Cultura & Società

Il 25 dicembre di Malaparte

di Franco Cardini

Poiché, fiorentino di nascita, sono attualmente cittadino pratese (è a Prato che sono riuscito a comprare una casetta: a Firenze i prezzi erano e restano per me troppo alti), e poiché amo Curzio Malaparte, sarei tentato di parlare in termini stupiti ed altamente elogiativi del suo breve scritto del 1954, La commedia del Santo Natale, e soprattutto di elogiarne la freschissima e bruciante attualità. Vorrei tuttavia poter prendere cristianamente le distanze dalla durezza, dalla violenza, diciamo pure dalla ferocia di quelle parole, nelle quali tuttavia ritrovo appunto il Malaparte che più amo, quello implacabile e paradossale.

Invece, purtroppo, non posso. Non posso parlare di attualità di quello scritto di oltre mezzo secolo fa, perché oggi le cose sono incommensurabilmente peggiorate e perché il mio Malaparte si è rivelato, in esse e non solo in esse, pessimo profeta: pessimo perché ottimista. E non riesco, anche se come cristiano cattolico me ne vergogno e ne chiedo perdono ai lettori, a dissociarmi da quella violenza.

Qualche settimana fa ho scritto su questo giornale un articolo (Padre Pio, una cosa è la storia, un’altra la fede) sul recente volume di Sergio Luzzatto dedicato a Padre Pio. Alcuni miei fratelli in Cristo d’un gruppo di preghiera devoto al santo di Pietrelcina hanno protestato, definendo quell’articolo «ignobile» (Padre Pio e il libro di Luzzatto). Ritengo che ne abbiano gravemente frainteso il tono, ma ne chiedo ugualmente scusa: quando si fa l’insegnante e si scrive sui giornali da oltre quarant’anni, se si viene fraintesi la colpa risiede senza dubbio in gran parte nella nostra incapacità di comunicare correttamente e di farsi chiaramente intendere. Non oso tuttavia pensare, a questo punto, quel che penseranno di me quei buoni cattolici grossetani e altri bravi e virtuosi come loro. Debbo essere davvero diventato un pessimo cristiano, se nel dolce tempo natalizio la rilettura del «maledetto toscano» Malaparte mi ha suscitato i pensieri che sto per esporre.

Curzio Malaparte aveva la fortuna di vivere ancora, quando scriveva, in un’Italia umile e pulita: un’Italia ancora largamente cristiana, nonostante avesse passato la tragedia della guerra e molti milioni d’italiani – senza dubbio rimasti nella stragrande maggioranza profondamente cristiani nel loro intimo – aderissero a un partito ufficialmente ateo e per questo scomunicato dalla Chiesa. Poveri ma belli, era il film che di lì a due anni avrebbe furoreggiato nelle sale cinematografiche italiane: e i giornali cattolici lo avrebbero accolto molto severamente, per via di quella Marisa Allasio le curve della quale straripavano dappertutto. L’ho rivisto di recente, alla tv, e ci ho ritrovato intatto il sapore dei miei sedici anni di allora. Eravamo anche Poveri ma Buoni.

Malaparte aveva tuttavia visto giusto: solo che stava saltando le fasi intermedie e arrivando alle conseguenze estreme, che egli presentava come già in atto e inevitabili. «Le processioni dei falsi devoti servono soltanto a nascondere questa terribile verità: che gli uomini non sono più cristiani, che Cristo è morto nell’anima dei suoi figli, che l’ipocrisia è discesa nella politica, fin nella vita sociale, familiare, individuale…». Ohimè, mio caro Curzio, magari fossimo ancora a questo punto; magari si trattasse soltanto d’ipocrisia. «Non facciamo nulla per impedire la sofferenza, la miseria, il male, il delitto, la violenza, la strage. Stiamo cheti e zitti…»: certo, era così a metà degli Anni Cinquanta. Ma c’era la «guerra fredda» in atto, molte cose non si sapevano, eravamo usciti da meno d’un decennio da un conflitto terribile e da una irrimediabile, umiliante sconfitta. In parte ci ritenevamo innocenti del male del mondo, ed entro certi limiti avevamo ragione; in parte ne ignoravamo l’intensità, la profondità, l’indicibile portata. Eravamo poveri, deboli, disinformati, ancora politicamente molto ingenui. Eppure c’impegnavamo: nella ricostruzione, nel lavoro, nella passione che per molti di noi era anche politica. Ricordo il fervore dell’Azione Cattolica di quegli anni; rammento le discussioni animatissime, in Piazza della Repubblica, dove tutte le sere, di fronte al «Chiosco degli Sportivi», si parlava non di sport ma di politica, e dove magari volava anche qualche cazzotto. Ma erano cazzotti puliti, tra gente povera che lavorava ma che sinceramente era democristiana, socialista, comunista, liberale, fascista: che s’impegnava, che voleva sul serio un mondo migliore.

