Cultura & Società

Lucio Dalla, il poeta che cantava

DI MARCO TESTI

“Le volpi con le code incendiate non parlano ma gridano pazze/ fra gli alberi per il dolore”.

Era vero. È vero. Il dolore non si può dire a parole, non è più né poesia né canzone, né retorica. Se mai solo la condivisione può avvicinarsi all’ustionante dimensione della sofferenza, per sentire insieme. Altrimenti è inutile. Con un’eccezione: quei due versi di Roberto Roversi cantati da Lucio Dalla in un disco che finché il sole splenderà rimarrà uno dei più importanti della musica e della poesia italiana del Novecento, “Anidride solforosa”. Adesso che Lucio Dalla se ne è andato all’improvviso, mancando di 3 giorni l’ormai famoso 4 marzo (per via di una canzone eseguita all’odioso-amato Sanremo), quando avrebbe compiuto 69 anni, ci si rende conto che le sue “canzonette”, soprattutto quelle scritte insieme a Roversi tra il 1974 e il 1977, hanno fatto anche un pezzo di storia della letteratura contemporanea. Perché se è vero che finalmente le antologie letterarie si stanno adeguando inserendo le poesie, perché di poesie si tratta, di Cohen, Dylan, Brel, Brassens, De Andrè, Lennon, McCartney e altri, è altrettanto vero che in quell’irripetibile periodo sono apparse alcune tra le più belle canzoni d’autore: per rimanere a Dalla e Roversi, “Tu parlavi una lingua meravigliosa” (e si guardi alla semplice e spoglia bellezza dei titoli), da cui abbiamo tratto i versi iniziali, la stessa “Anidride solforosa”, e poi “L’auto targata TO” o “L’operaio Gerolamo”.

Cinquant’anni di carriera piena, dal jazz dei primordi con gli Idoli e i Flippers alle canzoni più vicine all’impostazione dei suoi idoli (Ray Charles e James Brown), come “Paff…bum!” e “Questa sera come sempre”, alla semplicità, che non vuol dire minor impegno artistico, de “Il gigante e la bambina” (una canzone in cui si parlava della pedofilia) e “Piazza Grande” (con protagonista un senza tetto), o “La casa in riva al mare” (la storia di un carcerato), il periodo della denuncia sociale con Roversi e poi il ritorno a una concezione più popolare della canzone, ed ecco il tour con De Gregori, “Bugie”, “DallAmericaCaruso” e tanti altri successi, oltre che vere e proprie “spedizioni di confine”, nella lirica, nel teatro e nel cinema.

Ma di lui rimane anche un’altra lezione: la sua indipendenza. Attaccava lo sfruttamento e la violenza del sistema senza mai essersi dichiarato marxista, e questo, ai suoi tempi, era un’eresia, a sinistra. È riuscito a dare voce a mendicanti, operai morti sul lavoro, pazzi, emarginati senza fare propaganda di partito, ma anzi, affermando sempre la sua identità di cattolico. E questo nel mondo della cultura non era una passeggiata: erano i tempi in cui si faceva a gara nel dichiararsi più a sinistra di chi stava a sinistra del Pci e nello sventolare un brillante, intelligente, ipercritico materialismo ateo.

Dalla non ha mai voluto sentir parlare di conversione, perché lui cristiano ci si è sempre sentito. Non è tanto per la sua partecipazione ad appuntamenti ufficiali, come “La notte dell’Agorà” o per alcuni testi chiaramente riferiti a Dio, ad esempio “I.N.R.I” o “Come il vento” (ma tanti anni prima, nei Sessanta aveva cantato “Il cielo”), ma per una impressionante, anticonformista presenza di immagini sacrificali nella sua musica e nei suoi testi, fossero essi viaggiatori senza meta, uomini soli e apparentemente privi di uno scopo nella vita, abbandonati da tutto e da tutti.

Ha fatto più politica sociale (nel senso nobile del termine) lui che tutti i partiti dell’arco costituzionale, perché milioni di persone, giovanissimi e attempati padri di famiglia hanno amato – e talvolta capito – le ragioni dei clochard, dei carcerati, dei solitari, degli sfruttati e degli emarginati.

Valga per questo nostro ultimo saluto quello che Roversi scrisse sulle note di “Anidride solforosa”: “Io ti segno a dito e tu segna pure me: sono felice”. Nonostante la tristezza dell’addio, rimane la felicità di quella lunga stagione in cui bellezza e autenticità hanno camminato insieme. Grazie per questo.