Cultura & Società

Il sangue, storia e importanza delle donazioni

Fino dai tempi più antichi il sangue ha avuto un fascino misterioso. Gli storici riferiscono che al tempo degli Egizi il sangue veniva usato, grazie alle sue proprietà benefiche, per fare dei bagni salutari a persone ammalate o indebolite. Il medico greco Ippocrate raccomandava di ingerire sangue nei casi di mal caduco (epilessia), detto così perché gli epilettici cadono per terra se presi dal male.

Nella storia ci sono numerose altre testimonianze che raccontano come il sangue, appunto, fosse anche bevuto: per trasmettere la potenza si beveva il sangue dei gladiatori uccisi nell’arena, mentre per rinvigorire i vecchi ed allungarne la vita Marsilio Ficino ancora nel 1479 suggeriva di far bere loro sangue di giovani sani e forti.

Ovidio, nel settimo libro delle «Metamorfosi» racconta che Medea ringiovanì il vecchio Esone, dopo averlo sottoposto a salasso, introducendo nelle sue vene un umore segreto. Più tardi, Medea convince le figlie di Pelia ad assassinare il padre, promettendo loro di voler ringiovanire il loro genitore, come già aveva fatto con Esone:

«Stringite» ait «gladios veteremque haurite cruorem,/ut repleam vacuas iuvenali sanguine venas./In manibus vestris vita est aetasque parentis»./

«Brandite le spade, fuori traetegli il sangue senile, perché gli riempia di giovanile vigore le arterie vuotate: la vita e l’età fresca del padre dipende da voi».

Qui Ovidio esprime per bocca della maga Medea il concetto della trasfusione sanguigna. A quei tempi tuttavia non ci si immaginava in quale modo il sangue potesse essere introdotto nell’organismo, poiché ancora nulla si sapeva dell’esistenza della circolazione sanguigna. Perciò si dà lo stesso significato alle espressioni «somministrare» e «trasfondere»; probabilmente, anche il sangue era impiegato solo come pozione medicinale o ricostituente. Un tempo si credeva che il sangue fosse la sede dell’anima e perciò gli venivano attribuite anche tali possibilità.

Risale al 1492 la prima trasfusione di sangue che la storia ricordi, vista l’importanza del protagonista, il papa Innocenzo VIII. Questi, gravemente ammalato, ricevette il sangue da tre ragazzini di dieci anni appositamente scelti. Il procedimento non ebbe successo e il Papa morì come pure i tre giovani. Ancora non si poteva però parlare di trasfusione intesa nel senso odierno del termine poiché probabilmente il sangue non era trasfuso per via endovenosa. Ciò non sorprende, perché a quell’epoca si avevano nozioni limitate sulla circolazione sanguigna. La sua scoperta avvenne nel 1600 per opera di William Harvey.

L’inglese Richard Lower riuscì a trasfondere il sangue di un cane ad un altro cane collegando direttamente i loro vasi sanguigni, ma quando applicò la stessa tecnica sull’uomo trasfondendo sangue di pecora il paziente ovviamente morì.

La prima trasfusione di sangue di agnello praticata a un essere umano riuscì a Parigi nel 1667 al francese Jean-Baptiste Denis su un giovane di sedici anni che, nel corso di due mesi, era stato salassato venti volte per una malattia febbrile la cui causa era ignota. Nella vena del suo braccio fu introdotta una cannula d’argento precedentemente immessa nel capo centrale della carotide di un agnello. L’operazione ebbe esito positivo. Andato a segno il primo tentativo, Denis trasfuse altri tre pazienti ma l’ultimo morì.

A Roma il 10 dicembre 1667 l’anatomista e chirurgo Guglielmo Riva, medico personale di papa Clemente IX trasfuse sangue di montone nel braccio di Francesco Sinibaldi affetto da tisi polmonare; l’operazione riuscì ma l’uomo morì del suo male. Intanto in Toscana nel 1654 Francesco Folli da Poppi, prendendo spunto dalle sue personali esperienze sugli innesti delle piante, effettuò trasfusioni pensando che potessero curare malattie e fortificare le persone deboli di costituzione.

