Cultura & Società

Papini, la doppia anima di un umile vanitoso

di Rodolfo DoniQuando devo avventurarmi a scavare in una coscienza per scoprirvi o meno la fede religiosa mi tornano sempre in mente due frasi: una di Jean-Paul Sartre che diceva: «L’ateismo è una lunga conquista, io credo di esserci riuscito. L’altra del filosofo Jean Guitton che affermava esistere nella coscienza dell’uomo «un legame necessario tra la perfezione assoluta e l’esistenza…». Tu come tutti, dice Socrate in un immaginario dialogo a Critone, «sei ossessionato dall’idea di perfezione…. Ma non avresti in te un sentimento così doloroso dell’imperfetto e dell’assurdo, se non custodissi più in profondità in te l’idea del Perfetto. Il pensiero del Male che ti scandalizza rende omaggio all’ideale del Bene, e dunque all’immanente esistenza della totale perfezione».In conclusione, mi dico, se uno come Sartre, scrittore sempre pronto ad affermarsi e affermare il suo ateismo, diceva solo di credere di esserlo, e affermava che per esser atei bisogna fare un lungo sforzo di maturazione e conquista, ebbene allora è forse vero quel che diceva Socrate che «tu, o Critone, hai in te un sentimento così doloroso dell’imperfetto e dell’assurdo», perché «malgrado ogni apparenza contraria, malgrado le catastrofi e gli scandali, la perfezione esiste, ed esiste di necessità e in eterno… queste due qualità nella realtà originaria sono tutt’uno; ed è la perfezione che genera l’esistenza, non l’inverso».

Questa idea–sentimento connaturato che Sartre doveva strappare da sé, era più o meno, mi pare, quello che nutriva Papini ai tempi del suo dichiarato ateismo quando in una lettera del maggio 1919 a Domenico Giuliotti scriveva (i due si davano ancora al lei): «Io sono, l’avrà indovinato, un religioso senza religione, un mistico senza Dio… Mi attira prepotentemente l’uomo di fede, di vera fede, che non sia uno sciocco né un mediocre, anche se non posso ripetere con la stessa fermezza le Sue parole. Ma forse potremo in seguito morire con la stessa speranza».

Ma penetrare in questi meandri della coscienza è come compiere un salto nel buio e forse dovrei usare più che la penna del saggista quella dell’arte narrativa che meglio lambisce l’ineffabile.

D’altra parte sulla conversione di Papini si è già scritto molto. Anche per questo preferisco aggiungere come la vissero i giovani di allora, tra cui appunto, il sottoscritto, quando pur giovanissimo, ebbi con lui tre o quattro incontri. Ho anche alcune sue lettere confidenziali dove ad esempio mi dava spiegazioni della sua vicenda durante il passaggio del fronte.

Oltre la mia c’è poi la testimonianza diretta di altri giovani di allora, tra cui un mio amico pistoiese e due miei amici fiorentini: questi due furono vicinissimi a Papini, entrambi mi parlavano, e hanno poi anche scritto, di quella sua conversione. Papini mi parlò, ricordo, anche di un giovane col quale pure avrei potuto prendere accordi per fare la rivista che avevo in mente, «un certo Spadolini», mi disse, che ogni tanto riceveva nella sua casa di via Guerrazzi 10.

Il libro che di più allora mi aveva portato nella sua casa, con in mano un mio diario e un romanzo dattiloscritti che avrei voluto fargli leggere, non era stato – eravamo, credo, nel 1941- 42 – la Storia di Cristo, ad esempio, o le Lettere di Celestino Sesto bensì certe pagine di Poesia in prosa, e soprattutto, facile immaginarlo per un giovane voglioso di costruirmi anch’io da me stesso, Un uomo finito.

Anch’io ero in lotta per trovare me stesso e la verità, anch’io entravo nella chiese per «cercarvi Dio» come dice lui. A pag. 254 di quel libro esprime che era mosso da «qualcosa di ambiguo. Il bisogno di credere, di tornar fanciullo, di sentirmi in comunione con la cristianità dalla quale ero uscito, si agitava sommessamente in me, senza volersi decidere».

