Cultura & Società

La Toscana e la tradizione del pellegrinaggio

DI FRANCO CARDINITra le forme di devozione religiosa, il pellegrinaggio è una delle più antiche e diffuse. Certo, la parola che lo designa non è antica: viene dal latino e, nella sua primitiva accezione – adottata dal cristianesimo – indica il viaggio verso una mèta rispetto alla quale si è stranieri (peregrini), ma che è assunta come simbolo d’un punto d’arrivo più santo e definitivo: in questo senso, il pellegrinaggio è per il cristiano il simbolo stesso della vita umana; questa terra non ci appartiene, non è la vera patria; la vita è un viaggio, un «passaggio» (passagium era nel basso medioevo il termine tecnico per indicare anche la spedizione crociata), e tutti aneliamo a tornare alla Casa del Padre.

Il pellegrinaggio cristiano nasce senza dubbio dall’esperienza ebraica dell’alyah, la «salita verso Gerusalemme»; e il pellegrinaggio musulmano, lo haj, s’ispira ad entrambi. A Gerusalemme, il Tempio era la mèta dei pellegrini ebrei (e quel che autenticamente ne rimane, il «Muro occidentale», lo è ancora); e per un certo periodo fu anche la mèta principale dei musulmani, che sull’impianto di esso elevarono il santuario della Cupola della Roccia.

I cristiani avevano tuttavia sostituito, come mèta del pellegrinaggio gerosolimitano, al Tempio il Sepolcro di Gesù, individuato secondo la tradizione in circostanze molto complesse dall’imperatrice Elena madre di Costantino e attorno al quale venne costruita una splendida basilica poi più volte distrutta, danneggiata e restaurata fino ai giorni nostri.

Tuttavia, la dimensione del pellegrinaggio nelle tre fedi sorelle nate dal Patto fra Dio e Abramo somiglia sul piano morfologico ad esperienze che, in altre religioni, si possono a loro volta definire «pellegrinaggi»: ma se ne discostano parecchio nella sostanza. Tutte le altre religioni – che con un termine tuttavia molto generico e inadeguato si ha l’abitudine di definire «pagane» – aderiscono a una concezione mitica e hanno una struttura immanente, cioè concepiscono il Sacro come fortemente connesso con il cosmo e con la natura. Date queste premesse, i loro «pellegrinaggi» sono ordinariamente volti a santuari che costituiscono la memoria d’un fatto mitico o che corrispondono a luoghi (di solito montagne, vulcani, fonti, laghi, caverne) nei quali si hanno speciali manifestazioni di tipo «cratofanico», cioè connesse con forze o qualità specifiche della natura o con fenomeni preternaturali o tali considerati. Caratteristici di molte religioni (si pensi all’antico paganesimo greco e romano) sono ad esempio i pellegrinaggi verso santuari dotati di un valore terapeutico: autentici viaggi della speranza, volti a ottenere o a recuperare la salute. Oppure verso santuari nei quali sia possibile ottenere indicazioni a carattere divinatorio utili per il futuro.

Il cristianesimo ha ereditato molte di queste tradizioni e le ha adattate al culto della Vergine e dei santi, magari obliterando antichi culti e sostituendoli con il suo oppure fondandosi sulla memoria di apparizioni o di eventi miracolosi, o ancora sulla presenza di immagini sacre o di reliquie. Ma questo aspetto fenomenologico del pellegrinaggio cristiano non deve indurre in inganno.In realtà, le tre religioni di ceppo abramitico costituiscono nel loro insieme una compatta eccezione rispetto a qualunque altra forma di culto mitico-religoso. La loro concezione di Dio è non mitica, bensì storica; la loro struttura intima è trascendente, non immanente. Dio non appartiene alla natura, ma ne è il Creatore e il Signore; il pellegrino ebreo, cristiano e musulmano non affronta il santo viaggio alla ricerca di manifestazioni di potenza cosmica o naturale di sorta, ma si muove alla volta d’un Luogo Santo, segno e prova della realtà e della storicità del patto tra Dio e l’uomo un patto attraverso il quale appunto Dio irrompe nella storia.

