Cultura & Società

Nel musical su don Zeno il racconto di una straordinaria esperienza umana

“Voi portate il Vangelo della danza”. Così don Zeno Saltini (1900-1981) si rivolgeva ai figli di Nomadelfia, bambini e ragazzi tolti alla strada e accolti dal sacerdote nella sua comunità. Per loro, don Zeno nel 1965 aveva istituito “Le serate di Nomadelfia”, spettacoli itineranti in cui, attraverso la danza e il teatro, comunicare “il messaggio sempre nuovo del Vangelo”. Il 13 gennaio prossimo, al Teatro Moderno di Grosseto (Via Tripoli, 35 – Grosseto), 87 figli di Nomadelfia andranno in scena con l’opera “I ragazzi di don Zeno”, musical scritto da Franca De Angelis e diretto da Anna Cianca, frutto di un laboratorio teatrale avviato all’interno della comunità. Oggi a Nomadelfia vivono circa cento ragazzi minori, nati o “rinati” in comunità, in affido familiare e provenienti da diverse realtà di disagio. Con Francesco Materazzo, presidente di Nomadelfia, Marta Fallani per il Sir ha parlato di questi “figli per sempre”.“I ragazzi di don Zeno”, fuori dalla comunità, si trovano a contatto con una realtà giovanile molto diversa. Come vivono il confronto con i coetanei? “A Nomadelfia non esistono cancelli, c’è un continuo contatto con l’esterno, con persone che vengono a trovarci, e a cui non chiediamo nessuna professione di fede. Non è un’isola felice in mezzo a un mondo in difficoltà. I nostri figli da più di quarant’anni calcano tutte le piazze d’Italia e incontrano persone di ogni provenienza. Non sono esenti da confronti con l’esterno, che vivono come qualsiasi coetaneo che ha un’esperienza di famiglia, anche se questa segue certe linee magari non condivise”. Come i “figli per sempre”, che provengono da situazioni di disagio, affrontano poi il mondo, una volta usciti dalla comunità? “Un figlio incontra a Nomadelfia prima di tutto una famiglia. Vive, con altre famiglie, in un ambiente che gli trasmette un’esperienza di solidarietà e di vita fraterna nella quale un ragazzo minore trova una grande opportunità educativa. Famiglia di famiglie, piccolo popolo, in cui un ragazzo trova non solo due genitori ma anche un tessuto sociale che lo aiuta a crescere: dalla scuola al lavoro alla parrocchia, in tutti gli ambienti della vita trova un’unità educativa nella quale rasserenare il suo vissuto e cercare di rimarginare le ferite del suo passato. Vivere a Nomadelfia però è una vocazione, e tutti i nostri “figli per sempre”, a un certo momento, devono porsi questa grande domanda, se restare o andare. La gran parte dei figli, nati o rinati a Nomadelfia, si è immersa nella società. E questo è segno che la comunità non li ha “plagiati”, ma li ha educati a una grande libertà, costitutiva di una vita comunitaria”. Nomadelfia propone una nuova idea di cura dell’altro, non basata sull’assistenzialismo. In questo senso, come vivono il loro ruolo le “mamme per vocazione”? “Fin dall’inizio si è trovata subito necessaria la figura della famiglia, e della mamma in quanto figura femminile. Nel 1941 Irene ha accolto l’appello di don Zeno ed è diventata la prima “mamma per vocazione”, coniugando una scelta verginale a un ruolo molto concreto di maternità. Queste donne, fondamentali nella vita della comunità, richiamano anche le coppie di coniugi a una donazione che è completa, in cui anche la paternità e la maternità hanno le stesse caratteristiche della missione, e mai di appropriazione dei figli, sia nati che affidati”. Come la comunità di Nomadelfia affronta quella “frattura tra le generazioni” propria del nostro tempo, come avviene il dialogo tra adulti e ragazzi? “Essendo un ambiente fatto di famiglie e di uomini e donne di diverse età, che condividono però una scelta vocazionale, questo conflitto generazionale, che esiste, viene superato in maniera meno traumatica. Il confronto è ammorbidito dalla possibilità per i ragazzi di far riferimento non solo ai propri genitori ma anche ad altri adulti. È la grande opportunità della vita insieme: in ogni momento della vita quotidiana ci sono varie età presenti, in un dialogo continuo che aiuta il confronto tra generazioni”. C’è una specificità nel vostro messaggio che può essere assunta come modello di vita cristiana nella società civile e politica di oggi?

“Noi viviamo in gruppi familiari e questo “cammino di famiglie” insieme credo sia un’esigenza dell’oggi. È un modello per una società che sia sempre più fondata sui valori evangelici. Io credo che il Vangelo sia ancora la soluzione per i problemi dell’uomo di oggi”.