Cultura & Società

La dittatura del telecomando

DI ANDREA FAGIOLIDell’Auditel si parla da anni: croce e delizia dei personaggi tv, ma croce e delizia anche nostra perché i programmi possono cambiare, essere spostati o addirittura sospesi per il rischio ascolti. L’Auditel non è nata con la tv, ma da tempo (per l’esattezza dal 7 dicembre 1986) la condiziona con un meccanismo sostanzialmente perverso, che al di là di tutto e in ogni caso, misura la quantità e non la qualità. Il problema è che i dati quantitativi degli ascolti diventano giudizi inappellabili. Addirittura misurerebbero il consenso, sarebbero «metri di democrazia».

Ma così non è, anche perché quando si parla di televisione, qui in Italia, più che di democrazia si parla di «dittatura», non intesa in termini politici o partitici, ma in termini, diciamo così, di «monopolio culturale», o quantomeno «mediatico». Basta fare un confronto con la diffusione dei giornali. La quantità di comunicazione attraverso la tv raggiunge ormai livelli incomparabilmente superiori a quelli di tutte le precedenti fasi della civilizzazione umana.

E a decidere sostanzialmente che tipo di comunicazione passare è proprio l’Auditel, società costituita in parti uguali da 3 componenti: l’emittenza pubblica (Rai) per il 33%, l’emittenza privata (network nazionali e tv locali) per un altro 33%, gli utenti di pubblicità (Upa) e le principali associazioni delle agenzie e dei centri media (AssAp, Otep, Assomedia) per un altro 33% e dalla Federazione editori giornali (Fieg) per il restante 1%. La rilevazione avviene in modo automatico per mezzo di un apparecchio elettronico (meter) che raccoglie ogni giorno, minuto per minuto, l’ascolto di tutti i 99 canali di ogni televisore in funzione nell’abitazione della famiglie cosiddette «meterizzate», circa 5 mila, con 14 mila componenti di età superiore ai 4 anni.

Ma chi sono queste misteriose «famiglie Auditel» o «meterizzate»? E qui nasce la prima perplessità. L’Auditel ha individuato un cosiddetto «panel», cioè un vasto gruppo di famiglie di telespettatori che dovrebbero rappresentare, essere un condensato dell’intera popolazione italiana. Il problema, però, è che questo persone sarebbero scelte con criteri di mercato, ovvero sarebbero dei consumatori e non dei cittadini.

In poche parole una famiglia di non consumatori, ovvero che spende poco per gli acquisti, che non frequenta i supermercati, non entrerà mai nell’Auditel. Eppure, niente vieta che quella famiglia abbia i suoi gusti e i suoi interessi televisivi. Inoltre, bisogna essere «guardatori» della tv: non sono infatti accettate famiglie che dichiarano di vederla meno di 3-4 ore al giorno. Per cui vengono scelte persone già ampiamente massificate.

Un altro aspetto che non depone a favore dell’Auditel è un aspetto tecnico: bastano 31 secondi in un minuto per essere considerati ascoltatori di quel minuto. Vale a dire che guardando per pochi secondi un programma, il tempo minimo per capire che non interessa, si viene invece catalogati come ascoltatori di quella rete. Ma l’Auditel è accettato da chi fa pubblicità e la paga in base agli ascolti, presunti o reali che siano.