Cultura & Società

In corteo al voto. Così la Toscana scelse di unirsi al Regno sabaudo

di Romanello Cantini

Una settimana prima del plebiscito che centocinquant’anni fa doveva sanzionare l’annessione della Toscana al regno sabaudo Bettino Ricasoli scriveva al suo fattore di Brolio che il giorno della votazione ponesse in fila tutti i suoi contadini, gli mettesse la bandiera tricolore in testa e la scheda per l’annessione in tasca e li portasse fino all’ultimo a depositare la scheda nell’urna. Il «barone di ferro» non scherzava. A Gaiole in Chianti fece arrestare dodici contadini che avevano chiesto di poter avere anche la scheda per il regno separato. Per il Ricasoli, allora governatore della Toscana, la votazione in gruppo doveva essere generalizzata. Ai prefetti scriveva che i fattori dovevano portare a votare i contadini, i benestanti i parrocchiani, i notabili gli abitanti della loro strada e del loro quartiere. La pressione più forte era quella dei padroni sui mezzadri, cioè su oltre la metà dei toscani di allora. Come diceva il proprietario terriero di Pescia Giorgio Magnani, «Chi non vota non pota», facendo balenare l’arma terribile della disdetta dal podere.

Dovunque il voto fu quindi un atto più collettivo che individuale. A Castelfiorentino all’ora quasi antelucana delle sette e mezzo dell’11 marzo 1960 il gonfaloniere e i priori del comune, preceduti dalla guardia civica e dalla banda in uniforme, si recarono nella parrocchiale di San Lorenzo, dove erano attesi dal proposto in pompa magna e dai canonici al completo, per formare tutti insieme il corteo-processione che doveva portare la popolazione a votare. Del resto il voto segreto era quasi impossibile, perché per votare per il regno separato l’elettore doveva chiedere l’apposita scheda da un urna a parte. Con questo sistema di voto, che ricordava più il suffragio per tribù dell’antica Roma che un moderna consultazione popolare, la vittoria savoiarda fu schiacciante: 366.571 voti andarono all’annessione al regno di Sardegna e solo 14.925 andarono ad un indefinito «regno separato». I separatisti vinsero solo a Castiglion Fiorentino e persero per un solo voto a Radda in Chianti. L’opposizione all’annessione, visto il modo in cui si era votato, si nascondeva fra gli oltre centocinquantamila toscani che non erano andati a votare, pur avendone diritto e non a caso proprio ad Arezzo, dove fin dall’inizio del secolo con i moti di «Viva Maria» era apparso il clima più antiliberale, l’affluenza superò di poco la metà di chi poteva votare.

La posizione della Chiesa. La Chiesa toscana passò attraverso questa svolta con crisi di coscienza e angosce laceranti. I vescovi toscani allora in carica erano stati nominati dal Granduca e per cultura ed esperienza erano portati alla lealtà verso lo stato anche ora se si trattava di uno stato diverso. D’altra parte l’annessione della Toscana che si accompagnava all’annessione di gran parte dello Stato pontificio dalle Romagne alle Marche provocò la scomunica della casa Savoia e dei dirigenti liberali da parte di Pio IX poche settimane dopo l’annessione. Comunque l’opposizione (maggioritaria) e l’adesione (minoritaria) all’annessione della Chiesa toscana rimase piuttosto discreta e distaccata nei fatti fino al giorno delle votazioni. Si mostrarono chiaramente contrari all’annessione i vescovi di Pisa, di Volterra e di Lucca. Apertamente favorevoli non pochi sacerdoti soprattutto a Grosseto, Montepulciano, Viareggio.