Gli insuccessi di Parigi e di Roma, l’insufficienza dottrinale e la polemica degli oppositori fecero cadere la teoria della trasfusione diretta e nel 1678 la Società parigina dei medici dichiarò la trasfusione illegale e allo stesso provvedimento giunse l’Inghilterra e lo Stato Pontificio.

Trascorsero quasi 150 anni prima che la trasfusione sanguigna venisse di nuovo affrontata dalla scienza medica. Fu ripresa dal medico ostetrico inglese James Blundell che la riesumò nel 1818 nell’intento di combattere le gravi emorragie da parto. Blundell eseguì dieci trasfusioni nell’uomo, due delle quali in pazienti che erano appena morte. Quattro delle dieci ebbero successo. In tutti i pazienti fu usato sangue umano. Nonostante ciò ancora 60 anni dopo i successi di Blundell e altri si usava sangue di animale.La trasfusione divenne attuabile su basi scientifiche soltanto dopo la scoperta dei gruppi sanguigni classici (A, B, 0) da parte del medico viennese Karl Landsteiner nel 1900. In seguito due suoi allievi trovarono il quarto e più raro gruppo, l’AB.

L. P.

L’INTERVISTA

Donare il sangue non è solo un gesto di umanità nei confronti dell’altro, ma comporta dei significati profondi che ci arricchiscono interiormente. Padre Maurizio Faggioni, docente di bioetica presso la Facoltà teologica dell’Italia centrale di Firenze e ordinario di Bioetica all’Accademia alfonsiana di Roma, parla a questo proposito del senso profondo del dono.

Padre Faggioni, che significato e che senso ha il donare?

«La vita umana è frutto di un dono, dei nostri genitori e ancora prima di Dio. L’uomo nasce e vive interamente la sua vita nella dimensione del dono che riceve, prima di tutto, ma che è chiamato a consegnare anche ad altri. Solo se l’uomo vive in questa dinamica, che è la dinamica dell’amore di Dio, la sua vita si realizza pienamente. Non c’è altra strada».

Eppure sembra che le difficoltà sociali e economiche del nostro tempo facciano dimenticare questo aspetto della nostra esistenza.

«Trovo che sia un atteggiamento purtroppo comune. La precarietà in cui viviamo oggi ci rende giustamente preoccupati per la nostra sussistenza e inclini quindi a trascurare i bisogni dell’altro. Purtroppo l’individualismo è un problema di cui non si può ignorare l’esistenza. Eppure basterebbe pensare che si dona anche partendo da cose molto semplici, anche quando si pensa di non avere niente da regalare all’altro. È necessario diffondere la convinzione che sia possibile un rivoluzione interiore, che parte dalla condivisone di qualcosa di profondamente nostro».

Che intende per condivisione?

«Già solo un sorriso, ad esempio, è condivisone. È il dono più semplice che si possa fare all’altro, così come il nostro tempo. È mettere noi stessi in ascolto dei bisogni dell’altro. Il sangue, in questo caso, ha un valore altissimo, al di là del semplice aspetto medico e clinico. Donare il sangue è compiere un gesto simbolico, in quanto il sangue è simbolo stesso, essenza della vita. Donando il sangue si dona una parte di noi stessi che è la cosa più preziosa che possediamo: la vita. Si regala gratuitamente all’altro la possibilità di vivere, si dona un diritto e si ribadisce per noi stessi l’inclinazione profonda del nostro essere. Non solo, ma riscopriamo noi stessi al di là delle divisioni sociali che giornalmente ci separano. Ognuno può donare il sangue, perché è parte di noi stessi, che uno sia povero o ricco e questo fa sì che nessuno possa dire all’altro: tu non hai niente da dare. Il sangue è un dono della persona. Può essere donato, non venduto, perché si vendono le cose e il sangue è più di una cosa, è qualcosa di noi stessi. Si può solo regalare attraverso un gesto di amore, così come nessuna persona è merce dell’altro».

Siamo di fronte a un cambio generazionale per quanto riguarda la donazione del sangue, le vecchie generazioni stanno lasciando il posto alle nuove, ma non sempre i giovani rispondono. Perché secondo lei?

