Cultura & Società

«Il nome della Rosa», un libro da rileggere. Ma quanto a lungo ricorderemo il serial?

Le Roman de la Rose di Guillaume de Lorris e Jean de Meung è forse il più noto e il più letto tra i best sellers del XIII secolo. Lunghissimo e, per i nostri gusti, terribilmente indigeribile, era una vasta opera allegorica che impegnava tutto lo scibile umano dell’Occidente di allora. Umberto Eco, che prima di esser semiologo era stato e sarebbe sempre rimasto un finissimo studioso di problemi filosofici medievali (i suoi scritti sul medioevo, editi da Bompiani nel 2012, occupano un volume di molte centinaia di pagine), adorava i simboli, le allegorie, i giochi di pazienza e di abilità lessicologica e stilistica: e amava i grandi medievisti cattolici come Étienne Gilson e Henri de Lubac.

Per lui, che da giovane aveva militato nella Fuci e se n’era allontanato solo per una repentina violenta crisi interiore che tuttavia l’aveva reso ateo concettualmente sì, ma nonostante tutto profondamente – e fieramente – cattolico nell’intimo, la fede restava qualcosa di vivo e di forte, al quale guardava con rispetto e ammirazione. Senza nostalgia, comunque: forse perché, in fondo, non l’aveva mai davvero abbandonata. E anche per questo amò rispecchiarsi nel suo alter ego romanzesco, il minorita frate Guglielmo da Baskerville, il protagonista appunto de Il nome della rosa (per quanto a mio modo di vedere la sua anima profonda fosse, piuttosto, domenicana).

Il serial-kolossal-tv che ha come protagonista John Turturro, sulle cui spalle grava il non facile fardello del confronto con il celebre frate Guglielmo da Baskerville del film di Jean-Jacques Annaud, ha debuttato sui piccoli schermi lunedì 4 marzo scorso, in prima serata, ottenendo una prevedibile valanga di ascolti e una non meno prevedibile impallinatura da parte di critici sia competenti sia improvvisati quasi immediatamente sui social e il giorno dopo sui media ufficiali.

Dal canto mio, non mi pronunzio sulla distanza tra il serial e il libro che lo ha ispirato – ciò è normale; anzi, praticamente inevitabile – e avrei in cambio apprezzato il tentativo di più precisa storicizzazione della vicenda, che nel libro di Eco è, con alcune libertà e qualche volontario anacronismo, pressoché irreprensibile, mentre nel film del 1986 era alquanto sciatta e discutibile (nonostante la valorosissima consulenza di Jacques Le Goff; e non certo perché i suoi saggi e ultracompetenti consigli al regista, ai soggettisti, ai costumisti eccetera fossero mancati). Tuttavia dico subito che sugli errori e sugli anacronismi riscontrabili sul piccolo schermo non mi addentro nemmeno: dovrei riempire pagine e pagine e tutto si risolverebbe in una critica che non salverebbe quasi nulla, dai personaggi ai panorami agli edifici agli abiti alle armi e – soprattutto – ai dialoghi scelleratamente attualizzanti. Sarebbe un’implacabile e irrevocabile stroncatura di una proposta diseducativa, fuorviante, improponibile. Ma non di ciò intendo occuparmi.

Parliamo invece d’altro, di cui qui c’è occasione di parlare. Senza dubbio il serial ha colto impreparati quasi tutti gli spettatori: molti dei quali, tra i più anziani, avevano senza dubbio acquistato quasi quarant’anni fa il best seller, ma la stragrande maggioranza dei quali o non lo aveva letto per nulla, o non aveva portato a termine la lettura, o ci aveva nella migliore delle ipotesi capito pochino. Quanto ai giovani, l’ormai leggendario capolavoro echiano – tempestivamente ricomparso nelle librerie dove senza dubbio spopolerà di nuovo nelle settimanali book parades – continuerà probabilmente a restare per loro estraneo. L’usura della nostra scuola secondaria dal 1980 ad oggi, specie per quel che riguarda le discipline letterarie, storiche, filosofiche e filologiche, lo ha reso loro quasi del tutto inattingibile. Salvo eccezionalissimi casi, beninteso.