Inguaribile ottimista, il vecchio Curzio. S’immaginava che «i nostri bambini di allora» (quindi quelli che nel ’54 avevano più o meno dagli zero ai dieci anni: quelli che ormai viaggiano tra i cinquanta e i sessant’anni), se non si fossero corretti, sarebbero divenuti un giorno «poveri corpi straziati, abbandonati nel fango rosso d’un campo di battaglia». Ma quella era l’immaginazione di uno che aveva fatto due guerre mondiali, ch’era stato un fascista sincero e anticonformista e che di lì a poco avrebbe – ancora una volta: profeticamente? – «scoperto» la Cina rivoluzionaria, con la sua durezza e le sue infinite, straordinarie potenzialità delle quali allora era quasi scandaloso parlare all’interno dello stesso Partito Comunista. Era un uomo scomodo: e lo aveva già provato con il libro e il film del ’51, Il Cristo proibito, una spietata denunzia delle viltà e delle ipocrisie che talvolta fanno pensare a tanti di noi che Gesù sia morto sulla croce invano, che il progetto cristiano sia – a guardarlo oggi – totalmente fallito e che non sia possibile per il genere umano redimersi. Ma Curzio non aveva ragione e non aveva azzeccato la sua profezia. Non c’è stata nessuna guerra che abbia distrutto i bambini degli Anni Cinquanta, anche se qualche volta ci siamo andati vicino. Al contrario: ci sono stati il boom economico, il benessere diffuso, e con esso prima quella che il sociologo Sabino Acquaviva definì L’eclisse del Sacro, quindi la forse resistibile, ma comunque vittoriosa avanzata in tutto l’Occidente d’un materialismo ben più volgare e ottuso di quello dialettico, gli effetti politici del quale (cioè il comunismo) si temevano a metà secolo. Anzi, con il crollo dell’Unione Sovietica e gli anni venuti immediatamente dopo ci siamo andati convincendo che il mondo fosse avviato verso nuove, luminose prospettive: da qui la vittoria della «libertà» individuale, destinata a non conoscere più limiti; la cancellazione, appunto, di quella «cultura del limite» che costituiva la sostanza della convivenza tra persone e gruppi e che salvaguardava dall’egoismo, dall’arbitrarietà e dalla fame illimitata di beni di consumo e di visibilità mondana, di successo, che oggi ci divorano; l’arrogante convinzione che questo, il «nostro Occidente», fosse il migliore e più giusto dei mondi possibili, e con essa l’incapacità (o la non-volontà) di scorgere le sofferenze del mondo al di fuori di noi, la fame, l’ignoranza, la miseria e le malattie che dominano i quattro quinti del mondo. E ora che molti di questi nodi sono venuti al pettine, ci vediamo costretti ad assistere alla blasfema arroganza di chi sostiene di essersi riscoperto «cristiano» e pretende addirittura di definir «nuove guerre sante» le sue guerre d’aggressione tese a depredare ancora di più il mondo o a difendere i nostri privilegi a costo di calpestare i diritti e le speranze altrui. È questo mondo, nel quale l’ateismo pratico (magari autodefinito come «ateismo devoto») trionfa in tutta la sua protervia, questo mondo di sprechi inutili nel quale i poveri non solo sono disprezzati, ma vengono addirittura perseguitati, che celebra con i suoi alberi di Natale rilucenti e i suoi centri commerciali (affollati, nonostante la «crisi»…), la nascita d’un Cristo che viene ancor più vilipeso dal fatto che, ormai, lo si chiama in causa come pretesto per legittimare le infamie e giustificare le violenze. Ma il Bambino di Betlemme viene oltraggiato e ricrocifisso ogni giorno: è Lui che vive nel povero extracomunitario che si vorrebbe cacciare dalle opulente cittadine venete perché non ha un reddito sufficiente, è Lui che isoliamo nel ghetto dei campi Rom, è Lui che i migliori di noi (attenzione: i migliori) umiliano sulle porte delle chiese allungandogli pochi spiccioli con disprezzo, senza amore, senza nemmeno guardarlo in faccia, e con ciò mettendosi magari in pace con la loro coscienza.

Il povero prete sognato da Curzio poteva dire: «Se il mondo soffre è anche per colpa vostra, che non osate difendere la giustizia e la bontà, e avete paura d’esser cristiani fino in fondo!».

Io sogno oggi un altro prete: uno che ricordi che il Natale è la festa del Salvatore del Mondo, non dell’opulenza e quindi dell’ingiustizia; uno che proibisca a tutti i cattolici di celebrarla se non nell’intimità della liturgia della Chiesa, nell’affetto per la famiglia e gli amici, nella carità verso chi soffre; che imponga loro l’obbligo della vera carità e proibisca invece qualunque ostentazione di ricchezza, qualunque spreco che offende, anche nelle più piccole cose, chi oggi al mondo sta morendo perché le multinazionali gli rubano l’acqua e gl’impediscono di curarsi l’Aids; che ci obblighi tutti a uscire allo scoperto e a contarci, a renderci conto che i cristiani autentici nel mondo sono ormai un’infima minoranza e che il resto è riempito dalla retorica, dall’ipocrisia, dal conformismo e dall’arroganza. Il Cristo non sa che farsi delle dimostrazioni di rispetto e d’affetto degli atei; non è un agente di vendita; non abita nei centri Commerciali e nei Supermarkets nei quali si celebrano le tristi liturgie dell’ingiustizia e del profitto.

