Cultura & Società

La Chiesa che fa notizia

di Andrea Fagioli«L’hotel a 3 stelle che non pagherà l’Ici. Viaggio tra gli immobili della Curia fiorentina esentati dall’imposta comunale: al Convitto della Calza una camera costa 100 euro, una sala convegni dai 600 ai 1200 euro». E per di più «il Convitto della Calza è off limits alle associazioni gay e lesbiche». Così l’edizione fiorentina de L’Unità titolava in apertura a tutta pagina sabato 8 ottobre.

Un centinaio di chilometri più a sud, in una delle zone più belle della Toscana, in una «bomboniera» di teatro, un centinaio di persone ascoltava le accorate parole di Dino Boffo, il direttore di Avvenire: «La Chiesa fa notizia quando può essere collegata alla politica, al sesso o al denaro. Meglio se è un intreccio di tutti e tre gli ingredienti, anzi allora è il massimo. La chiave di lettura prevalente, se non addirittura esclusiva, dei fatti ecclesiali è politica. Ciò che conta e interessa è il potere. L’egemonia». In più, «la Chiesa sembra fare notizia solo quando è porpora. Se parlano i cardinali. O comunque i suoi vertici». Da qui la prima forma di clericalismo, quella della stampa laica, che lo condanna a parole e lo pratica nei fatti identificando «la Chiesa e il mondo cattolico unicamente nei suoi vertici clericali».

Ma accanto alla Chiesa «avida» descritta (spesso con il ricorso al falso) dalla stampa laica, c’è per fortuna quella (spesso autentica) raccontata dai fogli popolari locali come L’Araldo Poliziano, testata centenaria dell’attuale diocesi di Montepulciano-Chiusi-Pienza e ora una delle 16 edizioni di Toscanaoggi.

Una storia gloriosa, quella dell’Araldo, celebrata sabato scorso al Teatro Poliziano di Montepulciano e ripercorsa dalla giornalista Laura Valdesi. Una storia segnata anche, e forse soprattutto, proprio dalle questioni economico-sociali, come quando si occupò delle lotte agrarie e dei problemi dei contadini. «La provincia di Siena, non lo dimentichiamo – spiega Valdesi –, era insieme a quella di Arezzo e Firenze, una delle più tipicamente mezzadrili della Toscana. Da brivido la descrizione delle abitazioni in cui vivevano i contadini tanto da indurre il settimanale a invocare “non lussi, non esagerazioni ma che siano abitabili senza perderci la salute del corpo e dell’anima”. “Diroccate, malsane, piuttosto stalle di animali che di uomini”, si legge nel 1906. “Mi ricordo che visitai una malata – si legge ancora – la quale durante la sua patologia lunga sette mesi stette sempre in camera che prendeva aria dalla cucina con certe pareti nerissime da far concorrenza alla faccia di un africano”».

Della riforma agraria si parlerà diffusamente nel dopoguerra «allorché si registra l’abbandono delle campagne e, già nel ’56, l’Araldo inizia a fare i conti con ben 600 disoccupati nel comune di Montepulciano legati, a suo dire, “alla mancata realizzazione di opere di una certa consistenza, al crescente esodo dei contadini in città, all’assenza di una manodopera sufficientemente qualificata”».

Tante, insomma, le battaglie dell’Araldo per lo sviluppo e la valorizzazione del territorio, ma come ha tenuto a precisare il direttore di Toscanaoggi, Alberto Migone, «per un giornale l’oggi è il suo tempo» e il senso di un convegno come quello di Montepulciano era proprio questo: «far ponte tra memoria e futuro». Un ponte al quale hanno contribuito gli interventi del vescovo Rodolfo Cetoloni, del sindaco Massimo Della Giovampaola, del vicepresidente della Federazione italiana dei settimanali cattolici, Francesco Zanotti, e del coordinatore diocesano don Azelio Mariani, che ha ricordato soprattutto l’opera dei suoi predecessori a partire da quei quattro audaci monsignori che il 23 aprile 1905 mandarono in stampa il primo numero de L’Araldo Poliziano per contrastare «la campagna di propaganda anticlericale alimentata soprattutto dalla stampa di ispirazione socialista, liberale e massonica».