Torna comunque, quasi un quarantennio dopo (il doppio dei fatidici «Vent’anni dopo» cari ad Alexandre Dumas), il fatidico romanzo di Umberto Eco. Nel 1980, fece sul serio epoca: da allora è stato tradotto in una quarantina di lingue e ha venduto più di 50 milioni di copie. Se tuttavia appena un 10 per cento di chi lo ha comprato lo avesse letto sul serio e avesse cercato di capirlo, lasciatemelo dire, il mondo oggi sarebbe diverso. 5 milioni di persone in grado di seguire le vicende del francescano-detective Guglielmo di Baskerville e del novizio Adso da Melk in un’abbazia-biblioteca-labirinto, tra le insidie del Santo Satana benedettino Jorge de Burgos cieco al pari del suo modello (il grande Borges, il poeta reazionario argentino che Eco detestava e idolatrava) e del doctor terribilis, l’inquisitore domenicano Bernard Gui, sarebbero state davvero il sale della terra. Non è purtroppo stato così: e, nell’odierna avanzata dell’analfabetismo di ritorno dalla quale l’Occidente odierno è afflitto, i risultati si vedono.

Il libro acquistato, strapremiato, idolatrato e quasi per nulla letto del sulfureo professore alessandrino – da allora divenuto romanziere prolifico – ha fatto da allora davvero strada. Lo abbiamo visto sul grande schermo, con un leggendario Sean Connery (lo 007 per eccellenza: e chi altri sennò?) nel saio bigio di frate Guglielmo; ha dato vita a innumerevoli games informatici e a migliaia quasi sempre pessime imitazioni; ora lo stiamo vedendo sul piccolo schermo, dove il pur valente John Turturro, con la sua tormentata austerità, ci sta facendo rimpiangere il rigore tinto di humour e di umanità secondo il quale – e, come al solito, recitando in effetti largamente se stesso – il frate minorita era stato interpretato da Connery.

Perché il nucleo concettuale di tutto sta appunto lì: nel personaggio di Guglielmo da Baskerville, concittadino del «mastino» connadoyliano e teologo-detective egli stesso di qualità sherlockholmesiana («Elementare, Adso!…), maestro di deduzioni razionalistiche e di tecniche indiziarie. Guglielmo da Baskerville, minorita ex inquisitore e non insensibile né alla lezione «francescano-spirituale» di Ubertino da Casale né alla suggestione fraticellesca di Pietro da Corvara né, infine, alla lezione «laica» e «ghibellina» di Sciarra Colonna, di Marsilio da Padova e di Ludovico IV di Baviera, è molto più vicino al suo modello storico, Guglielmo d’Ockham, di quanto il personaggio romanzesco inquisitore domenicano Bernardo Gui non sia invece vicino al suo originale storico (del resto nella versione di Annaud lo era ancora meno, a dispetto del magistrale «cammeo» di Murray Abraham). E a sua volta il minorita teologo Guglielmo d’Ockham è un quasi perfetto tramite fra l’immaginario Guglielmo di Baskerville e il professor Umberto Eco, che in lui anche autobiograficamente con molta larghezza s’identifica.

In molte delle centinaia di pagine lungo le quali il romanzo si estende ci viene spiegato molto bene che cosa sia il medioevo e quanto esso disti dalla Modernità. In una di esse, irreprensibile ed esemplare, soprattutto: quando frate Guglielmo spiega agli attoniti monaci benedettini come sia fatto il cavallo dell’abate, da essi perduto e da lui non mai visto. Il fiero animale amato e cavalcato dall’abate (contro tutte le regole canoniche, le quali vietano i destrieri ai religiosi) è di color nero lucido e profondo, ed ha quindi nome Morello (e qualcosa di diabolico nella sua terribile bellezza): ha occhi infocati, froge frementi, testa piccola e altera. Orecchie aguzze, zoccolo rotondo e ben tornito, folta e generosa coda. Non può essere altrimenti che così: fior di trattati e di bestiari lo descrivono in tal modo e il veristico razionalismo della scolastica ispirata ai modelli di Pietro Abelardo e di Tommaso d’Aquino lo conferma. Per conoscere la verità è necessario e sufficiente conoscere le auctoritates e aderirvi. Questo è il Vero medievale: contrapposto al rivoluzionario Vero della Modernità, quello di Galileo, ispirato non già al ragionamento bensì all’osservazione, non alla verità logica e dialettica bensì a quella empirica. In ciò il medioevo ci è strettamente prossimo e astralmente remoto al tempo stesso: possiamo identificarci in e con esso, eppure ci rimane estraneo.

Il nome della rosa è, a modo suo e in un certo senso, un fantaromanzo storico zeppo di testi autenticamente medievali tradotti quasi alla lettera, ricchissimo di dotte e funamboliche citazioni e allusioni, ferocemente contemporaneo – e in ciò forse anche antistoricamente utopistico – che attacca senza pietà quella che nell’universo echiano è  cultura reazionaria dei tempi nostri e di sempre (il «fascismo eterno», lo ha definito in uno dei saggi che non trova onestamente posto tra i suoi migliori) e che al tempo stesso prende finemente ma concretamente posizione su un’infinità di problemi storico-filologici relativi all’età nella quale inserisce la sua fabula, un Trecento attraversato da paure apocalittiche e da audaci eresie, da scismi e pestilenze. Ma per rendersene conto bisognava saperne di cose, su quel tormentato XIV secolo e su quel cattolicissimo professore ch’era anche un diabolico maître-à-penser, un sulfureo semiologo e un  polemista ateo innamorato della scolastica. E bisogna saper molto anche sui giorni nostri.

