Cultura & Società

Pasqua, le reliquie della Passione

di Carlo Lapucci

Ognuno conserva qualche ricordo di persone: chi considera un oggetto come una memoria, chi un legame più o meno stretto con la persona dalla quale proviene, chi ci associa una specie di culto, ne fa un amuleto, un elemento feticistico. Sotteso a questi atteggiamenti c’è in ogni caso la convinzione che un vincolo segreto unisce l’oggetto alla persona o che qualcosa di questa rimanga nell’oggetto. Una simile idea sta a fondamento del fenomeno delle reliquie di qualsiasi genere. Quelle sacre sono i resti provenienti dai corpi, dagli abiti, dagli oggetti usati, toccati da una persona santa, da un taumaturgo, che nell’idea comune mantengono la forza del santo. Si conservano e si onorano come testimonianze, ma valgono per molti fedeli come elementi miracolosi in quanto trattenendo, secondo la credenza comune, la forza spirituale, magica posseduta da colui al quale sono appartenute, possono agire positivamente su chi le possiede.

Natura delle reliquieNel mondo magico ogni persona, oggetto, è un centro di forza concentrata e irraggiante all’infinito, per cui le emanazioni di forze si congiungono, s’intersecano, si collegano, sono sprigionate assorbite, si allontanano indebolendosi, ma non si spengono. Di conseguenza ogni cosa influenza ogni cosa, ostacola, agevola, condiziona, chiama, respinge e più la forza è potente più la sua influenza è determinante. Questa visione primitiva della reliquia, probabilmente riguardò prima i defunti con l’idea prepotente di trattenere il loro valore appropriandosi delle loro cose. Per questo ci si impadroniva di oggetti sacri, di armi, di teschi, di ossa, di gioielli anche tolti ai nemici. Si chiamano ricordi, cimeli, ma sempre vive l’idea di possedere parte di una forza originaria proveniente da vi li aveva.Lontano dalle visioni magiche il cristianesimo dei primi secoli fu diffidente se non ostile a questa idea. Dio solo è il destinatario del culto, depositario di ogni potere che trascende le forze dell’uomo. Tuttavia Cristo, Dio e uomo, esce da questo schema, per cui le sue reliquie riguarderebbero anche il divino e non solo l’umano. Non bisogna dimenticare neppure che il corpo dell’uomo per la Chiesa, a differenza di ogni altra materia, è sacro in quanto è stato ospite del soffio divino, tempio dello Spirito Santo, destinato a risorgere e restare nella gloria eterna con la resurrezione della carne. Colui che è giunto alla santità, testimoniando la fede col proprio sangue, è già nella dimensione della Vita eterna e su queste basi il culto delle reliquie entrò nel Cristianesimo attraverso i martiri. C’era anche l’enorme pressione popolare di persone che, venendo dal paganesimo, portavano con sé una visione fortemente legata alla materia e alla magia, tendenza che la Chiesa dovette arginare e mai riuscì a redimere completamente a una completa visione spirituale della realtà religiosa, tant’è vero che esiste e prospera ancora. Una funzione indiretta che le reliquie hanno svolto certamente è quella di costituire elementi unificanti di popoli, di genti diverse, di culture lontane, di terre remote, spingendo all’interesse, ai pellegrinaggi, alla ricerca dei luoghi della spiritualità nei quali tutti i pellegrini di nazioni, lingue, civiltà spesso estranee si ritrovavano in un valore comune. Ci sono tombe di santi, reliquie, santuari che hanno avuto, e hanno ancora la capacità di raccogliere e unire milioni di persone di ogni genere di tutti i continenti. La dottrina della ChiesaFu così consentita, ammessa e incoraggiata la presenza delle reliquie dei martiri nelle chiese, in particolare nelle mense degli altari, nelle urne, in quanto i corpi stessi sono considerati reliquie. Il sepolcro del martire con la sua spoglia fu la reliquia sulla quale si cominciò a celebrare la messa in base a diverse considerazioni, tra le quali alcune convincenti. La prima è l’idea di associare al sacrificio di Cristo quello dei martiri come aggiunta, sia pure modesta, dell’uomo alla Salvezza, secondo le parole di S. Paolo: «compio nella mia carne quello che manca nei patimenti di Cristo per il suo Corpo (comunione dei Santi) che è la Chiesa» (Lettera ai Colossesi I, 24). La seconda è che, essendo il sangue del martire il sangue della Chiesa, la comunità l’offre a Dio in unione a quello versato da Cristo. Così l’eucaristia salda il sacrificio divino, quello umano e quello dell’altare.