«Se c’è una “categoria” (se si può dire così) di donatori per eccellenza è proprio quella dei giovani, perché è al loro modo di essere che appartengono con più entusiasmo valori come la solidarietà e lo spirito di condivisione. Il problema è che non sono sensibilizzati, manca loro il supporto che li spinga a donare con slancio. In qualche modo, non hanno un canale che indirizzi al meglio le loro energie. È necessario che la loro non sia solo mera formazione alla logica del dono, ma vera e propria testimonianza di speranza, per chi riceve ma soprattutto per loro, perché attraverso il dono del proprio sangue riscoprano la bellezza della propria persona. Perché vede, donare è sì un dono che si fa all’altro, ma è anche regalo a noi stessi, perché in tal modo riconosciamo e riscopriamo la nostra unicità e la nostra forza».

Sara D’Oriano

LA SITUAZIONE IN TOSCANA

Avis e Fratres: «serve incentivare la cultura della donazione»

Sono 105.093 le donazioni di Avis, 120 mila quelle di Fratres, 76 mila i donatori. Detta così la situazione toscana della donazione del sangue sembra solo un’accozzaglia di numeri. Ma come affronta la nostra regione il tema della donazione del sangue? Lo abbiamo chiesto a Luciano Franchi, presidente di Avis, e a Francesco Scarano, presidente di Fratres, le due associazioni nazionali più presenti, numericamente, nella nostra regione. «In dieci anni le donazioni sono cresciute progressivamente del 40 %, con una media annuale del 4,5% – spiega Franchi – e di questo siamo molto contenti, ma dobbiamo anche registrare un incremento del fabbisogno di sangue, sia esso intero (come siamo abituati a conoscerlo), soprattutto nei gruppi 0, 0+, A+, sia sotto forma di plasma, sia nelle sue diverse componenti (multicomponent, in linguaggio tecnico)». La Toscana è in condizione di autosufficienza per quanto riguarda la richiesta di sangue intero, ma in deficit di circa il 30% per le unità di plasma: «La difficoltà – sottolinea Scarano – e la sfida, per le nostre associazioni, è garantire la continuità di scorte per tutto l’arco dell’anno, per evitare situazioni di crisi, come quella che si è verificata a Pasqua, in cui è stato necessario richiedere sangue alla Puglia». Il sangue intero può essere conservato per circa un mese dal momento del prelievo, cosa che garantisce la creazione di scorte, ma sia Franchi che Scarano concordano sulla necessità di promuovere la cultura della periodicità della donazione per evitare criticità: «Avis è presente in Toscana con 170 sedi, in Italia con 3500 – spiega Franchi –. Con questa presenza, capillare e in aumento, è più facile dedicarci al primo impegno del nostro lavoro, preparare il terreno alla solidarietà». «Far comprendere l’importanza della periodicità e aumentare la cultura della donazione, soprattutto fra i giovani, sono i temi principali del nostro lavoro – conclude Scarano –. I problemi sociali influiscono molto sulla scelta di donare il sangue. Chi ha problemi difficilmente si dedica a un gesto gratuito come donare il sangue. I primi destinatari delle nostre attività di sensibilizzazione, i giovani, devono comprendere che, mancando il loro contributo, non c’è continuità nel futuro, soprattutto ora che stiamo vivendo un cambio generazionale importante». «In questo, il servizio civile – spiega Franchi – fa tanto perché i giovani donatori sono testimonial di loro stessi per i loro coetanei. Spesso si associa la donazione del sangue all’incidente stradale o all’intervento chirurgico. È errato. L’oncologia, la geriatria e un’importante fetta dell’industria farmaceutica che si occupa della trasformazione del plasma in medicinali salva vita, che poi troviamo in commercio, sono oggi ambiti prevalenti nell’utilizzo del sangue. La varietà di utilizzo permette di intuire la necessità di reperire il sangue. Non esiste sangue artificiale, non si può produrlo. Con la donazione, doniamo un farmaco e il diritto a ricevere cure mediche, il diritto alla vita».

Sara D’Oriano