Ma il primo cenno della sua inquietudine cristiana era ancora più indietro. Me ne dava testimonianza un altro giovane mio amico, Mario Gozzini – gran frequentatore di Papini in quegli anni – che ricordava tutta una serie di suoi articoli nei quali traspare di Papini «l’uomo religioso anche quando gridava il più radicale ateismo»; ricordava in particolare di Papini l’affermazione dell’autonomia della religione in polemica con gli idealisti. Così nel saggio pubblicato in Rinnovamento del 1908 quando scriveva: «La religione, ci fa sentire un Essere infinito che si manifesta come persona, un Dio eterno e spirituale che si è fatto carne ed uomo mortale: un’anima universale che accoglie ogni anima particolare senza sopprimerla. Queste, che sono assurdità per il pensiero astratto, anche per il pensiero filosofico sviluppato da Hegel, sono realtà semplici e vissute per l’anima del santo. La vita religiosa concepisce e compie sintesi tali che sono inconcepibili e impossibili anche alla più temeraria dialettica». E Papini in altra nota allora scriveva: «Ci son sempre stati uomini non volgari che non hanno potuto trovare nella filosofia tutto ciò che essa prometteva, e che son tornati a prendere in meno il piccolo libriccino, pieno, direbbe il Croce, di immaginazione e sentimento – il Vangelo –». Altrettanto nella Lettera agli Amici modernisti sempre del 1908 sintetizzando le finalità del movimento, rimproverava ai modernisti: «Nella vostra opera non c’è nessuna parte che sia rivolta, direttamente ed esclusivamente, all’accrescimento e al trionfo dell’amore sul mondo. La giustizia sociale non è ancora l’amore, la sapienza non è proprio l’amore, la voglia di libertà non sempre è l’amore…». E son parole che contengono verità sempre attuali. Infine, denunciava in un articolo sul Resto del Carlino del 1919, inserito poi, nel suo libro La scala di Giacobbe, l’assenza nel mondo di vero cristianesimo: «Non si può tornare al Vangelo perché non ci siamo ancora arrivati… Il Cristianesimo non appartiene al passato; forse gli apparterrà l’avvenire».

Del resto, rilevava Gozzini, queste sono già anticipazioni di quella che nel suo libro, già cattolico, Lettere agli uomini di papa Celestino VI costituiranno vere e proprie anticipazioni del Concilio Vaticano Secondo circa il ruolo e la responsabilità dei laici cattolici nel dialogo ecumenico.Ma là, dove non ero e non sono più completamente d’accordo col Gozzini stesso, è nella sua conclusione che tende ad asserire troppo recisamente che i «conti con Dio» Papini li fece veramente nell’ultima parte della sua vita, quando immobilizzato, cieco e muto per la malattia, cessò ogni forma di polemica e di titanismo, non facendo neanche più parola della sua opera che doveva essere capitale, II Giudizio universale.

E qui mi soccorre anche la testimonianza di un altro giovane di allora, Carlo Ballerini, che accompagnò molto da vicino Papini facendogli da lettore–segretario, e che di questa vicinanza ha scritto recentemente in un libro di memorie intitolato Suggestioni di un manoscritto.

Ma, prima della testimonianza di Carlo Ballerini, che è stato titolare della cattedra di italiano a Nimega in Olanda e ha organizzato lassù vari convegni sulla letteratura italiana, prima di lui, voglio completare la mia testimonianza.

Vagheggiavo a Pistoia, mia città di origine, il desiderio di fare lì con alcuni compagni studenti una rivistina. I giovani d’oggi non possono certo immaginare come si trovasse un giovane di allora sotto la dittatura. In tre o quattro pensavamo a non più che un semplice ciclostilato, per il quale però occorreva sempre l’autorizzazione delle Autorità. Allora io pensai, essendomi già presentato a lui per il mio diario e il mio romanzo, di ricorrere al grande scrittore cattolico Giovanni Papini Accademico di Italia, che avrebbe potuto lui farci avere 1’autorizzazione. Tornai io stesso alla sua casa. Lui mi accolse, ascoltò il programma della rivistina ciclostilata, consentì, scrisse al ministro della Pubblica istruzione di allora, ma non avemmo mai risposta. E così la nostra rivista non poté mai uscire. Pensate, soprattutto voi giovani di oggi. Quattro ragazzi progettano un foglio, ciclostilato, e, per avere il permesso debbono rivolgersi all’Accademico d’Italia Giovanni Papini, senza ugualmente aver risposta, né dunque poter fare il foglio.

