Cultura & Società

Quaresima e Pasqua, controversie da calendario

di Elena Giannarelli«Lungo come una quaresima»: il modo di dire rende perfettamente l’idea di qualcosa che sembra non finire mai, perché la quaresima, periodo di penitenza e digiuno in preparazione della Pasqua, ha la durata di quaranta giorni. Il nome deriva dal latino quadragesima dies, quarantesimo giorno, e quaranta è una misura biblica per eccellenza: basti pensare alla analoga durata della permanenza di Mosè sul Sinai e soprattutto della tentazione di Gesù nel deserto. Quaranta giorni, dunque, e quaranta notti, perché gli antichi inserivano anche la veglia notturna o una minore durata del riposo fra gli esercizi di mortificazione, insieme ad un più assiduo dedicarsi alla preghiera. La celebre pellegrina Egeria, che negli anni 381-383 d.C. si recò in Terra Santa e che ha redatto un celebre «Diario di viaggio», descrive questo periodo come un momento di grande solennità nella Chiesa di Gerusalemme e ci presenta, fra i fedeli, alcuni laici che sceglievano un modo singolare di prepararsi alla festa e alla gioia della resurrezione: si chiamavano «ebdomadari» e facevano intere settimane di digiuno. Mangiavano al mattino della domenica e non mettevano più niente in bocca fino al successivo sabato mattina, dopo essersi comunicati alla basilica della Anastasi; per non parlare dei monaci, che accentuavano il rigore consueto e si nutrivano, quando non potevano farne a meno, né con il pane, né con l’olio o con i frutti degli alberi, ma con acqua ed un po’ di pappa di farina. Il tutto in dosi minime. La durata della Quaresima costituisce un problema per la Chiesa delle origini, perché molti autori della tarda antichità danno indicazioni diverse. Lo storico ecclesiastico Socrate scrive che i fedeli di Roma digiunavano per tre settimane, eccettuato sabato e domenica; quelli dell’Illirico, della Grecia e di Alessandria per sei settimane, altri per sette e non di meno tutti questi periodi si chiamavano ugualmente Quaresima: il richiamo al numero quaranta era letto su un piano simbolico e non come calcolo esatto. A Gerusalemme poi, sempre per testimonianza di Egeria, il periodo si stendeva sull’arco di otto settimane, perché su sette giorni solo cinque (dal lunedì al venerdì) erano dedicati al digiuno.

La Quaresima pare essere menzionata la prima volta nel 334 da Atanasio, il grande vescovo di Alessandria, così come i riti della Settimana Santa sembrano essere stati istituiti come riproposta di quanto si compiva in Gerusalemme sui luoghi stessi della passione, morte e resurrezione del Signore.

Non è questo il solo problema del calendario liturgico antico. Strettamente collegato è quello del computo della Pasqua, che si riflette sulla interpretazione teologica dello stesso evento pasquale.

Nel II secolo le Chiese di Roma, di Alessandria e molte comunità orientali e occidentali la celebravano la domenica immediatamente successiva al primo plenilunio di primavera. Le chiese di Asia Minore, compresa Efeso, ponevano la Pasqua il quattordicesimo giorno del mese di Nissan, ossia il quattordicesimo giorno della prima luna di primavera, secondo la tradizione giovannea, che voleva Gesù, agnello pasquale, immolato nello stesso giorno della Pasqua ebraica. Sorsero i Quartodecimani, cristiani che leggevano la festa della resurrezione in stretta continuità con la festa ebraica, interpretavano il nome pascha dal greco paschein «soffrire e facevano di Esodo 12 il punto di riferimento per interpretazioni tipologiche ed escatologiche. Lo storico Eusebio di Cesarea testimonia che numerosi sinodi del II secolo avevano stabilito che «il mistero della resurrezione del Signore dai morti non deve essere celebrato se non la domenica» (Historia Ecclesiastica IV,14,1). Si arrivò ad una vera e propria controversia, che coinvolgeva anche la scansione data dai Sinottici, per cui Gesù consumò la Pasqua legale il 14 di Nissan e fu crocifisso il 15. Praticamente con uno scarto rispetto a Giovanni. Prevalse naturalmente l’idea della celebrazione la prima domenica dopo la prima luna piena che segue l’equinozio di primavera, secondo quanto stabilito dal primo Concilio ecumenico di Nicea nel 325. Ciò in accordo con la chiesa romana e alessandrina; i vescovi di Alessandria inviavano ogni anno una lettera enciclica alle altre Chiese per annunciare la data della Pasqua, che però rimase e resta pur sempre un problema.