La dottrina venne ben definita da Sant’Agostino nelle divergenze che già esistevano. Nell’opera Contro Fausto di Rilevi (Contra Faustum XX, 21) afferma che la Chiesa onora le vestigia dei martiri perché ne sia seguito l’esempio, per associarsi ai loro meriti e per averne aiuto, così come si elevano altari non per i martiri, ma al solo Dio dei martiri.

Si associarono le reliquie dei martiri all’altare lapideo inserendole nello spessore della mensa, ovvero alla base del pilastro che la sorreggeva. Oppure si celebrava sopra una pietra cubica svuotata e dentro il quale riposavano le spoglie del santo visibili per mezzo di una grata. La pietra cubica poteva stare sopra il sepolcro del martire, al quale si accedeva attraverso la scala di un pozzo come l’altare di San Pietro comunica con la tomba del capo degli Apostoli.

La visione popolareMa tra questo evocare, ricordare, onorare chi ormai sicuramente stava nella dimensione della trascendenza e per la Comunione dei Santi era ormai nella visione del divino, cioè santo, e quello che intendevano i più,  e intendono ancora, vi è sempre stata una notevole differenza: altro è il valore religioso che gli attribuisce la Chiesa, altro è quello magico e miracolistico che vi si aggiunge e interessa alla maggior parte di devoti, di pellegrini e di fedeli. Tra i due punti di vista c’è un eterno dissidio, a volte sopito, a volte aperto, ma la massa nella pratica ha tirato sempre verso un’interpretazione più ampia, dilatata e permissiva anche le autorità religiose che spesso hanno colluso con la visione feticistica della parte più paganeggiante del mondo popolare, portando ad aberrazioni e abusi, come il commercio delle reliquie, a fanatismi, come le infinite reliquie fabbricate per contatto o presenza; strumentalizzazioni: un santuario che conservava qualcosa d’importante creava un flusso di pellegrini e di danaro. Basti pensare che le crociate ebbero come motivo primigenio la liberazione della più grande reliquia cristiana: il Santo Sepolcro; che le indulgenze, collegate spesso alle reliquie, costarono, almeno come causa immediata, la Riforma protestante.

Del resto nel mondo laico case, biblioteche, sacrari patriottici, musei, collezioni, dimore monumentali, monumenti, ridondano di sacri cimeli d’eroi, fondatori, comandanti, caduti, artisti, scienziati, dittatori, e sono circondati di onori, sentimenti d’ammirazione, riconoscenza, commosse memorie, con lo stesso tacito presupposto di una forza magica, che si rivela, spinge, urge, parla, ispira: Ah sì! da quella religiosa pace un nume parla… dice l’illuminista Foscolo nei Sepolcri, e proprio da quelli di Santa Croce intendeva prendere la «forza» (che ci fa tornare alla mente Guerre stellari) e l’ispirazione con l’Alfieri e tutti gl’italiani per la missione di riscatto nazionale. I sacrari, i mausolei di Lenin, Stalin, Mao, le tombe di Leopardi, di Dante, il Cimitero di Père Lachaise, i monumenti funebri d’infinite altre figure forti, documentano che l’idea primitiva è tutt’altro che spenta, e forse inestinguibile.