Il pellegrinaggio a Gerusalemme, per il cristiano, è una testimonianza di fede, un gesto teso a riannodare e a rafforzare il patto. Su di esso si fonda la legittimità di qualunque altro pellegrinaggio, dal momento che la Vergine, gli apostoli e i santi altro non sono se non mediatori tra uomo e Dio.

La carità divina, costantemente presente nella storia, consente tuttavia che anche altri luoghi compartecipino di questo speciale tesoro di grazie. Fin dall’XI secolo, il santuario di Santiago de Compostela dedicato all’apostolo Giacomo è stato investito di un valore storico e spirituale speciale: così, fin dal I secolo, la città di Roma in quanto non solo caput mundi, ma anche caput martyrum: e il giubileo, fondato da papa Bonifacio VIII nel 1300, lo ha ricordato: mentre santuari dedicati alla Vergine, agli angeli, ai santi hanno volta per volta e luogo per luogo fondato o talvolta anche ripreso antiche tradizioni, connesse magari con miracoli tra i quali, sempre più spesso, importanza speciale hanno rivestito quelli a carattere taumaturgico. L’impetrazione di grazie connesse con la salute fisica non va mai disgiunta tuttavia, nella tradizione cristiana e nella devozione dei fedeli, dalla consapevolezza che quel che si va a cercare – anche a Lourdes, a Loreto, a San Giovanni Rotondo – è la salvezza spirituale, che si ottiene grazie alla fede, alla penitenza (carattere intrinseco al pellegrinaggio cristiano) e ai sacramenti: salvezza della quale la salute fisica è un segno.

Dall’Ottocento tuttavia, dopo un lungo momento d’eclisse dovuto a varie ragioni – costi troppo alti, insicurezza del viaggio, disinteresse per una mèta contestata dalla Riforma e verso la quale si era diffusa una certa disaffezione, sua sostituzione con mète simboliche dotate di analoghe possibilità di lucrare indulgenze – è tornato in auge anche il pellegrinaggio a Gerusalemme, al quale costante impulso ha dato l’Ordine francescano attraverso istituzioni della sua Custodia di Terrasanta. Gli avvenimenti tragici degli ultimi anni, connessi con il conflitto israeliano-palestinese, hanno provocato una comprensibile flessione in questa pratica alla quale il mondo cattolico aveva conferito un valore al tempo stesso devozionale, culturale e turistico nel senso migliore e più alto del termine. Si era parlato di un «turismo religioso»: e, per quanto l’espressione possa sembrare ambigua, il fenomeno era in genere di alta qualità.

Si trattava di accompagnare la religiosità e la testimonianza di affetto per i Luoghi che avevano assistito alla vita terrena del Signore con un’esperienza arricchente sotto il profilo storico e culturale. La massiccia presenza di pellegrini cristiani sosteneva inoltre l’economia locale, creava ricchezze e al tempo stesso, moltiplicando le occasioni d’incontro, favoriva la convivenza e la reciproca conoscenza.

