Cultura & Società

Reliquie, quale valore?

di Lorella Pellis

La reliquia, nella tradizione ecclesiale cattolica – spiega lo storico Franco Cardini –, è un resto corporeo di santi o di sante, di beati o beate, oppure di qualche oggetto santificato dal contatto con loro. Casi molto particolari sono le reliquie della Beata Vergine Maria e, soprattutto, del Cristo: specialissime poi sono le reliquie del legno della Croce e quelle del Sangue del Signore». «Sul piano storico, la reliquia cristica – spiega ancora il medievista fiorentino – è prova e pegno (in latino, appunto, pignus) della comune salvezza, connessa con la realtà dell’Incarnazione; a somiglianza di essa, le reliquie dei martiri sono pegno della comunione dei santi, che garantisce l’unità della Chiesa come Corpo Mistico sulla quale si fonda la certezza che i santi continuano a proteggere, come mediatori, i credenti».

Nei giorni scorsi, le reliquie sono tornate alla ribalta, almeno in Toscana, per due fatti molto diversi tra loro: da una parte l’ostensione straordinaria del Sacro Cingolo a Prato con il cardinale di Torino, Severino Poletto; dall’altra gli esiti di una ricerca con il carbonio 14 sul saio francescano conservato in San Francesco a Cortona e su quello conservato in Santa Croce a Firenze. Dalle analisi sulle reliquie, condotte dal Laboratorio di tecniche nucleari per i beni culturali dell’Istituto nazionale di fisica nucleare, il saio di Cortona sarebbe coevo alla vita del Santo, mentre quello custodito in Santa Croce, al contrario, sarebbe successivo alla morte avvenuta nel 1226.

In questo secondo caso affiora un mistero, che può persino diventare affascinante. E niente toglie che quel saio sia appartenuto a un discepolo di Francesco, magari a San Bonaventura. Certo è anche che le reliquie sono state nel tempo «oggetto di scambi, commerci, furti e falsificazioni – come afferma Anna Benvenuti – docente di Storia medievale all’Università di Firenze. A fare delle reliquie una “merce” pregiata contribuiva l’opinione di una loro virtù e taumaturgica valida non solo per i singoli fedeli ma anche per le terre che le ospitavano». L’apporto di reliquie in Occidente divenne più significativo quando tra XII e XIII secolo, grazie anche alle crociate, dice ancora la studiosa, «si intensificarono i rapporti con l’oriente cristiano. La stessa istanza di legittimazione spingeva le città portuali italiane a procacciarsi reliquie. Legittimate da racconti fiabeschi alcune di esse inserirono anche la Toscana medievale nel palinsesto della traslazione simbolica che trasferiva in Occidente la sacralità memoriale della Terra Santa, contribuendo a rafforzare il gioco degli antagonismi e delle rivalità comunali. Esemplare è la contesa che avrebbe coinvolto Luni, Lucca ed infine anche Pisa nel “processo di aggregazione mitica” evocato dalla presenza di quelle reliquie del santo sangue di Beirut che circolarono nel mediterraneo occidentale entro le grandi stauroteche antenate del Volto Santo di Lucca. Rielaborate per lo più tra XIII e XIV secolo, le leggende con le quali si giustificava il prestigio religioso municipale si coniugarono con istanze di tipo politico, come nel caso di Prato, che riuscì a legittimare il proprio desiderio di autonomia rispetto alla sua matrice diocesana, Pistoia, proprio grazie al possesso di una prestigiosa reliquia mariana, la Cintura della Vergine». In ogni caso, precisa Cardini, «la fede nelle reliquie non fa parte di alcun dogma e in caso di dubbia autenticità la Chiesa può autorizzare il mantenimento – magari provvisorio – di un culto locale per rispetto alla tradizione e alla devozione dei fedeli».