Il conflitto tenuto in sordina esplose invece violento dopo il plebiscito quando il nuovo governo, più incline al giurisdizionalismo del vecchio regime che alla formula «libera Chiesa in libero Stato» sostenuta solo a parole dal Cavour, chiese ai vescovi di celebrare il Te Deum per l’annessione della Toscana al regno di un re «scomunicato». Si rifiutarono di intonare il Te Deum il vescovo di Lucca, monsignor Arrigoni, il vescovo di Livorno ormai ottantenne e il vicario di Fiesole, monsignor Frescobaldi. Il rifiuto più intransigente e puntiglioso venne però dal vescovo di Pisa, Cosimo Corsi, sulla cui vicenda scrisse a suo tempo molte pagine Vittorio Gorresio nel suo Risorgimento scomunicato. Il Corsi non solo si rifiutò di celebrare il Te Deum in cattedrale, ma, quando seppe che il governo stava per far celebrare la cerimonia da un prete qualsiasi nella chiesa di Santo Stefano, provvide a far togliere dalla chiesa il Santissimo e tutti gli arredi. Il Cavour in persona ordinò che l’arcivescovo fosse arrestato dai carabinieri e portato a Torino dove rimase recluso per due mesi rifiutandosi di rispondere, come se fosse un prigioniero politico, a qualsiasi domanda del ministro della giustizia Cassinis che inutilmente lo interrogava. Quando dopo due mesi il cardinale tornò a Pisa, il delegato di polizia convocò tutti i parroci della città per ingiunger loro di non recitare né tridui né Te Deum e tanto meno di non suonare le campane per celebrare il ritorno del presule.

Tendenze «conciliatoriste». Ad una avventura opposta andò incontro il cardinale di Firenze Giovacchino Limberti. L’arcivescovo fiorentino era convinto che la politica doveva rimanere separata dalla religione. Per questo non solo partecipò al Te Deum dopo l’annessione, ma il 6 aprile tenne in cattedrale una cerimonia in onore del re alla sua presenza e due settimane dopo ricevette di nuovo Vittorio Emanuele II in Santa Maria del Fiore, in occasione della posa della prima pietra della facciata del Duomo che proprio allora si iniziava a costruire. Il papa, attraverso il nunzio, fece arrivare al Limberti una lettera di duro rimprovero. L’arcivescovo rispose chiedendo perdono, ma Pio IX volle che licenziasse almeno il suo vicario Amerigo Barsi, che aveva fama di filo liberale. Anche monsignor Barbacci, vescovo di Cortona, dopo aver scritto una circolare filosabauda fece atto di contrizione al papa. Tuttavia le tendenze «conciliatoriste» continuarono ad essere più forti in Toscana che altrove. Anche il cardinale D’Andrea, successo al Limberti, fu ammonito e poi sospeso dal papa per la sua attitudine collaborativa con il nuovo stato. I cattolici toscani, anziché rifugiarsi nell’astensionismo che non voleva riconoscere il nuovo stato, si presentarono alle elezioni almeno finché non arrivò il non expedit.

Nonostante un suffragio elettorale che riservava il diritto di voto a poco più di quarantamila possidenti (un toscano su quaranta) alle elezioni del 1865 i cattolici si presentarono quasi dovunque e in 25 circoscrizioni su quaranta costrinsero i liberali al ballottaggio. A Firenze perfino l’ex-capo del governo Bettino Ricasoli fu costretto a misurarsi per due volte con il cattolicissimo Vito d’Ondes Reggio nel collegio di San Giovanni e l’ex-ministro Ubaldino Peruzzi dovette affrontare in un secondo turno Clemente Busi nel collegio di Santa Croce.

Leva e brigantaggio. All’inizio del nuovo regno si videro soprattutto gli aspetti negativi. Fra questi la coscrizione obbligatoria che portò via le braccia giovani alle famiglie contadine con la sola protezione dei danni della stessa povertà perché ai distretti spesso la metà dei giovani era riformata per «debole costituzione» o per «deficienza toracica». La renitenza alla leva provocò soprattutto in Maremma quel banditismo che ebbe nel brigante Tiburzi l’esempio più famoso. Ci fu poi l’aumento della pressione fiscale cresciuta di un terzo già nel 1862 e diventata infine intollerabile con quella tassa sul macinato che esigeva una lira per ogni quintale di cereale portato al mulino e che provocò rivolte a Dicomano, a Reggello, a Pelago mentre in tutta la regione costrinse i mugnai a macinare solo sotto la protezione di un carabiniere vicino. Il nuovo codice civile impose il non riconoscimento del matrimonio religioso se non era seguito da quello civile in comune. Così per l’anagrafe i matrimoni crollarono dai 20.038 del 1961 ai 9.385 dell’anno dopo perché più di metà dei promessi sposi toscani scelsero il prete e non il sindaco. Per alcuni aspetti la Toscana fu ancora favorita da una legislazione lorenese che era più moderna di quella piemontese. La pena di morte rimase per questo motivo proibita in Toscana fino al 1883, mentre era in vigore nel resto d’Italia. La riduzione della tariffa doganale che il governo piemontese estese a tutta Italia trovò in Toscana una tariffa doganale ancora più bassa risalente al granduca Pietro Leopoldo.

