Cultura & Società

Mike e gli altri per un genere intramontabile

DI ANDREA FAGIOLIL’inizio della programmazione televisiva in Italia coincise con una fase sperimentale in cui la novità tecnica del mezzo fu sufficiente ad attrarre l’attenzione del pubblico. Qualunque cosa messa in onda era da vedere. Di lì a poco, la televisione, pur conservando il carattere sperimentale, scoprì alcuni generi particolarmente adatti al mezzo e fra questi i quiz a premi.

Lascia o raddoppia?, Il musichiere divennero ben presto degli eventi sociali: i pochi bar con tv venivano presi d’assalto nelle sere di trasmissione; gruppi di inquilini o parenti si riunivano nell’unica casa dotata del nuovo apparecchio; in alcuni cinema e teatri si cercò di rimediare al pericolo di spopolamento ricorrendo all’uso di proiettare in sala le trasmissioni. Il quiz, la possibilità di arricchirsi, la competizione, il vincere nell’Italia del boom economico ebbe un riscontro enorme con un’onda lungo fino al 1973 quando il Rischiatutto condotto da Mike Bongiorno (il presentatore a cui più di ogni altro è legata la storia del telequiz in Italia) toccò un indice di ascolto di 20 milioni e 700.000 spettatori con un gradimento pari a 75. Nello stesso periodo il Telegiornale delle 20,30 segnava un identico indice di gradimento, ma un ascolto di 16 milioni. Al terzo anno di programmazione, Rischiatutto aveva raggiunto la punta massima in assoluto di 27 milioni di ascoltatori nella finalissima dei Supercampioni la sera del 10 giugno 1972.

Se all’inizio i motivi del successo delle trasmissioni a quiz potevano essere ridotti a due (la novità del mezzo unita a quella che possiamo definire «l’ideologia anni Cinquanta»), dopo mezzo secolo tante cose sono cambiate in Italia e nel mondo e anche la televisione, da tempo, ha abbandonato la fase di sperimentazione. Progressivamente ha preso coscienza della propria forza di coinvolgimento e su questa ha sviluppato le proprie possibilità di espressione e comunicazione fino a diventare l’elettrodomestico più diffuso, il «sempreacceso». La vorticosa espansione del mezzo ha travolto i vecchi contenuti e il vecchio modo di fare tv, ma non i quiz e le trasmissioni in qualche modo legate ai soldi.

Dopo una fase di momentanea decadenza, intorno alla fine degli anni ’70, i telequiz hanno ripreso vigore con l’avvento delle grandi tv private. I network hanno cominciato a fare il verso alla Rai, portandogli via anche i presentatori, e la Rai, per tutta risposta, ha rifatto il verso ai network e quindi a se stessa.

In anni recenti il successo dei quiz si è proprio legato al nuovo modo di fare televisione imposto dalla concorrenza fra le emittenti. L’imperativo di non far mai scendere l’interesse del pubblico ha fatto cambiare in modo irreversibile stile e contenuto dei programmi. I quiz sono stati gli unici già preconfezionati capaci di rispondere alle nuove esigenze: la frammentarietà della loro impostazione permette allo spettatore di «saltabeccare» qua e là nella convinzione di essere libero di scegliere il programma che vuole (con una sorta di vero e proprio montaggio personale), senza rendersi conto che, proprio in forza dell’uniformità accennata, finisce per vedere sempre le stesse cose.

Di recente i quiz sono tornati con forza alla ribalta, addirittura come «traino» robusto dei tg: si pensi a L’eredità condotto da Amadeus su RaiUno o a Passaparola con Gerry Scotti su Canale 5. Per non parlare di Sarabanda, condotto da Enrico Papi su Italia Uno, che pur non essendo legato ad alcun tg è diventato un fenomeno di costume rifacendosi, di fatto, al vecchio Musichiere, con la differenza di creare ad ogni costo il personaggio. «Nei provini cerco di leggere anche le frustrazioni dei concorrenti – ha confessato Papi –. Scelgo gente che dalla vita non ha avuto tanto e aspira ad un riscatto. Poi mi invento il look adatto».