Un romanzo ammirevole, perfido e oceanico: uno di quelli da salvare nella proverbiale cassetta di legno del naufrago su un’isola desertica che possa portare con sé soltanto pochi, fidi libri. Una summa del sapere europeo e universale, dove c’è tutto: le cattedrali specchio del mondo, la biblioteca-labirinto simbolo del cammino della vita umana con i suoi pericoli, la luce della fede e il fuoco dell’amore carnale, la tentazione e la redenzione, il diavolo che si aggira anche nei corridoi monastici tamquam leo rugiens e l’implacabile catena degli omicidi che segue il ritmo dei giorni e delle ore canoniche implacabile come la campana abbaziale, la passione degli adepti della penitenza e l’eco degli scongiuri stregonici, l’incontenibile riso che distrugge verità e certezze e i margini avvelenati del libro che ne custodisce la formula. E infine l’apocatastasi del fuoco (solvet saeculum in favilla) nella quale periscono i Giusti vissuti sempre nella certezza della verità e nel vuoto della compassione mentre da essa si salvano gli Imperfetti che hanno conosciuto l’umiliazione del dolore e la fatica del pentimento, i peccatori che attraverso la loro esperienza hanno appreso il segreto dell’umana pietà.

In un duro paesaggio di montagne desolate un’abbazia arcigna come una fortezza cela al suo interno un torreggiante edificio, un gigantesco pozzo librario a pianta ottagonale evidentemente ispirato al mirabile battistero di Parma e dal labirintico interno a molti piani. Là si svolge un’intricata storia di assassini e di assassinati, di grotteschi eppur tenerissimi cercatori di Dio e di sapienti spietati teologi, di fraticelli che cedono al fragile richiamo d’amore di ragazzine celate sotto luridi cenci e di ormai anziani religiosi che molto hanno studiato e molto sbagliato, che sanno di aver tradito se stessi e che sono abilissimi nel decodificare il minimo indizio («Elementare, Adso!…»). Là si snoda il tragico duello tra chi dai propri errori e dalla lezione della storia ha appreso a portare il peso dei propri errori e chi cerca nell’Eterno la chiave dell’inflessibile Verità che ignora il sorriso e condanna il perdono.

Il nome della rosa è un capolavoro fortunatissimo e incompreso: al pari del resto del secondo romanzo echiano, Il pendolo di Foucault, o come l’ultimo, Il cimitero di Praga, che per alquanti versi ne sono la continuazione semiautobiografica. Ma anche lì l’autobiografia, come il diavolo (o come il buon Dio?) sta nei dettagli.

E ora, non so se dulcis in fundo o in cauda venenum, concedetemi un brevissimo Amarcord. Come ho pubblicamente dichiarato il 4 giugno scorso, a «Uno Mattina», rispondendo alla domanda diretta dell’intervistatore Franco Di Mare, che sia stato io a ispirare il tema e la trama de Il nome della Rosa corrisponde a una tenace leggenda metropolitana che so né quando né come sia nata ma che non mi sono mai stancato di energicamente e recisamente smentire. Magari fosse vero: la mia debolissima e sempre pericolante autostima ne sarebbe uscita vertiginosamente rinforzata. Vero è tuttavia che per lunghi mesi e a più riprese, durante gli Anni Settanta, Umberto Eco ed io ci siamo più volte incontrati, da soli o con molti amici, maestri e colleghi: a cominciare da Jacques Le Goff, da Alberto Tenenti, da Tullio Gregory e da Ugo Tucci, che ormai non sono più tra noi; a di André Vauchez, di Jean-Claude Schmitt e di Matriatersesa Beonio Brocchieri, che tuttora lavorano e producono bellissimi scritti. In quei giorni, dalle aule seminariali delle sedi universitarie a una lunga catena di ristoranti e di bistrots a interminabili passeggiate sul Lungosenna di sera, abbiamo parlato, riso, ironizzato,  discusso e litigato sul medioevo: su quello della scolastica, che abbiamo tenacemente amato; e su quello di oggi, che – come diceva Bernardo di Clairvaux, oggetto frequente delle nostre contrapposte tirate polemiche – habet noctes suas, et non paucas.