La croceÈ naturale che le reliquie della Passione di Cristo siano state quelle più importanti intorno alle quali si è acceso l’interesse dei fedeli. La prima è certamente la Croce della quale abbiamo parlato su queste pagine. Ritrovata da Sant’Elena, madre di Costantino, la Croce ha dato luogo a una mirabile leggenda che fu raccolta e trascritta probabilmente tra il 1260 e il 1263 da Jacopo da Varagine, immortalata da Piero della Francesca, che ne dipinse i momenti fondamentali negli affreschi del Coro della Chiesa di San Francesco d’Arezzo. Sebbene due feste liturgiche la solennizzino ed esistano migliaia di schegge del legno della Croce, questa (ovvero quella trovata da Sant’Elena) non c’è più: se ne persero definitivamente le tracce allorché nel 1187 il vescovo di Bethlem volle portarla alla battaglia di Hattin in Galilea. Così misteriosamente il Lignum Crucis scomparve, questa volta per lungo tempo come altre volte era accaduto. Il santo SepolcroIl Sepolcro è certo la reliquia più visitata dai pellegrini a Gerusalemme. È una pietra scavata a modo di stanza con una grande lapide che la chiude. Era la tomba che si era preparato Giuseppe d’Arimatea e che cedette per deporvi Cristo del quale aveva chiesto e ottenuto il corpo. Dopo la distruzione della città, risorta poi col nome di Elia Capitolina, vennero cancellate le tracce antiche, ma l’imperatrice Elena provvide a far edificare sul sepolcro un chiesa. Cominciarono i pellegrinaggi dei cristiani verso la Terra Santa e cominciarono le reliquie: Sant’Agostino (La città di Dio XXII, 8) racconta che i fedeli ne raccoglievano la polvere devotamente e la conservavano come preziosa in quanto compiva molti miracoli. Nel 1811 un incendio del tempio e nel 1836 un terremoto risparmiarono il Sepolcro che ancora si offre alla devozione dei fedeli. Il bacile di Giuseppe d’ArimateaÈ la reliquia della Passione che costituisce da sola il nucleo di un mito cristiano per l’importanza assunta nella simbologia, nella mistica, nella letteratura del Medio Evo, costituendo l’oggetto della ricerca dei cavalieri della Tavola Rotonda: il Santo Graal. Un tema che ha le sue radici nel primo cristianesimo: Giuseppe d’Arimatea sarebbe andato a fondare una comunità cristiana in Gran Bretagna portandovi il bacile nel quale aveva raccolto il sangue di Cristo sul Golgota. Si vuole anche che sia lo stesso bacile dell’Ultima Cena. Questo è un nucleo del cristianesimo dei bretoni che ha implicazioni culturali, storiche, religiose, letterarie e trova la sua celebrazione nel ciclo dei cavalieri di Re Artù, materia troppo vasta per una ricognizione dettagliata, anche se è senza dubbio la più fertile e ricca di religiosità. Nella Cattedrale di San Lorenzo a Genova si trova fino dal XII secolo come reliquia un sacro catino che fu conquistato a Cesarea nel 1101 e che si dice sia il vero Graal. La corona di spineAlla Corona di Spine abbiamo dedicato largo spazio su queste pagine per la grande importanza della reliquia e la leggenda che la riguarda. Quella che la tradizione considera la vera corona fece la strada della cuspide della lancia di Longino passando da Venezia a Parigi nel magnifico reliquiario de La Sainte Chapelle. Là Luigi IX la depose, insieme ad altre reliquie del Calvario, sia pure privata di quasi tutte le spine. Luigi XVI la rimosse per sottrarla alle bande della rivoluzione, portandola nella cattedrale di Saint-Denis. Il governo rivoluzionario la sequestrò nel 1793 depositandola nell’Hôtel des Monnaies, e quindi alla Biblioteca Nazionale da dove il 10 agosto 1806 fu portata a Notre Dame. Aggiungiamo che le spine della corona sono collegate alla vita di S. Rita da Cascia la quale, stando in preghiera davanti al Crocifisso fu rapita nell’estasi e una spina si staccò dalla corona conficcandosi nella sua fronte e producendo una piaga che portò fino alla morte. La scala santaLa scala che Cristo percorse per recarsi davanti a Ponzio Pilato, secondo una tradizione risalente all’VIII o IX secolo fu trasportata dal Pretorio romano di Gerusalemme a Roma in San Giovanni in Laterano, ed è quella che porta alla Cappella di San Lorenzo. Sono 28 scalini di marmo sui quali sono depositate le stille di sangue del Redentore, coperti di legno anche per evitarne il logoramento. Si usa percorrerla in ginocchio per impetrare una grazia, come quelle di S. Michele Magno e di Santa Maria Maggiore. I chiodiI chiodi con i quali Cristo fu appeso alla Croce entrano nella Leggenda di Sant’Elena che li ritrovò in Terra Santa: furono riconosciuti agevolmente poiché a differenza di quanti gliene vennero presentati, che erano rugginosi, questi splendevano per una lucentezza eccezionale. Scrive S. Gregorio di Tours sostenuto da Innocenzo III che i chiodi erano quattro: uno per ogni arto; altri aggiungono quello che sosteneva il titolo INRI e quello che reggeva l’incrocio dei due bracci di legno. Uno dei chiodi fu immerso da Elena nelle acque dell’Adriatico sedando una furiosa tempesta, cosa che le salvò la vita insieme a quella dei naviganti. Questo chiodo fu dato dall’imperatrice all’Arcivescovo Sant’Agrizio della Chiesa di Treviri. Gli altri tre chiodi furono mandati da Elena al figlio Costantino, il quale li usò come protezione della sua persona: uno lo mise nel proprio elmo da parata e gli altri due nel morso e nella briglia del suo cavallo perché gli fossero di scudo potente contro i pericoli delle battaglie, e questo dice chiaramente cosa pensasse Costantino circa l’uso delle reliquie: erano amuleti magici.