Crescita economica. Gli aspetti positivi apparvero invece a lungo termine. Gli alunni della scuola elementare che erano 64.591 nel 1961 divennero 195.074 quarant’anni dopo, cioè dal 24 al 60 per cento dei ragazzi in età scolare. Nello stesso periodo la mortalità generale diminuì dal 31,19 al 20,69 per mille e la mortalità infantile dal 227 al 143 per mille. La media dei depositi individuali in banca crebbe dalle 26 alle 76 lire. La discreta rete ferroviaria toscana ebbe uno dei traffici di viaggiatori più alti d’Italia. Dovunque crebbero i teatri, le bande musicali, gli sport dell’epoca, le occasioni di intrattenimento. Firenze, che al momento della unificazione era ancora chiusa dentro la terza cerchia, con i lavori per la città capitale divenne una città moderna con l’abbattimento delle mura e la creazione dei viali di circonvallazione con i palazzi adiacenti, ma anche con impietose e colossali operazioni di sventramento come quella che nella zona dove è oggi Piazza della Repubblica demolì oltre quattrocento abitazioni e cinquecento negozi e cacciò dal vecchio centro più di cinquemila popolani. Prima di essere capitale d’Italia Firenze contava appena centomila abitanti. Nel 1882 ne aveva centottantamila, ma di essi ben 72 mila erano riconosciuti come poveri a tutti gli effetti.

L’economia toscana continuò a fondarsi sulla agricoltura e sulla mezzadria che, seppure con una economia di stretta sussistenza, evitò alla nostra regione la piaga della emigrazione, che nello stesso periodo colpì invece quasi tutte le altre regioni italiane. Ma se la maggior parte dei toscani continuò a vivere di pan di segale e di fagioli in mezzo ai campi, l’aristocrazia fiorentina e i grandi proprietari terrieri scoprirono la finanza proprio perché con l’unificazione cominciarono a praticare la politica.

Il ruolo dei toscani. Nel primo governo che succedette alla morte improvvisa del Cavour ci furono tre toscani su nove e in posizioni chiave: Bettino Ricasoli alla presidenza del consiglio, Pietro Bastogi alle Finanze e Ubaldino Peruzzi ai Lavori pubblici. Il governo Ricasoli è famoso per aver cancellato senza possibilità di appello dai programmi di governo quell’ente regione che aveva proposto il ministro dell’Interno Marco Minghetti e per avere irritato la Chiesa con le sue proposte di riforma ecclesiastica proprio mentre ne cercava il dialogo. Ma è più famoso per avere inaugurato un colossale progetto di lavori pubblici e di costruzioni ferroviarie basate sul prestito pubblico.

In un Italia in cui i conflitti di interessi sembra che siano arrivati prima degli Etruschi il ministro Bastogi si fece attribuire in pratica l’appalto della costruzione delle ferrovie istituendo quella Società delle Strade Ferrate Meridionali nel cui consiglio di amministrazione fece entrare quattordici deputati su venti membri, fra cui lo stesso Ricasoli. Da allora la cosiddetta «Consorteria», cioè i proprietari terrieri toscani che fecero da guida ai primi anni dell’Italia unita, scoprì la finanza prima di scoprire l’industria. Sulla scia delle fortune di Bastogi e dei suoi sodali, in Toscana ci fu un continuo fiorire di operazioni finanziarie in cui politica ed affari gestirono e sfruttarono quasi tutto compresa la ricostruzione di Firenze e in cui le banche nacquero una dopo l’altra a cominciare dalla Banca Nazionale Toscana che ebbe per direttore un Combray-Digny e la Banca di Credito per l’Industria e il Commercio, che ebbe per direttore un Ridolfi.

Per avere una idea di che cosa significasse questa nuova economia degli affari accanto alla vecchia economia del grano, del vino, dell’olio e della paglia, quando Bettino Ricasoli morì, lasciò accanto al un patrimonio avito in immobili di 2.300.000 lire un patrimonio in azioni e obbligazioni di 2.800.000 lire. Per capire di che cosa si parla con queste cifre bisogna ricordare che un bracciante era fortunato quando guadagnava una lira al giorno perché in genere veniva pagato con ottanta centesimi.