Ma, tornando a Papini e alla sua sensibilità religiosa di quel tempo, egli me l’aveva pure dimostrata quando, nella precedente visita gli avevo letto alcune pagine del romanzo e poi del diario che era intimo spirituale. Al romanzo – ho raccontato questo incontro anche nel mio libro La Doppia Vita appena pubblicato in Oscar Mondadori – dopo avermi detto che lui non amava né i romanzi né i romanzieri, scosse la testa ascoltandone alcune pagine. Invece esclamò, ascoltando il diario: «Ma come, aveva questo e mi ha tenuto sul romanzo fin ora!». E su quelle pagine di diario, che sono poi finite anch’esse nel grosso volume Oscar Scrittori del Novecento, Papini qualche tempo dopo, con sua lettera del 19 dicembre 1944 mi confermò questo giudizio favorevole. Era il tempo dell’immediato dopoguerra, egli mi rispose anche con una lettera giustificativa di fitte due pagine circa la sua condizione, lettera che dimostra una assoluta umiltà giustificandosi dinanzi a un quasi ragazzo qual ero. Così come aveva mostrato sensibilità e premura leggendo interamente le pagine di quel diario intimo religioso.Poiché, sì, a quel punto della sua vita, in fase di caduta – e quale caduta! – mostrava un animo religioso, animo che era ben compreso – per dare la testimonianza di un altro giovane – da un mio compagno oggi vecchio prete, Aldo Pacini di Ponte di Serravalle.

E qui cito altre fasi dell’antefatto conversione che don Aldo Pacini pure ricostruisce.

Papini, si sa, non aveva avuto alcuna educazione religiosa da ragazzo. Il padre si dichiarava ateo anche se «uomo di buonissima pasta», come Papini stesso avrebbe poi scritto; la madre lo aveva fatto battezzare di nascosto. Poi nelle sue letture aveva incontrato il Vangelo e gli altri libri sacri ma era entrato in chiesa solo per il matrimonio con Giacinta Giovagnoli, all’età di ventisei anni. Un secondo avvicinamento religioso, anzi una vera «crisi», scrive ancor oggi Aldo Pacini, lo prese dopo la prima guerra mondiale essendo rimasto a casa «spettatore per forza ma di malavoglia», com’egli scriveva, «perché riconosciuto mezzo cieco: sentivo a tratti un rimorso che non so neppure descrivere con fedeltà… rimorso di aver consigliata la guerra e, nello stesso tempo, di vederla ora tanto diversa da quel che mi aspettavo… rimorso di aver preparato anch’io, col cinismo misantropico degli ultimi anni, quell’accecamento spirituale che ora si sfogava nelle stragi. Arrivato a quella scoperta – aggiunge Papini stesso – parrebbe che avrei dovuto accettare, se non altro nell’ordine teoretico, la dottrina di Cristo. Nessuno al par di Cristo, ha comandato con tanta forza la povertà e l’umiltà: cioè i contrapposti assoluti di quelle due febbri, superbia e cupidigia, che struggono l’uomo. S’io fossi stato laico avrei dovuto fìn dal 1917 piegare i ginocchi alla croce». Volendo comunque anche lui dare un suo contributo di «povero infilatore di parole» prese a scrivere, all’insegna del «sincerismo» quel libro «crudo e sconsolante», com’egli lo definisce, che verrà pubblicato postumo col titolo II rapporto sugli uomini. Ma allora, intorno al 1918, quando il manoscritto era arrivato alle mille cartelle, ecco che improvvisamente in un suo diario alla data del 19 agosto 1919 si legge: «Comincio a scrivere la vita di Gesù». Aveva raggiunto ormai quel «po’ di certezza» caldamente invocata in uno degli ultimi capitoli dell’Uomo finito del 1913». Così scrive il Pacini, che cita poi i noti versi di Pane e vino, sempre di quegli anni, dove si legge: «Nella notte agostana sotto il perlato brivido/ fuori della mia tana/inginocchiato riconobbi Iddio…. «Quante ore della mia vita – annoterà poi nell’altro suo libro autobiografico Seconda nascita – ho passato all’ombra della mia croce a tu per tu col crocefisso» (era la croce sul colle di Bulciano). Infine nel suo diario del 1926 si legge «Oggi Sabato Santo, mi confesso per la prima volta dopo tanti anni». Poi si legge ancora il giorno di Pasqua: «Mi comunico la mattina presto a Orsanmichele».