«Se arriviamo a dieci numeri ce l’abbiamo fatta», disse il vescovo di allora, Giuseppe Batignani. Fu cattivo e buon profeta allo stesso tempo: il giornale superò i primi dieci numeri arrivando fino a noi, cent’anni dopo.

Ma se il tempo di un giornale è l’oggi, ecco allora che l’Araldo, e con lui l’intera «famiglia» di Toscanaoggi e della stampa cattolica in generale, si trova a fare i conti nel presente ancora con l’anticlericalismo. Questa volta con quello «che fino a qualche decennio fa era appannaggio di talune classi borghesi metropolitane, ma che ora, grazie ad una accorta politica massmediale, è diventato un sentire diffuso, pubblico. Popolare, anche. Nel senso – spiega Boffo – che una certa insofferenza anticlericale si dilata, e oggi magari convive nelle stesse persone con un robusto sentimento religioso, ma di una religione sempre più fai-da-te, distaccata dalla mediazione sacramentale della Chiesa».

Da qui lo scatto del direttore di Avvenire: «Forse un poco più di sano orgoglio, di matura consapevolezza di sé, di adulto disincanto non guasterebbero ai cattolici italiani», chiamati alla «speranza attiva», a «spendere ragioni» e a creare «un reticolo di maggiore consapevolezza».

Un grande Marasco per cantare un secolo… anzi ottoNella Firenze del Medioevo e del Rinascimento le laudi mariane erano praticamente serenate a un’innamorata e come tali venivano cantate, esaltando la bellezza della Madonna. Mica come oggi, che in chiesa si strascica tutto…». Non ha avuto davvero peli sulla lingua, Riccardo Marasco, durante il suo scoppiettante concerto di sabato sera. Tanto più che la considerazione sulle non eccelse esibizioni canore delle nostre assemblee liturgiche si è spinta ben oltre, attingendo al più colorito linguaggio toscano e, diciamo così, «investendo del problema» lo stesso vescovo Rodolfo Cetoloni, seduto nelle prime file. Ma se da una parte il celebre cantautore ha pensato bene di non autocensurarsi, il pubblico del Teatro Poliziano ha dimostrato di gradire moltissimo un’esibizione di un’ora e mezza che, invece dei cento anni di canzone toscana annunciati dal titolo, è riuscita a presentarne ben ottocento. Marasco si è mosso perfettamente a suo agio, riuscendo a offrire al pubblico una panoramica assai ben congegnata della nostra tradizione canora, accompagnata dalle opportune spiegazioni ma anche da irresistibili gags come quella sui turisti giapponesi a Firenze e in Toscana, inserita in mezzo alla sua celebre «Teresina». Saltando con incredibile bravura dalle laudi mariane alle canzoni da bettola del Rinascimento, dalla poesia sentimentale dell’amor cortese ai cavalli di battaglia di Odoardo Spadaro e alla sua stessa produzione, ha tenuto banco senza incertezze con la sua eccezionale voce accompagnata semplicemente dall’immancabile chitarra ad ala.Un grande spettacolo, sorprendente per la leggerezza e l’ironia con cui Riccardo è riuscito a legare assieme generi ed epoche tanto diverse. Ma il segreto c’è ed è in fondo quello della sua stessa carriera e della sua instancabile e appassionata attività di ricerca: l’amore al canto – colto o popolare che sia – come espressione privilegiata dell’animo umano, e insieme l’amore alla propria terra. Per questo anche a Montepulciano il pubblico, pur divertendosi e ridendo fino ad avere le lacrime agli occhi, ha potuto nondimeno apprezzare lo spessore culturale dell’itinerario proposto dal cantautore e la sua sincera preoccupazione nel continuare a tener viva e desta una tradizione non certo indenne dagli assalti che la globalizzazione sta portando avanti anche in campo canoro.M.L.