I chiodi poi finirono a Costantinopoli e vi rimasero fino ai tempi di Giustiniano: S. Vigilio, poi pontefice, vi fece sopra giuramento nel 555. Nell’anno 586 l’imperatore d’Oriente Costantino Tiberio li donò a San Gregorio Magno che faceva ritorno a Roma e il chiodo che si trovava nel diadema di Costantino fu donato alla basilica di Santa Croce in Roma. Quello che faceva parte del morso del cavallo fu regalato alla chiesa Metropolitana di Milano e il terzo fu dato alla chiesa di San Giovanni a Monza. Questo fu poi inserito nella Corona ferrea custodita nel duomo di Monza: un cerchio d’oro fatto con sei pezzi uniti da cerniere interne, ornata con 22 gemme e 24 brillanti. Si dice sia stata fatta fare e donata da Teodolinda. Contiene una sottile lamina interna di ferro battuto che tradizionalmente è ritenuta foggiata con il chiodo della Crocifissione. È detta la corona dei re d’Italia, da Ottone I a Napoleone I, ma è stata consumata poco, e anche questo dice quale fosse la concezione di Teodolinda riguardo alle reliquie. Questa è la strada dei santi chiodi segnata dalla leggenda, ma la fede va ben oltre e migliaia di altri chiodi si trovano qua e là, e di tutti si afferma d’essere stati quelli della Crocifissione. Spesso si moltiplicavano solo per contatto, e questo spiega anche le infinite altre cose sante.