Si è tanto discusso sulla sincerità della conversione di Papini anche mettendola in rapporto col cosiddetto ritorno all’ordine, cioè rientro nella norma, adesione alla ideologie e ai fasti del Fascismo. Il suo successo, portatogli specialmente da quella Storia di Cristo tradotta in tutto il mondo, i fastigi dell’Accademia, la cattedra honoris causa a Bologna ecc., accentuarono certo quel suo trasporto al cattolicesimo che non prova da solo una piena fede. La stessa Chiesa d’altronde asserisce che la fede è un dono di Dio (un dono, cui però donarsi, cioè non fare resistenza, come diceva don Facibeni), ma per questo ecco ancora la testimonianza di un quarto giovane di allora, cioè Carlo Ballerini. Anch’egli scrivendo oggi, ricorda nel suo libro un piccolo episodio che, come tutte le cose piccole e consuete, ci scoprono però l’animo più delle grandi: gli stessi libri nei quali appunto l’apparire, il «farsi bello», come diceva lui stesso, può spingerci a metterci in maschera, magari involontariamente. Narra dunque Ballerini, che usa la terza persona anche per se stesso: «In un pomeriggio di marzo – eravamo negli anni Cinquanta – Papini si fece accompagnare da Carlo Ballerini nel centro di Firenze. Arrivati in piazza San Marco, Papini intravide, nella nebbia oscura della sua affliggente semicecità, la chiesa e il convento domenicani… Disse: «Andiamo a salutare il Signore!» Si inginocchiò su una panca a metà della chiesa, sulla sinistra. Pregò senza pose nè infingimenti, con gli occhi chiusi… Poi si mise a sedere: «Riposiamoci un poco»… Girava lo sguardo cercando di catturare qualche forma… Ballerini intanto osservava e leggeva una lapide bianca posta nella chiesa sulla sua sinistra che dice: Sono qui le ritrovate ossa di Agnolo Ambrogini detto Il Poliziano 1454-1494 che nei tre più divini linguaggi di Europa fu maestro e poeta e volle risorta l’Atene di Pericle nella Firenze del suo Magnifico. «Bella, maestro, quella epigrafe», esclamò allora Ballerini. Sul viso di Papini il lampo del solito sorriso ironico e soddisfatto: «Per forza, l’ho scritta io!».Ecco, in questi due atteggiamenti, l’inginocchiarsi pio e la vantazione, c’è tutto Papini: quello che viveva nei suoi scritti religiosi, a cominciare dalla famosa Storia di Cristo, una doppia anima (quella doppia anima che ben conosce, purtroppo, qualunque scrittore che sia credente): l’anima dello scrittore artista bisognoso di espressione e di affermazione (ho saputo, fra tanti, soltanto di Clemente Rebora poeta che pregava Dio di farlo morire nell’oscurità) e l’anima del cristiano, che lo spinge, lo spinge sinceramente a inginocchiarsi umile… «Gestire i due contrari», raccomandava, ricordo, un filosofo cristiano di grande livello, Italo Mancini.Così Papini dunque cercava. Anche tutte queste testimonianze di giovani lo provano, lo provano ancor più che i suoi stessi libri: dove occorre pure frugare per sceverare il meglio del credente e il meglio dello scrittore. E io mi fermo, concludendo sulla sincerità della buona fede di Papini già prima che la malattia lo chiudesse entro il suo muro doloroso: lì, certo, avrà raggiunto, questo sì, la cima della sua imitazione di Cristo. La schedaGiovanni Papini è nato nel 1881 a Firenze. Giovanissimo, si impegnò in una attività frenetica di lettore, scrittore e organizzatore culturale. Letterato giornalista, «uomo contro» per gusto e vocazione, Papini, attraverso il primo scorcio del Novecento, partecipa attivamente al mondo delle riviste e allo spirito antiaccademico che le caratterizza. Nel 1907 pubblica il suo primo libro filosofico, «Il crepuscolo dei filosofi» in cui attacca il pensiero di Kant, Hegel, Schopenhauer, Comte, Spencer, Nietzsche. Nel 1911 Papini fonda la rivista «L’Anima». Nel 1913 insieme a Soffici fonda «Lacerba». Nello stesso anno pubblica «Un uomo finito», diario esistenziale, in cui pone il suo bisogno di ricerca anche religiosa della verità. Nel 1921, con grande clamore, annuncia la sua conversione religiosa e pubblica «Storia di Cristo». Continua a scrivere moltissimo, soprattutto testi di apologetica religiosa. A differenza di altri colleghi, Papini diventa sotto il fascismo una specie di scrittore ufficiale. L’ultima parte della sua vita è minata da una grave malattia agli occhi che lo costringe a rinunciare alla cattedra di letteratura italiana presso l’Università di Bologna, sebbene il suo lavoro continui fino al 1956, anno della morte nella sua Firenze.