Cultura & Società

Il Vescovo e Margherita

Scrive «fermoposta Paradiso», il cardinale Silvano Piovanelli al suo ex collaboratore, il vescovo Vincenzo Savio: «La tua idea di comunicare l’esperienza del sorriso nella malattia è stata geniale. Proprio un suggerimento dello Spirito. Come sono state suggerite dallo Spirito le parole di Margherita che ti ha scritto: Non perdere il tuo sorriso. Parole luminose, innocentemente audaci, con le quali una bambina di otto anni ti ha letto nel profondo, più di tutti». Ed è proprio dal suggerimento di questa bambina che è nato il libro di Umberto Folena Il Vescovo e Margherita. Vincenzo Savio sorride anche nella malattia (Ancora Editrice, pp. 104, euro 10,00). Con prefazione del vescovo di Belluno-Feltre, Giuseppe Andrich (successore di Savio), e introduzione del cardinale Piovanelli.

Il libro è nato da alcuni lunghi colloqui tra Folena e Savio nel gennaio 2004 durante i quali il giornalista, già inviato di Avvenire e ora vicedirettore de L’Adige, ha raccolto il racconto, lasciandolo in prima persona, della lunga malattia che ha portato il vescovo alla morte il 31 marzo 2004.

Savio, lombardo di origine, è stato molto tempo in Toscana, prima a Firenze, come segretario del Sinodo e poi a Livorno come vescovo ausiliare. Di seguito riportiamo alcuni brani del primo capitolo scritto, come detto, come se Savio parlasse in prima persona.