Da oltre un quarto di secolo mi occupo di storia del pellegrinaggio gerosolimitano del mondo medievale. Ho dedicato all’argomento vari lavori, ultimo in ordine di tempo un massiccio volume dal titolo In Terrasanta. Pellegrini italiani tra medioevo e prima età moderna (Il Mulino, 2002, pagine 536, 20 euro). La mia ricerca si fonda anzitutto su una lunga serie di diari di pellegrinaggio, redatti nella stragrande maggioranza dei casi in volgare, alcuni dei quali sono anche sotto il profilo letterario testi di straordinaria importanza. Firenze e la Toscana hanno al riguardo una ricca tradizione: e il Seminario Maggiore di Cestello, ad esempio, custodisce ancora un codice prezioso nel quale l’orafo Marco di Bartolomeo Rustici raccontò nei primi Anni Quaranta del XV secolo le avventure del suo viaggio in Terrasanta. Il «Codice Rustici», celeberrimo anche per alcune illustrazioni al tratto che fedelmente riproducono i monumenti della Firenze del Quattrocento, è tuttora inedito. Lo ha studiato a lungo, e molto valorosamente, una collega pistoiese, la professoressa Lucia Gai, e anche studiosi stranieri si sono accinti alla medesima fatica: ma il pubblicarlo è un lavoro davvero pesante e costoso. Possibile che non si possa valorizzare una fonte del genere? Possibile che in Firenze non si rintraccino forze pubbliche e private in grado di sostenere l’impresa? In autunno, vorrei organizzare un convegno di studi su quel prezioso testo: spero che Comune e Curia arcivescovile mi sostengano.

Al tempo stesso, credo sia molto opportuno rilanciare coraggiosamente, proprio dalla Toscana, la tradizione del pellegrinaggio gerosolimitano. Non nascondo di aver pubblicato il libro In Terrasanta, al di là dei miei interessi scientifici, anche per questo motivo. Grazie alla collaborazione di un grande studioso toscano, Marco Tangheroni, e dell’editore pisano Pacini, anni fa varammo una collezione di testi dal titolo Corpus Italicarum Peregrinationum, finalizzata alla pubblicazione di questi straordinari racconti di viaggio. La pubblicazione è ora sospesa, anche per mancanza di fondi. Non sarebbe opportuno riprendere tutte queste iniziative e riavviare anche la pratica di visite di toscani in Terrasanta? Non sarebbe utile collegare la ripresa di queste iniziative anche a scopi pratici, tesi ad aiutare e a sostenere la popolazione locale (specie gli arabi cristiani di Palestina, una comunità oggi in una situazione davvero difficile)? Ad esempio incoraggiando mostre-mercato dei prodotti artigianali cristiano-palestinesi, lavori in olivo e madreperla sovente di grande pregio? Qualcuno ha avanzato la candidatura al Nobel della Pace per i francescani di Terrasanta, specie in seguito alla generosa e coraggiosa opera di mediazione dei padri del convento della Natività di Betlemme che per lunghe settimane hanno subìto l’occupazione del loro santuario da parte dei miliziani palestinesi e l’assedio dell’esercito israeliano. In Toscana abbiamo prelati francescani che, come Rodolfo Cetoloni vescovo di Pienza e Montepulciano, conoscono bene (per averla a lungo vissuta) la situazione della Terrasanta. Firenze non ha ancora del tutto dimenticato di essere stata, al tempo dei «Colloqui mediterranei» di La Pira, al centro delle iniziative di pace in tutto il Vicino Oriente. Possibile che non si riesca a rifondare la tradizione del pellegrinaggio toscano, a trasformarne lo studio in un’occasione di crescita civile anche per la nostra identità storica, ad appropriarci con energia dell’iniziativa vòlta a far conferire il Nobel ai francescani di Betlemme?

Propongo questa serie d’iniziative – per le quali pongo umilmente a disposizione le mie poche competenze – alla regione Toscana, alle Province, ai Comuni a cominciare da quello di Firenze, la città dei «Colloqui mediterranei»; di Pisa, l’antica città marinara la cui cattedrale (come dimostrò a suo tempo Piero Sanpaolesi) s’ispira nelle sue dimensioni alle due basiliche di Gerusalemme e di Betlemme; di Lucca, la città del Santo Volto. Le propongo alla Conferenza Episcopale Toscana. Le propongo ai tre Atenei toscani e alle molte Fondazioni che sostengono di solito le iniziative culturali. Possibile che non ci sia spazio per qualcosa che, fra l’altro, contribuirebbe al ristabilirsi della pace e al ricollocamento della Toscana al centro dell’attenzione internazionale?