Ma qual è l’atteggiamento che i fedeli dovrebbero manifestare nei confronti delle reliquie? «I fedeli – spiega don Franco Brogi, liturgista e presidente della Commissione per il culto divino della diocesi di Fiesole – sono chiamati a coltivare con equilibrio l’omaggio che si deve a coloro che a imitazione di Cristo hanno vissuto la perfezione della carità e che, riconosciuti come tali dall’autorità ecclesiastica, godono di pubblica venerazione. Dunque toccare una reliquia, pregare di fronte ad essa significa riaffermare la fede nella comunione dei santi in Cristo ed impegna alla imitazione del Figlio di Dio, incarnato, morto e risorto, del cui volto sono immagine luminosa i Santi. È legittimo, dunque, venerare una reliquia, ma il ricorso ai santi è subordinato al ricorso al Cristo, unico Salvatore degli uomini. L’omaggio più autentico che il popolo di Dio può tributare a un santo – conclude don Brogi – è di festeggiare il suo anniversario attraverso la celebrazione della Messa: da ciò consegue la grazia e il desiderio di trasformare la propria vita, come ha fatto il Santo che onoriamo, a immagine del Corpo e del Sangue di Cristo offerti sull’altare».

Fra le più note

Ci sono i corpi dei Santi custoditi nelle chiese Toscane, moltissime reliquie, spesso solo frammenti, sono sparse nelle sacrestie, ci sono poi le tavole miracolose e via dicendo.Difficile, per non dire impossibile, fare un elenco completo di tutte le reliquie presenti nella nostra regione. Di seguito ne elenchiamo alcune, sicuramente fra le più conosciute:
  • Cintura della Vergine (Prato)

  • Braccio di san Filippo (Firenze),

  • Dito di San Giovanni (Firenze)

  • Santo Sangue (Luni/Sarzana)

  • Santo Volto (Lucca)

  • Santa Spina (Pisa)

  • San Nicodemo (Pisa)

  • Santo Chiodo (Colle)

  • Santo anello della vergine (Chiusi anticamente, poi Perugia)

  • Santo Latte di Montevarchi

  • San Jacopo a Pistoia

Dalla Cintola della Vergine l’identità dei Pratesi

Nella composita leggenda elaborata per giustificare l’autenticità della Cintola, conservata nel Duomo di Prato, il protagonista della santa acquisizione, Michele, è rappresentato come un artigiano condotto in Levante dai suoi affari nell’epoca in cui più intensi si facevano i rapporti commerciali delle città italiane con l’Oriente «crociato». Egli avrebbe in quelle terre lontane conosciuto e sposato la figlia di un sacerdote gerosolimitano cui era stata affidata la custodia della cintola che Maria, in segno di predilezione, aveva lasciato all’apostolo Tommaso al momento dell’Assunzione. Mimetizzata tra gli oggetti che componevano la dote della giovane sposa, una volta giunta a Prato la reliquia era stata riposta da Michele, ignaro della natura sacra dell’oggetto, in un cassone. Per quanto a più riprese insospettito da eventi straordinari verificatisi intorno a quell’improprio reliquiario, egli avrebbe mantenuto il segreto sulla cintola portata da Gerusalemme fino alla vigilia della morte, quando ne rivelava l’esistenza ad Uberto, preposto di Santo Stefano, stabilendo di affidarne la custodia al clero della pieve. Qua una serie di manifestazioni e miracoli taumaturgici attestavano pubblicamente l’autenticità della reliquia che iniziava ad agire quale presidio apotropaico contro i nemici della città, a cominciare dai pistoiesi, di cui contribuiva a respingere un attacco nel 1189.