Sorrido? Sì, sorrido. Non posso dire di non essere consapevole del mio sorriso. Ma quando ce l’hai addosso senza fatica senza impaccio, con naturalezza, finisce che te lo dimentichi. Non ricordo neppure quando l’ho indossato per la prima volta il mio sorriso. Dev’essere successo tanto, tanto tempo fa. Sia chiaro non sono uno che sorride sempre. Altrimenti avrei addosso una smorfia falsa, una maschera, un ghigno che non di gioia parlerebbe ma di ipocrisia appiccicosa. Ad esempio, le rare volte in cui ho deciso, perché dovevo, di affrontare qualcuno con durezza non sorridevo. No, proprio per niente. Comunque, non ricordo la prima volta. Mi ricordo molto bene, però, di quando più seriamente e drammaticamente, ho dovuto fare i conti con lui, con il mio sorriso. Quando si sarebbe potuto spegnere. Un pomeriggio all’Ospedale San Martino di Belluno, quando un dottore in camice bianco mi disse… No, questo lo racconterò tra qualche pagina. Ecco, quel giorno ho dovuto fare i conti con il mio sorriso. Ne sono stato pienamente consapevole.Credo capiti sempre così quando potresti perdere qualcosa che hai sempre posseduto. Ti accorgi di quanto sia importante. Non solo per te. Né principalmente. Il mio sorriso era ed è importante innanzitutto per gli altri. Ne sono certo. Ed è una certezza che non deriva da qualche studio teorico, da qualche dotta lettura. Diciamo che ne sono consapevole da tanto tempo. Ma un conto è sapere le cose, altro conto è sperimentarle. Nel primo caso le cose rimangono sulla pelle. Nel secondo entrano nel cuore. Che il mio sorriso sia importante per gli altri l’ho compreso pienamente dopo la diagnosi della malattia, dopo la lettera scritta alla mia diocesi in cui non nascondevo nulla – che sono malato, che intendo lottare e restare – dopo la festa di San Martino del 2002, che non potei celebrare… Me l’ha fatto veramente comprendere Margherita.Che cosa può sapere una bambina di otto anni della malattia? E della malattia che più d’ogni altra spaventa la nostra coscienza, tanto che spesso la definiamo ricorrendo ad eufemismi, a giri di parole tipo: «malattia incurabile», anche se incurabile non è più? Il tumore, il cancro, il carcinoma, la neoplasia? Lina bambina sa quello che le dicono i suoi genitori. Sa quello che riesce a intuire da sola. Non conosco i genitori di Margherita e non so che cosa le abbiano detto del loro vescovo malato. Non conosco neppure Margherita, ma lei deve conoscere molto bene me. Infatti decide di scrivermi. E nella sua lettera inserisce cinque parole capaci di farmi molto pensare. Di farmi commuovere solleticando il mio cuore fin sulla soglia oltre la quale l’anima s’arrende e manifesta la sua resa con le lacrime. Margherita mi ha scritto: «Non perdere il tuo sorriso». (…)Una preghiera, dicevo. Questa.Margherita ha otto anni, Signore.E Margherita mi ha letto nel profondo più di tutti. «Non perdere il tuo sorriso!» mi ha scritto. Questo sorriso che Tu mi hai dato, Signore, è stato nella mia vita la certezza che mi invitavi a sentire ogni persona incontrata degna d’essere almeno non ignorata, possibilmente ascoltata e accolta.Sentivo che eri Tu nel mio sorriso l’invito a confermare, a rassicurare quanti bussavano per un consiglio, un invito alla speranza.Quanto di Te vedevo in altri, nella bellezza, nell’amicizia, nell’affettuoso corrermi incontro di bimbi e di amici rendeva il sorriso solare e duraturo.Ora io ho il timore di perdere questo sorriso perché so che se si allontana dal mio volto sei Tu, Signore, che te ne sei andato! Ho assoluto bisogno di saper sorridere Te, in questa malattia. Non mi chiudere in me, nei noiosi dolori che come aghi mi trafiggono l’addome. Che possa, come dono tuo, specialissimo atto d’amore, non impoverirmi del mio sorriso, impoverirmi di Te e continuare ad incontrare ancora volti di passanti, domande d’incerti, abbracci e canti di amici, di fratelli e di figli che restano in tutto e solo tuoi.Titolo: Conservami il sorriso, Signore!Prego così, anche perché sorridere non è facile, in certi momenti. Prego così, anche perché sorridere non mi basta più. Vorrei riuscire a cogliere nei miei mesi recenti gli episodi, e sono tanti, paradossali, grotteschi, quasi comici. È umorismo involontario di cui spesso mi sono trovato al centro. Le attenzioni premurose, talvolta troppo, di chi mi vuol bene; gli imbarazzi; le gaffes; la dedizione di chi non sa come manifestare il proprio affetto e, provandoci in qualche modo, rischia di travolgermi; le occasioni per sorridere sono infinite, sapendole cogliere.Questo libro nasce dunque perché c’è Margherita che mi invita a non smettere di sorridere; perché io mi sento responsabile nei confronti suoi e di tutti; ma non basta. C’è anche papa Luciani, il Papa – non a caso – del sorriso.La causa di beatificazione è stata avviata proprio con me, il 23 novembre 2003. E certo io l’ho voluta fortemente. In ogni caso, è il 28 settembre, a Roma. (…)In macchina siamo in tre, io, il mio segretario don Giuseppe Bratti e il vicepostulatore don Giorgio Lise. Non può essere altrimenti: finiamo per parlare della causa di Albino Luciani. Costerà tanto, ci diciamo. Spese su spese. Il pensiero delle spese diventa presto un assillo. Ma gli assilli vanno rimossi, prima che ci comincino a divorare a poco a poco. Così dico a Lise: «Inventiamoci qualcosa». Già, ma che cosa?E lì, in quel momento, mi tornano alla mente gli ultimi undici mesi, Margherita che mi chiede di sorridere con la sua letterina, Luciani che me lo chiede con il suo esempio, le tante storie che avrei da raccontare… «Sì, inventiamoci qualcosa. Ad esempio un libro». Chi lo comprerà, saprà di contribuire alla causa di papa Luciani.(da: Umberto Folena «Il Vescovo e Margherita. Vincenzo Savio sorride anche nella malattia», Ancora Editrice, pp. 104, euro 10,00)