No, caro Malaparte. Sbagliavi. Tu hai scritto: «Questo Bambino, che è nato per salvare il mondo, ha schifo e pietà di voi». L’umanità resta la prediletta da Chi è morto per essa: Egli non può averne schifo; pietà sì, certo, ma in un modo differente da come la concepivi tu, che implicava un forte disprezzo. Il Cristo ci ama tutti, ancora e nonostante tutto. Ma siamo noi che non possiamo più continuar a offenderLo e a dileggiarLo con i riti macabri del disprezzo del Suo messaggio travestiti da amore e da rispetto; non possiamo più continuar a festeggiare la Sua nascita profanando di fatto il Suo nome e il Suo messaggio. Smettiamo di bamboleggiare con quella che ormai abbiamo ridotto a una fiaba alla Walt Disney; piantiamola con i Santa Klaus vestiti con i colori della Coca Cola, i campanelli delle renne e tutte le altre cianfrusaglie dorate e colorate mentre i quattro quinti del mondo soffrono e muoiono. Gesù ha sofferto, nascendo, il freddo d’una povera dimora; noi Lo condanniamo a soffrire di nuovo ogni anno, nella pelle di tanti bambini africani, asiatici, americani. Essi sono il Gesù vivente dei nostri giorni: e se noi Lo trascuriamo o Lo torturiamo in loro, è blasfemo coccolarLo nei pupazzetti dei nostri presepi. Il Bambino di Betlemme dovrebbe rinascere ogni anno, nei nostri cuori. Non ci riesce. Ma in realtà, è già nato una volta e una sola. Ricordiamoci, cristianucci, che dovrà tornare. Tornerà come Re e Giudice: in virga ferrea, come sta scritto. Quel Giorno, lo attornieranno tutti i bambini come lui, morti di fame e di Aids mentre noi celebravamo i nostri Bianchi e Ricchi Natali, ci congratulavamo a vicenda per i nostri Bombardamenti Umanitari e la nostra Esportazione della democrazia e distruggevamo ogni anno tonnellate di derrate alimentari per sostenerne i prezzi e salvaguardare il mercato. Quel giorno, avremo quel che abbiamo meritato.

Il testo di Malaparte

La commedia del Santo Natale

Tra pochi giorni è Natale, e già gli uomini si preparano alla suprema ipocrisia. Perché nessuno di noi ha il coraggio di dirsi che il secolo non è mai stato così poco cristiano come in questi anni? Perché nessuno di noi osa riconoscere che la magniloquenza degli uomini politici, la «grande parata» dei sentimenti evangelici, le processioni dei falsi devoti, servono soltanto a nascondere questa terribile verità: che gli uomini non sono più cristiani, che Cristo è morto nell’anima dei suoi figli, che l’ipocrisia è discesa, dalla politica, nella vita sociale, familiare, individuale? In tutto il mondo, e anche in Italia, si ammazza, si ruba, si tradisce, s’inganna. In tutto il mondo, e anche in Italia, uomini malvagi preparano nuove violenze, nuovi massacri: e tutti noi, come se nulla fosse, ci prepariamo alla commedia (che una volta era la festa dell’innocenza) del Santo Natale. Non ci importa nulla di chi soffre. Non facciamo nulla per impedire la sofferenza, la miseria, il male, il delitto, la violenza, la strage. Stiamo cheti e zitti, festeggiamo il Santo Natale.

Tanta è la nostra incoscienza, che forse non ci accorgiamo neppure di essere complici della immoralità del mondo. E osiamo tuttavia parlare di un avvenire di giustizia e di pace?«Vorrei che il giorno di Natale il panettone diventasse carne dolente sotto il nostro coltello, e il vino diventasse sangue, e avessimo tutti, per un istante, l’orrore del mondo in bocca. Vorrei che il giorno di Natale i nostri bambini ci apparissero all’improvviso come saranno domani, fra alcuni anni, se non oseremo ribellarci contro il male che ci minaccia: poveri corpi straziati, abbandonati nel fango rosso di un campo di battaglia. Vorrei che la notte di Natale, in tutte le chiese del mondo, un povero prete si levasse gridando: via da questa culla, vigliacchi, andate a casa vostra a piangere sulle culle dei vostri figli! Se il mondo soffre, è anche per colpa vostra, che non osate difendere la giustizia e la bontà, e avete paura d’esser cristiani fino in fondo! Via da questa culla, ipocriti: questo Bambino, che è nato per salvare il mondo, ha schifo e pietà di voi».

Curzio Malaparte