La lancia di LonginoLa Santa Lancia con cui il militare Longino trapassò il cuore di Cristo per renderne certa la morte, fu anch’essa oggetto di culto a Gerusalemme, ma per sottrarla agli invasori arabi, venne segretamente nascosta ad Antiochia e sotterrata. Là fu ritrovata nel 1098 e portata a Costantinopoli per essere esposta alla venerazione dei pellegrini. Nelle tempeste della IV Crociata la punta della lancia seguì il destino della Corona di Spine e finì, come pegno di Baldovino II per un prestito di una grossa somma di danaro, nelle mani dei Veneziani. Fu riscattata da San Luigi IX re di Francia (1215-1270) che sborsò l’intera somma del debito entrando in possesso della preziosa reliquia che fu custodita ne La Sainte Chapelle. L’asta della lancia rimase a Costantinopoli sopravvivendo all’invasione turca. Nel maggio del 1492 il Sultano Bajazet II la mandò in regalo al Papa Innocenzo VIII in una custodia preziosa con l’avvertimento che il resto della reliquia ce l’aveva il re di Francia. La ragione del dono era questa: essendo stato fatto prigioniero dai Cavalieri di Rodi il fratello del Sultano Diem, suo nemico e rivale, era stato consegnato al papa il quale, grazie al regalo, era pregato di non liberarlo e tenerselo per sempre. Di queste migrazioni vi sono anche altre versioni dei fatti.

La storia di Longino, santo col titolo di soldato e martire, è narrata nella Legenda aurea e la festa cade al 15 di marzo. Ha la sua leggenda: colpendo il costato di Cristo sarebbe diventato cieco, ma le gocce di sangue, cadendogli sugli occhi, gli avrebbe ridato la vista. Convertitosi al cristianesimo fu battezzato dagli Apostoli in Cappadocia e finì i suoi giorni con la tortura e il martirio.

La spugnaAnche la Santa Spugna ha il suo posto, sia pure secondario, nella mitologia cristiana. Custodita nella chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme, quando Cosroe saccheggio la città fu salvata dal nobile Niceta, giovandosi dell’amicizia del generale persiano Sarbazara. Sottrasse insieme alla lancia di Longino quella spugna con la quale era stato dato a bere a Gesù aceto e fiele. Le reliquie furono mandate a Costantinopoli dove furono esposte alla venerazione, poi come la lancia e la corona di spine, avute da Baldovino II, furono date in pegno ai Veneziani. Riscattate da Luigi IX andarono alla Sainte Chapelle, ma la spugna, nella quale si ravvisa ancora il colore del sangue, fu mandata a Roma e posta in San Giovanni in Laterano. La colonna della flagellazionePer affermazione di San Girolamo, San Prudenzio, Gregorio Nazianzeno e Gregorio di Tours si dice che la colonna della flagellazione fu custodita gelosamente a Gerusalemme dai fedeli. Nell’anno 1224 il cardinale Giovanni Colonna, legato del papa Onorio II la fece trasportare a Roma e si trova ora nella chiesa di Santa Prassede, dentro la cappella di San Zenone del IX secolo, splendido ricettacolo rivestito di mosaici bizantini, detto per la sua bellezza il giardino del Paradiso. La colonna è di marmo grigio: larga nella parte inferiore, si restringe verso l’alto ed ha ancora l’anello di ferro al quale si attaccavano i condannati. Il velo della VeronicaPare che addirittura sia nato prima il velo con l’immagine, del personaggio del quale i Vangeli non parlano: colei che sulla Via Dolorosa avrebbe asciugato il volto di Cristo che vi lasciò la propria immagine del viso. Il drappo si trova in San Pietro a Roma, nella loggia berniniana che raccoglie anche una parte del legno della croce e la lancia di Longino.

Veronica è dunque una figura evanescente che si trova nella Legenda aurea nel capitolo della Passione, dove guarisce con il velo l’imperatore Tiberio. La Chiesa Orientale la identifica con la donna emorroissa guarita da Cristo (Matteo IX, 20-22) e fu onorata come santa con la festa al 12 luglio. L’episodio che la riguarda è una delle stazioni della Via Crucis ed ha sempre commosso per la gentilezza del gesto e per il suo toccante significato. L’immagine conservata in San Piero risale circa all’VIII secolo e si trova replicata, anche con pretesa di autenticità, in molte altre versioni. Come soggetto è stato trattato dai massimi pittori ed è sempre frequente nelle immaginette sacre. Ritengono alcuni che il nome della donna derivi dalle parole vera (latina) ikon (greca) immagine: Veronica, vera immagine del volto di Cristo.

