Cultura & Società

Il dito di Dio nella storia

di FRANCO CARDINI

Non c’è dubbio che il «fatto» stia al centro della storia e ne sia di per sé anche la sostanza più profonda: la «stoffa» di cui la storia è costituita.

Al tempo stesso, però, non si può scrivere una storia costituita solo di meri «fatti». E non a caso almeno dall’inizio del Novecento si è polemizzato contro la storia «dei fatti», costituita solo di nozioni, proponendone la sostituzione in tutto o in parte con la storia delle idee, della strutture economiche, delle istituzioni, degli atteggiamenti mentali e via discorrendo. Più recentemente, si è meditato sulla natura «atomica» dei fatti, sul loro carattere «pulviscolare»: un fatto può essere un dato incontestabile, ma è come una lettera isolata: dalla quale al massimo si può cogliere un suono, ma non un senso. Il «discorso storico» nasce non dai singoli fatti, che ne sono come le vocali e le consonanti, ma dal loro reciproco significato, dalla loro contestualizzazione.

È giunta infine la critica del fatto in sé, del fatto in quanto tale, che è pervenuta a metterne in dubbio la stessa realtà. Come si fa ad essere sicuri che qualcosa sia davvero avvenuta, e lo sia nel modo in cui è stata riportata? Il film di Akira Kurosawa Rashomon è divenuto paradigmatico di un processo critico più volte ripetuto nel cinema come nella letteratura: i fatti hanno significato ambiguo, sono caratterizzati da un valore relativo, rinviano sempre ad altri fatti concomitanti, precedenti o seguenti. Il fatto è come il mythos, che in effetti è appunto il racconto di un avvenimento: che non significa nulla finché non se ne proponga un kerygma, un significato. La storia non può pertanto essere narrazione di fatti, in quanto vuol esaminare non già il «come», bensì il «perché» della cose: il «fatto» in sé e per sé, in quanto tale, si può dire che «non esista», in quanto è irrilevante. Non esistono fatti, bensì interpretazioni di fatti. È quanto hanno finito col sostenere i seguaci del Derida: è la sostanza del decostruzionismo.

D’altronde, quando dalle teorie e dalle esegesi si scende all’esame di fatti concreti, si hanno spesso sul serio delle sorprese che lasciano stupiti. E che a volte ci conducono quasi alla soglia di quel vecchio oggetto misterioso ch’è la teoria della storia. I non-credenti possono astrarne: ma i credenti sono sul serio autorizzati a parlare sempre di storia esclusivamente etsi Deus non daretur? Miracolo a parte, è credibile che il Signore non dia mai segno di accorgersi di quel che sta accadendo? E non si verifica mai che nella storia s’inserisca quello che, nel Genesi, i maghi di Faraone denunziano a proposito dei «prodigi» di Mosè, cioè che dietro ad essi sembra manifestarsi l’ezbà Elohim, il «dito di Dio»?

In occasione del centocinquantenario dell’unità d’Italia, un avvenimento che non avvenne propriamente in accordo e con il consenso con la Chiesa, non sarebbe per esempio il caso di riflettere facinorosamente su certi «segni»? Badate: niente globi di fuoco, niente Madonne che piangono. Non ce n’è nemmeno bisogno.

Sentite invece questa. È un episodio «minore», anzi minimo, del Risorgimento: al punto che non ne parla mai nessuno. Ma in un romanzo recente che non ha avuto grande eco, Immortale odium di Rino Cammilleri (Rizzoli 2007), esso viene richiamato in modo apparentemente distratto. Vale la pena di richiamarlo.

Era molto anticlericale, l’Italietta massonica e garibaldina di Francesco Crispi. Lo era anche con una certa mancanza di stile: si profanavano le chiese e i sacramenti, si assalivano le processioni, si molestavano le suore. Il tutto sotto lo sguardo benevolo e divertito delle forze dell’ordine. Per cortesia o per convenienza, i cattolici hanno taciuto per generazioni su queste cose, al punto che hanno finito per dimenticarle. Cominciamo a fornire qualche piccolo contributo alle prossime «giornate della memoria».

La nostra storiella si spalma lungo una buona trentina di anni. Nell’aprile del 1865 terminò la guerra civile americana. In tale occasione fu svenduta una grande quantità di armi, spesso di nuovissimo tipo. Fu il caso di una partita di fucili Remington ultimo modello, che fu acquistata dall’esercito pontificio allora in fase di riorganizzazione con l’appoggio di Napoleone III. Ma la distribuzione di quelle armi tardò, cadde Napoleone, i piemontesi arrivarono a Porta Pia e lo Stato pontificio con il suo esercito venne cancellato.

Intanto, quei Remington nei magazzini passati al Regio Esercito invecchiavano. Quando nel 1889 gli italiani riuscirono a mettere sul trono di Abissinia il loro candidato, Menelik II, col quale conclusero subito un trattato che poneva quel paese sotto tutela italiana rafforzando così le nostre mire colonialiste sull’Africa orientale, il regio governo decise di fare un piccolo presente al suo protetto: e gli regalò quella partita di fucili vecchi un quarto di secolo, ma ancora in buono stato di efficienza.

Quando Francesco Crispi tornò nel ’93 al governo dopo la prima non proprio gloriosa caduta, egli decise di riprendere l’espansione coloniale, e, nel contempo, anche la politica anticlericale. Nel 1894 si decretò pertanto che il 20 settembre sarebbe stato proclamato festa nazionale. Quel giorno nell’ex reggia papale, in Quirinale, si tenne una grande festa con ricco banchetto. Di grasso, naturalmente, per quanto fosse un venerdì.

Quello stesso giorno – ironia della sorte? «Coincidenza»? Ezbà Elohim? – il negus neghesti chiamava alle armi gli abissini, i cui ras era riuscito a metter d’accordo contro la nuova aggressione italiana. Nell’esercito italiano, laico e anticlericale, non c’era nemmeno un cappellano. Menelik, proclamando la guerra, aveva solennemente invocato la Madonna mettendo l’Abissinia sotto al sua protezione. In Italia gli operai, vessati dalla politica del Crispi, gridavano «Viva Menelik!». Gli italiani furono battuti solennemente ad Adua. Dagli abissini, che usarono contro di loro anche quei vecchi Remington ex pontifici. Ezbà Elohim?