Cultura & Società

La «gabbia matta» degli oggetti del passato

di Carlo Lapucci

Spiega Giuseppe Lisi nel suo ultimo libro La gabbia matta che questa è «una sorta di paniere a ciambella di vinchi intrecciati – 50 cm di altezza e 10 di spessore, quasi un guanciale di stuoia – era tirata giù dal granaio nell’inverno e posta tra la neve appositamente spazzata dietro i pagliai, dove i passeri si ritrovavano. Dacché era posata nel prato si chiudeva l’unica uscita, rappresentata dal foro circolare (15 cm) sul piano del fondo. La ritrosa di vinchi cominciava da quel passaggio interrotto: tre giri concentrici a spirale, cui seguono le barre strette delle fiancate e dopo i cerchi delle volte, senza che la maglia s’interrompa, le spire precipitano nell’occhio a imbuto, con ciglia di stecchi che impediscono la remissione».

Era un tempo lo strumento con cui si rimediava nei giorni di neve un arrostino di passerotti con una polenta per tirarsi su il morale: una trappola ingegnosa che non era consigliabile usare d’estate perché, attratto dagli uccelli prigionieri, s’infilava subito un serpe che, restandovi chiuso anche lui satollo e prigioniero, costituiva una spiacevole sorpresa. Una trappola per uccelli, per serpi e per contadini. Lisi l’ha presa appunto come metafora della sua indagine sulla cultura sommersa: la gabbia matta (matto mi pare richiami la morte, come lo scacco matto) è quel meccanismo per il quale, allettati dalle prospettive migliori, i contadini e gli uomini in genere si sono trasferiti, soprattutto nel secondo dopoguerra, dalla civiltà della terra in quella della macchina, facendo buoni acquisti, ma perdendo una ricchezza fondamentale che rimane irrecuperabile al di là di solide sbarre.

Il bilancio di un’epocaAl bilancio di questa perdita Lisi ha dedicato praticamente la sua vita di studioso segnata di opere uscite, come questa, puntualmente dallo stesso Editore, la Libreria Editrice Fiorentina: La cultura sommersa (1972) che ebbe grande successo (Premio Viareggio opera prima 1973); Il Regolo (1979); Senza patria (1987); Il gobbo e la fortuna (2000) e l’ultimo appunto: La gabbia matta (2008, pp. 258, euro 20). La scrittura è sempre un po’ ermetica, allusiva, raffinata, precisa, coinvolgente: non si possono tradire le proprie origini.

Con il titolo del primo libro, La cultura sommersa, Lisi indicava già la metafora fondamentale del suo discorso: esiste ai nostri giorni una cultura presente a vari livelli: inconscio, di memoria, linguistico, che però è stata sommersa dalla nuova cultura: quella industriale, razionalista, pratica che ha cancellato e sta cancellando ogni struttura mentale preesistente per instaurare la filosofia pragmatica, utilitarista, geometrica, consumista. Dopo quaranta anni l’esperienza conferma la rilevazione e fa vedere sul piano empirico il risultato.

Lisi però, anche negli altri libri, più che nella deprecazione del disastro, ha sempre posto l’accento nel recupero possibile di un patrimonio, rinunciando al quale l’uomo si condanna ad una ben misera sorte: non era mai successo che l’uomo avesse sradicato da se la propria storia, rinnegando gran parte della riflessione del passato, in cambio di un piatto di lenticchie. Il metodo dello scrittore è semplice nello schema: si tratta di ricostruire attraverso i reperti modesti e trascurabili del passato prossimo e remoto il pensiero che ha guidato le mani che l’hanno costruiti. È difficile nella realizzazione, perché si tratta di far parlare i particolari che comunemente sono considerati insignificanti.

Per lui il contadino che intreccia la gabbia matta non ha nulla da invidiare come idea del mondo a Dedalo che fabbrica il Labirinto. Nell’opera dell’uomo nulla è casuale, ma ogni elemento, sia pure il più trascurabile, è posto in funzione comunicativa di pensiero, di relazione, di richiamo nelle forme di metafora, analogia, simbolo. È soprattutto il pensiero analogico che è quasi scomparso per far posto a quello logico concettuale, arido, preciso, capace di far girare le macchine, ma incapace di parlare della vita. Per l’uomo della terra tutto era espressione. Scrive Lisi a questo proposito (pag. 223): «Non contenta del significato la cultura contadina con tratti minimi tende all’espressione; se ciò che esprime resta ignoto, è perché ha spinto la chiarezza all’estremo, che risponde all’astrazione, ovvero all’indicibile. I segni sono esilissimi. La donna che lavora a riparare la calza, che spinge l’ago nel tessuto fino al guscio e risolleva l’ago, partecipa della conoscenza dei sapienti; vede come nasce la vita futura, assiste allo stato successivo, non di una vita, ma del cosmo; e nell’uovo di legno, che impugna, contempla il serpe del mistero. L’uomo di lettere o di religione, che montagne russe, per trovare questo distacco dalla vita quotidiana! La rammendatora comprende le differenze, attraversa il ponte e non è presa dalla gabbia».

Lisi analizza con grande acume le cose più diverse e ne trae un lungo filamento che lega questo mondo in una grande analogia: i nodi, le chiavi, i bottoni dei costumi tradizionali sardi, la pietra del fulmine, i confetti, le nocelle, la catena del camino, gli amuleti, i covoni, la coda del tasso e così gli elementi linguistici come i modi di dire o favolosi come la Novella di Petuzzo. Si ricostruisce così questo mondo, si legge, s’interpreta, si decodifica. L’autore non s’impegna tanto sulle implicazioni che comporta questo sconvolgimento, ma nell’opera risulta implicito ciò che si può esplicitare in margine alle sue pagine.