La tunicaLa bella veste inconsutile, senza cuciture, indossata da Cristo fino alla cima del Golgota e che i soldati si giocarono a dadi per non stracciarla, trova posto nella leggenda medievale di Pilato. Questi, come si narra nella Passione della Legenda aurea, chiamato a Roma da Tiberio, si presenta al suo cospetto indossando tale veste della quale era venuto in possesso, per cui il sovrano viene miracolosamente ammansito, finché, scoperto l’inganno, lo fa spogliare e condanna il pretore il quale preferisce uccidersi. Alla Tunica, la più labile di queste leggende, è toccato il particolare destino di essere il primo film in Cinemascope della storia del cinema: La tunica. Girato nel 1953, con la partecipazione di Richard Burton, racconta la storia del milite Marcello Gallio che vinse a dadi la veste, secondo un romanzo di Lloyd C. Douglas. Se non altro un lodevole tentativo di fare un edificante polpettone hollywoodiano. La sacra SindoneComplessa, più seria e fondata è la storia della reliquia della Sacra Sindone, che ha ancora una consistente presenza nella religiosità non solo popolare. Viva ai giorni nostri nella venerazione, nei dibattiti, nelle manifestazioni, nelle citazioni non è una riscoperta e, come tale non ha bisogno di molte parole. Sarebbe il lenzuolo, il sudario in cui fu involto il corpo del Salvatore per essere deposto nel sepolcro, e sul quale è rimasta l’impronta dell’intera figura corporea.Documentato l’uso del sudario nei Vangeli (Matteo XXVII, 34) si hanno notizie di una sindone fino dal VII secolo, conservata a Gerusalemme e poi a Costantinopoli. Varie chiese affermarono di possedere quella vera, una della quali, di lino, si conservava a Lirey in Champagne e passò ai duchi di Savoia e nel Duomo di Torino, dove ancora si conserva. Ha resistito a tutte le analisi: non pare una contraffazione e risale agli stessi anni di Cristo. Il resto ce lo mette la fede.

Il diavolo e la reliquia

Un uomo era posseduto dal demonio e non riusciva a liberarsi, per quanti esorcismi gli facessero e per quante preghiere dicesse. Nei rari momenti di tregua l’indemoniato si rivolgeva a Dio che lo salvasse, ma poi tornavano le furie e lunghi giorni di agitazione.Durante un momento di tranquillità venne a trovarlo un parente che era marinaio, per salutarlo prima della partenza per un lungo viaggio. E così, parlando, venne a sapere che sarebbe andato in Terra Santa e avrebbe visto anche i luoghi della vita e della Passione del Signore. Siccome era stato sempre convinto che, se avesse potuto avere una reliquia della Croce, sarebbe stato liberato dal Diavolo, pregò il viaggiatore di procurargli una scheggia del legno santo.Passò molto tempo e il marinaio, ormai di ritorno, stava per raggiungere l’ultimo porto del viaggio, quando si ricordò improvvisamente che si era dimenticato di cercare la reliquia. Pensa e ripensa, non seppe fare altro che staccare dall’imbarcazione su cui navigava, una scheggia di vecchio legno e, involtala in un prezioso fazzoletto, la portò al povero indemoniato che lo ringraziò mille volte della sua premura.Quando il diavolo si fece avanti per una delle sue visite, il fedele si raccomandò fervidamente alla reliquia, scongiurando il demonio, per il legno santo della Croce, ad andarsene.La fede che l’uomo riponeva in quella scheggia di legno ebbe tanto potere, che l’efficacia fu anche maggiore che se fosse stata una vera reliquia della Croce. Per cui il demonio fu costretto a fuggire per sempre, ma, andandosene, disse: – Non è il legno della barcaccia,ma è la fede che mi scaccia!