verificare nobilita, in questo caso, l’appellativo di «popolare». Come don Ruggini l’aveva pensato, cresciuto e reso grande. E, se abbiamo ben capito l’intento, anche il cast ben si addice all’operazione incentrata sulla qualità che sulla notorietà degli interpreti. C’è Massimo Foschi (Rocco da Sezze), un attore di gran tecnica, a San Miniato già splendido capitano Vere nel «Billy Budd» di Melville a fianco di Corrado Pani nel 1998. C’è Umberto Cerani (Uomo nero), cha vanta un lungo sodalizio col Piccolo Teatro di Milano dov’è stato diretto da Strehler e Missiroli; e c’è Marco Spiga (precettore Templare), ottimo Pier delle Vigne proprio ne «Le Spade e le Ferite». La regia è di Giuseppe Manzari, allievo e collaboratore del fiorentino Orazio Costa Giovangigli insieme al quale firmò per San Miniato lo stupendo «Al Dio Ignoto» di Diego Fabbri. Questi gli altri nomi del cast: Gabriele Carli (il Pocapaglia), Mattia Battistini (Amadeus von Waldemburg), Maria Elena Camaiori (la Gisa), Antonio Ciulla (Alì), Silvia Pagnin (la Tota). Scene di Daniele Spisa e costumi di Antonella Zeleni. Le musiche originali sono di Roberto Tofi eseguite dal vivo da Sophie Elert (soprano) e dal gruppo di musica medioevale Timbrel. Debutto per la stampa il 18 luglio con repliche fino al 24.
Una tavola rotonda intensa, alta, di vero livello, quella nella sala Torello Pierazzi, che ha visto gli interventi di Barbara Frale (sui nuovi dati storici sulle vicende del processo) della Scuola vaticana di paleografia; di Goffredo Viti della Facoltà di Teologia di Firenze che ha delineato il quadro storico in cui si consumò l’esperienza dei monaci sottoposti solo al giudizio del Papa; di Annelore Zug Tucci dell’ateneo di Perugia che ha spiegato la figura del «templare soldato»; di Marco Tangheroni del dipartimento di Medievistica dell’Università di Pisa che ha illustrato la vita economica dei custodi del Patrimonio di San Pietro; e infine di Antonio Cadei della Sapienza di Roma che a tarda sera tratteneva il numeroso pubblico parlando stupendamente dell’architettura religiosa templare.
«È un momento che abbiamo creduto importante ha spiegato Gianfranco Rossi, presidente della Fondazione dramma per approfondire da diverse prospettive la storia di questo ordine che ebbe un ruolo tanto importante nella vita della Chiesa e le tematiche che ritroveremo nella rappresentazione teatrale».