Cultura & Società

La storia, i luoghi comuni, gli equivoci

DI FRANCO CARDINI

Il mio articolo sull’11 settembre (11 settembre, nove anni dopo «risposte zero») ha suscitato qualche dubbio in un cortese lettore, il quale ha inviato al nostro giornale una missiva pubblicata sul numero del 3 ottobre scorso e corredata di una risposta – a mio avviso appropriata – di Claudio Turrini (11 settembre, quella coincidenza con il 1683).

Il lettore rievocava la giornata dell’11 settembre 1683, vigilia della liberazione della città di Vienna da un formidabile assedio turco che già durava da circa due mesi grazie all’intervento delle truppe «dei principi cristiani»: e si chiedeva se la data dell’attentato del 2001 non si possa ipotizzare non già come una «casuale coincidenza», bensì come il «segnale di un disegno interrotto che si vorrebbe rimettere in marcia». Tale disegno, specificava il lettore, era in sostanza rappresentato dalla «plurisecolare marcia di conquista nel nome dell’Islam dell’Europa cristiana, al culmine della sua avanzata verso Roma».

Turrini, rispondendo, faceva notare come la semicoincidenza fosse già stata notata dallo studioso cattolico americano Michael Novak e da Paolo Mieli. Resta il fatto che la liberazione di Vienna avvenne un 12, non un 11 settembre: e, nella regola degli anniversari, non si può dire che in fondo era quasi lo stesso. Gli anniversari, o sono quelli o non ci sono. Peraltro, seguendo il ragionamento del lettore, si potrebbe ipotizzare che l’aggressione statunitense all’Afghanistan, il 7 ottobre 2001, ricalcasse la celebre data della vittoria delle navi ispano-veneziano-pontificie sulla flotta ottomana a Lepanto, il 7 ottobre 1571. Un’altra allusione storica al supposto «conflitto di civiltà»?

Da cultore di cose storiche, vorrei con molta modestia far notare che fare storia, studiare storia, significa anzitutto e soprattutto evidenziare le differenze e le specificità. Sociologi e antropologi sottolineano somiglianze e analogie: ma, in storia, quel che qualifica il «fatto» è anzitutto il suo essere unico e irripetibile, pur con tutte le sue somiglianze rispetto a fatti analoghi.

Lasciamo quindi da parte l’esagerazione dei «300 cannoni» del gran vizir Kara Mustafa sotto Vienna: la debolezza del suo parco d’artiglieria fu una delle cause del suo insuccesso. Lasciamo da parte anche la questione dei «principi cristiani»: a liberare Vienna furono alcuni principi e alcuni contingenti militari del Sacro Romano impero (il duca di Lorena, i principi elettori di Baviera e di Sassonia, il margravio di Brandeburgo, le milizie franconi e sveve), le truppe dei possessi ereditari della casa d’Asburgo e il re di Polonia. Il papa aveva inviato molto denaro e si era impegnato sul piano proporzionale; e parecchi volontari erano venuti un po’ da tutta l’Europa.

Ma i «principi», proprio no. Brillavano per la loro assenza gli Asburgo di Spagna, la stessa Venezia, gli stati italici, le potenze protestanti europee; quanto al re di Francia, Luigi XIV, appoggiava gli ottomani e sarebbe stato lieto di un tracollo dell’imperatore che gli avrebbe consentito d’impadronirsi delle regioni renane. Dall’altra parte invece, da quella delle potenze musulmane, lo shah sciita di Persia avrebbe voluto assistere alla rovina del suo acerrimo nemico, il sultano Mehmed IV d’Istanbul, ed esortava le potenze europee a picchiar duro. Insomma, guerra egemonica per il controllo dell’area balcanica, sì; ma «guerra di religione» o «scontro di civiltà», no davvero.

Ma il lettore sembra al corrente dei sogni ottomani di conquista di Roma, «la mela d’oro»: del desiderio del sultano di abbeverare i suoi cavalli nella vasche di piazza San Pietro. Era una ricorrente millanteria: del resto, fino dai primi del Duecento, i principi cristiani avevano a loro volta parlato di riconquista di Gerusalemme, e più tardi della stessa Istanbul. Il fatto è che, a tale fine, le forze dell’una e dell’altra parte erano del tutto inadeguate: ed entrambe lo sapevano benissimo.

Tra Quattro e Cinquecento, il duello tra i turchi ottomani da una parte, la repubblica di Venezia (alternata all’impero asburgico) dall’altra, riguardava lo specchio di mare adriatico-ionico-egeo e la penisola balcanodanubiana: che però erano teatri alternativi di guerra, dal momento che nessuno poteva permettersi il lusso di tenere contemporaneamente entrambi i fronti.

Resta comunque in piedi, almeno, il mito del «plurisecolare attacco islamico all’Europa»? Nemmeno per sogno. Non v’è alcuna continuità storica tra gli arabo-berberi che invasero la penisola iberica nell’VIII secolo (inserendosi in un ormai plurisecolare vuoto demografico e politico-religioso) e non furono affatto fermati nel 732 nella battaglia di Poitiers (tanto è vero che una decina d’anni più tardi conquistavano buona parte del sud-ovest della Francia: il che non sembra rappresentasse un disastro per nessuno), le crociate combattute tra XI e XIII secolo dagli europei occidentali contro gli emirati turchi del Vicino Oriente e contro il califfato sciita del Cairo e infine, in tutt’altro quadro storico, le contesa tra Europa e impero turco ottomano (con i suoi alleati maghrebini) fra Quattro e Settecento.

Mutavano i soggetti politici e militari, le prospettive di conquista e/o di difesa, i contesti socioeconomici e socioculturali in cui questi differenti conflitti s’inquadravano. Contesti rappresentati da vivi, intensi, continui scambi economici, culturali e diplomatici tra potenze cristiane e potenze musulmane, in un clima ch’era tutto meno quello della sopraffazione reciproca e del tentativo di piegare la controparte e di convertirla con la forza.

Episodi crudeli, certo, ve ne furono: tuttavia cristiani e musulmani non si scontrarono mai con la ferocia e l’odio reciproco, con la ferma volontà di distruzione che caratterizzò le guerre di religione tra cattolici e protestanti nella Francia del tardo Cinquecento o dell’Europa durante la «guerra dei Trent’Anni».

Anzi: la vicinanza continua produsse addirittura stima e simpatìa. Uno dei tratti fondamentali della cultura dell’Europa moderna è l’«orientalismo», cioè l’idealizzazione dell’Oriente e la passione per tutto quel ch’era orientale; e il principale modello di eroe cavalleresco del medioevo, destinato a diventare più tardi il protagonista della tolleranza illuministica, era un principe musulmano del XII secolo, il Saladino.

Il fatto è che insomma, combattendoci ma al tempo stesso frequentandoci, siamo riusciti a stimarci e perfino ad amarci. Se questa secolare simpatìa reciproca sembra oggi, in molti ambienti, cedere il passo all’odio, ciò dipende dalle ideologie fondamentaliste: che si travestono da «ritorno all’antica purezza» ma sono, al contrario, squallide mistificazioni modernistiche. Politica travestita da religione. Non dimentichiamolo.