Il mondo e la macchinaIl mondo creato dalla macchina, mentre dà l’impressione di dilatare a dismisura le possibilità e lo spazio dell’esistenza, in realtà sta costruendo lentamente una gabbia dilatata, ma dalle sbarre sempre più forti e sempre più fitte. Ci si entra dentro entusiasti, abbagliati dai benefici, senza considerare abbastanza quello che si deve perdere. L’aumento di benessere è certo innegabile e le acquisizioni sono evidenti in tutti i campi: la vita si è allungata, la sicurezza è aumentata, la scuola è accessibile, la fatica nel lavoro è diminuita, insieme a tante altri vantaggi. Ma, forse per un oscuro presentimento, si evita di guardare indietro. Era certo doveroso progredire, ma forse non era necessario demolire tanto in fretta istituti millenari come la famiglia, credendo alle promesse dello stato quando garantiva d’assicurare a ciascuno dalla culla alla bara benessere, salute, lavoro, tutela, giustizia: questo solo dal punto di vista pratico; sotto altri aspetti la devastazione è ancora più tragica. Lo stato pian piano si tira indietro e lascia l’individuo alle prese con problemi più grandi delle sue forze e soprattutto nella solitudine e nell’insicurezza. La vita si prolunga, ma s’inoltra nella sofferenza e nell’isolamento. Le disponibilità sono aumentate, ma una mattinata in borsa può bruciare i risparmi d’una vita.

L’organizzazione sociale attuale ha separato nel vivere quotidiano le varie età, per cui la generazione successiva è estranea a quella precedente e questa non si riconosce minimamente in quella che la segue: ognuno vive per conto proprio in un equilibrio precario e senza condivisione. È quasi finita la tradizione orale. I valori cambiano come le mode e chi ha avuto un fine nella vita, se lo enuncia, rischia il ridicolo. Ci si culla nell’illusione d’essere diventati furbi rispetto alle generazioni passate: tutte miopi, ottuse e meschine perché non avevano il computer e il telefonino. Ma neanche Aristotele andava in bicicletta.

Chiunque, in casa e fuori, è spiato da occhi nascosti, telecamere, cimici, intercettazioni telefoniche, ambientali: i computer sono finestre aperte per lo stato e per i delinquenti, che possono mettere a nudo la vita di chiunque. L’uomo è diventato veramente lupo per il proprio simile: gli vende medicine dannose o inutili, alimenti avariati, gli sottrae organi vitali, lo spoglia di quel che ha, lo usa come cavia, lo degrada nel lavoro senta tutela, nell’inquinamento, nelle radiazioni.

Il passato ci aveva consegnato un’idea della vita, un’eredità di valori, distillati nel tempo, verificati, provati, che era fatta non tanto di grandi principi, quanto di piccole attenzioni, di valutazioni delle cose anche più semplici, alla base delle quali c’era il rispetto di un ordine universale che, per parola di Dio, era buono, al di là delle nostre opinioni: Vide che tutto era buono. Solo a noi è venuto in mente, e ci siamo rilasciati il permesso, di sterminare le specie vegetali e animali nella convinzione che sia irrilevante la loro esistenza, così come si crede naturale alterare l’ambiente, annientare foreste, spargere veleni nell’aria, nell’acqua e nella terra.

La conoscenza, ad esempio, procedeva individuo per individuo evitando generalizzazioni, astrazioni, etichette: il contadino uccideva le volpi e le faine che gli procuravano danno, ma non aveva nella mente l’idea di animale nocivo. Anzi, andava oltre: per una tradizione che si conosce già nel Medio Evo lasciava di proposito nei campi durante le raccolte, sulle piante, sopra le viti, qualche spiga, qualche frutto, qualche grappolo destinati a chi aveva fame, ma soprattutto agli animali, come gli uccelli, in modo che si potessero sfamare, soprattutto all’arrivo del freddo. Allorché insetti, topi, talpe infestavano i campi, si chiamavano stregoni e incantatori, e anche i parroci per le benedizioni. Ma se si va a vedere nel vecchio Rituale la formula di tale esorcismo, si trova che non si chiede a Dio lo sterminio di questi animali, ma semplicemente l’allontanamento: che se ne vadano altrove, dove non possano fare danno.

Questo rispetto nei confronti della natura non l’abbiamo più: la logica economica impone di maciullare con le ruote dei trattori l’eccedenza di prodotti, di frutta che potrebbe abbassare i prezzi, costringe a bruciare il caffè, destinare i cereali alla produzione di combustibile.

Anche l’insegnamento della Scuola di Francoforte, sulla strada tracciata da Freud nel Disagio della civiltà, non è valso a nulla. Diceva semplicemente: più l’uomo acquista in benessere, in utile, più perde in libertà e in valori. Se ne discusse a lungo, contestando la società dei consumi. La contestazione aveva anche questa tra le sue verità, ma non ha inciso minimamente nei comportamenti. La difesa dell’ambiente ha prodotto l’industria della difesa dell’ambiente.

De La gabbia matta si può dire che sia un antidoto coraggioso rispetto alla spropositata dimensione del fenomeno, contro l’estraniazione dell’uomo da mondo. Nella cultura sommersa c’era un collegamento in una sola vita degli aspetti polimorfi della manifestazione: l’operazione più importante dopo quella di imporre il nome alle cose. Ecco quello che stiamo distruggendo ponendo l’utile come fine assoluto: prima di depauperare il mondo con le devastazioni, spegneremo la luce che brilla in ogni creatura, la favilla che illumina ogni uomo che viene nel mondo, trasformando il mondo in una gelida palude d’indifferenza.