A più riprese impiegata per allontanare occasionali pericoli, la reliquia avrebbe manifestato la sua volontà di restare in terra di Prato impedendo la riuscita di un furto orchestrato da un canonico della pieve stessa, Giovanni di ser Landetto detto Musciattino, il quale pagò coi supplizi più infamanti e infine con la vita il proditorio attentato al principale tesoro sacro della città. Numerose erano state, nell’Occidente medievale, le chiese che avevano rivendicato il possesso di cinture lasciate da Maria tra gli abiti vuoti dopo l’assunzione del suo corpo al cielo, ed uno di questi santi cingoli a suo tempo aveva costituito uno dei più venerati tesori della collezione imperiale bizantina. Il sacco di Costantinopoli nel quale si risolse la spedizione crociata del 1204 avrebbe riempito di reliquie le stive delle navi degli spregiudicati imprenditori delle repubbliche marinare italiane, contribuendo alla proliferazione di santi oggetti dalle origini più o meno incerte attorno ai quali andò addensandosi la «nostalgia» di Gerusalemme di un’Europa sempre più incapace del recupero militare del Santo Sepolcro e dei luoghi santi d’Oltremare. Spesso l’arrivo per vie oscure di una reliquia, al di là del problema culturalmente relativo della sua autenticità, attivò attorno a quell’oggetto carico di suggestioni e di evocazioni evangeliche l’orgoglio municipale e le sue forme di ostentazione, a cominciare della redazione di scritture celebrative capaci di esaltare il prestigio cittadino. A Prato questo compito memoriale fu assolto attraverso una prima redazione della leggenda di Michele ed infine dalla composizione, commissionata dalla pubblica autorità, di una vera e propria «laus civitatis», il Cincturale, col quale la storia della reliquia si fuse con le vicende politiche e culturali della città, giustificandone la natura di vero e proprio palladio municipale, simbolo internazionale della sua immagine assieme alle sue lane da esportazione ed alle lettere di credito inventate dai suoi banchieri. Grazie alla Cintola Prato poteva autorappresentarsi come «nova Jerusalem», esaltando, anche in assenza di riconoscimenti formali, la propria dignità sia nei confronti di Pistoia, sua matrice ecclesiastica, sia di Firenze, sua dominante politica.

Anna Benvenuti

Prato, la lipsanoteca del commendator SantiniIl nome è lipsanoteca (deriva dal greco e significa, alla lettera, «custodia di avanzi»). Luciano Santini (nella foto a destra) ama definirla così. In effetti parlare di «collezione» di reliquie sa di profano. Qui, invece, il sentimento è tutto sacro e sincero. Il «commendatore», come a Prato è conosciuto, è uno dei personaggi più caratteristici della città. Per anni consigliere comunale, a lungo governatore della Misericordia, è stato lui a ideare il ripristino, quarant’anni fa, del Corteggio storico, la manifestazione che, nella festa dell’8 settembre, precede l’Ostensione del Sacro Cingolo della Madonna. Chi vuol conoscere le antiche tradizioni pratesi, soprattutto quelle religiose, non ha che da chiedere al Santini. «Per i Santi – ci racconta – ho avuto fin da ragazzo una grande devozione. Li ho sempre visti come modelli di vita e come intercessori. Ora che sono anziano li sento ancora più vicini». Nello studio di casa, il «commendatore» ci mostra l’armadio che raccoglie più di duecento – «ma il conto non lo ho tenuto» – reliquie di santi. Ci sono oggetti di grande significato riguardanti le grandi figure legate a Prato – come una lettera di S. Caterina De’ Ricci o un fazzoletto del grande predicatore S. Leonardo da Porto Maurizio – o, per esempio, reliquie di grandi santi, a cominciare da San Francesco e Santa Chiara d’Assisi. C’è un pezzo della Cappa magna, cioè dello strascico, di San Carlo Borromeo, e uno della corda del saio di San Giuseppe da Copertino. Accanto a questi, decine e decine di piccole reliquie. «Le ho raccolte fin da giovane – ci spiega Santini – spesso recuperando reliquie e reliquiari dai mercatini dove erano finite dopo la grande “smobilitazione” nata da una malintesa interpretazione della riforma liturgica. Poi altre le ho ricevute in dono; molte, invece, le chiedo alle postulazioni delle cause di beatificazione e di canonizzazione». Non sempre rispondono, ma in molti casi il commendatore si vede recapitare a casa una reliquia. Davanti all’armadio di legno, sta fissa una poltrona. Accanto il breviario e libri spirituali. «Mi piace mettermi a pregare davanti ai miei santi», ci confessa.

G.R.San Francesco senza più segreti