Pasqua come «passione», con significato cristologico, ossia celebrazione del passato e attesa degli eventi escatologici; Pasqua come transitus, «passaggio», con significato antropologico, ossia passaggio dall’ombra alla realtà, vita in un presente che anticipa la verità escatologica e celeste. A fare una sintesi ci pensò Agostino: «È con la sua passione che il Signore è “passato” dalla morte alla vita ed ha aperto a noi credenti la via verso la sua resurrezione, perché anche noi passiamo dalla morte alla vita». Così nelle Enarrationes in Psalmum 120,6. In questa prospettiva buona Pasqua a tutti. Prediche, scale, biscotti e ramoscelliC’era una volta la Quaresima, con le sue tradizioni speciali. Tutto iniziava il mercoledì delle ceneri quando si apriva la stagione delle grandi prediche e dei grandi predicatori, che giravano da città a città, da paese a paese per «infiammare gli animi» col pensiero dei terrori dell’inferno e le gioie del paradiso. Non è da sottovalutare il prestigio che derivava dall’essere stati chiamati sui pulpiti delle grandi cattedrali e delle basiliche di cui è ricca la nostra regione. Si faceva a gara ad avere il personaggio di grido.

Predicatori ed esercizi spirituali, occasioni di conversioni e riconciliazioni: un periodo austero, non c’è che dire. Perché non fosse troppo duro, tuttavia, complice l’inizio della primavera proprio in questo arco di tempo si svolgevano le prime fiere della stagione, quelle con le collane di nocciole da mettersi intorno al collo, dei duri di menta, dei lupini, dei brigidini. Era anche il momento in cui si progettavano nozze, si stringevano fidanzamenti, si pensava a sistemare le zitelle: affari d’oro per i cozzoni, i sensali di matrimoni. A Firenze, la quinta domenica di Quaresima, a Porta Romana e dintorni si svolgeva la «fiera dei pateracchi», dove si poteva trovare moglie o marito, grazie alla abilità di questi personaggi, a prezzo di una camicia e di tanta mortificazione.

Qualcosa di straordinario avveniva sempre a Firenze il giovedì di mezza Quaresima: i ragazzi attaccavano senza farsene accorgere con spilli scale di carta sulle gonne delle signore che passavano o le disegnavano col gesso, in una riproposta delle scale che erano servite per attaccare il fantoccio della Quaresima sotto le Logge del Mercato Nuovo e che proprio in quel giorno veniva segato in due. Il grido caratteristico era «La l’hae! La l’hae!». Voleva dire che quella signora aveva la scala e forse che somiglia alla «Quaresima», il fantoccio brutto, magro, lungo. Insomma non era propriamente un complimento. Da parte dei ragazzi più grandi attaccare una scala di carta sul «didietro» di una signora poteva significare anche prendersi una qualche libertà non quaresimale per verificare se la malcapitata portava il «culissonne», in franco-fiorentino l’imbottitura che arricchiva il profilo delle dame eleganti; da qui la reazione inviperita delle donne e molto del divertimento. Col tempo le scale si trasformarono in ottimi biscotti di cioccolata, che andarono a far compagnia agli altrettanto ottimi ed adesso rari quaresimali.

Sempre in Quaresima, in tutta la Toscana si poteva giocare alla «Pentolaccia»; inoltre nelle campagne era d’uso «fare il verde». Una o più persone prendevano un ramoscello di bossolo e si impegnavano a portarlo addosso fino a Pasqua, pronti a mostrarlo in qualunque occasione alla richiesta «Fuori il verde». E se non lo avevano erano dolori: si doveva pagare pegno. Attesa della primavera? Speranza della resurrezione? Chi lo sa. Certo era un modo di vivere completamente diverso dal nostro. E per ulteriori informazioni non resta che rivolgersi ad Artusi, Gabbrielli e Lapucci, gli studiosi del tempo che fu.