Cultura & Società

Retorico sarà lei…

di Elena GiannarelliNon si scappa: magari senza saperlo, tutti siamo vittime della retorica, una delle più antiche arti inventate dall’uomo, portata a perfezione da greci e latini, mai passata di moda. Ci tende agguati ogni giorno, dai titoli dei giornali, negli spot pubblicitari, nei discorsi dei politici, soprattutto di quelli che cercano la frase ad effetto e l’applauso a scena aperta. Il bossiano «Roma ladrona» è un esempio di assonanza, una rima imperfetta, ma efficace, che è diventata uno slogan. Il bello è che ci caschiamo anche noi, nei vortici retorici. Basta dire ad un amico: «La sai l’ultima sul Cavaliere?» e l’antonomasia è servita, perché il Presidente del Consiglio è il più celebre fra i tanti insigniti di quella onorificenza al merito, il Cavaliere per eccellenza.

Se andate a sfogliare i manuali di retorica sotto questa figura particolare, scoprirete che è in ottima compagnia: il Poeta è Dante, il Filosofo è Aristotele, il Segretario fiorentino è Machiavelli, il Corso è Napoleone. Non si esclude una punta di ironia, così come ironico è il soprannome di «Notre Dame des tailleurs» dato a Letizia Moratti, ministro che ama molto quel capo di abbigliamento. I destinatari della riforma che porta il suo nome la chiamano anche «Donna Letizia», con allusività alla titolare di una celebre rubrica di «bon ton» e «cuori infranti» su settimanali femminili del tempo che fu.

Nelle redazioni si frequenta molto la metafora: «dare un colpo di freno all’inflazione», «pigiare sull’acceleratore delle riforme» sono espressioni correnti. Nella lingua della burocrazia imperversa l’eufemismo: quando uno cade in disgrazia o viene destituito, si dice che «è passato ad altro incarico», o che «ha rassegnato le dimissioni». Promoveatur ut amoveatur, «sia promosso perché venga rimosso» è una applicazione latina, forse più piacevole, dello stesso principio, legata all’ambito ecclesiastico. Il caso più frequentato: «È passato a miglior vita», indica la sorte comune dei mortali.

Nella pubblicità la retorica trova oggi il terreno più fertile. La rima, i giochi fonici, le allitterazioni, le paronomasie, i bisticci sono di sicura presa. Geniale è la definizione attraverso tre aggettivi superlativi, l’ultimo dei quali ripete il nome del prodotto. «Altissima, purissima, levissima»: è una sorta di climax (scala) con rima, resa ancora più convincente dal carisma e dall’inconfondibile «a» altoatesina di Messner. Meno felice pare «Kala Kili», scelta da un centro di dimagrimento: qui scatta la molla non voluta della allusività alla parola «harakiri», che pare evocare un destino non proprio piacevole per chi si affida a quegli specialisti. Migliore il «voliamoci bene» di una nota compagnia aerea che gioca sul «volere/volare» di proverbiale memoria e sottintende che chi si vuole bene vola con i suoi aerei, scioperi permettendo. Si possono stravolgere massime famose per vendere condizionatori d’aria (chi la afa non la aspetti); si può usare la litote per sconfiggere la paura delle iniezioni. (Pic, la siringa niente male); ricorrere alla solita metafora per reclamizzare un carburante: «Metti un tigre nel motore». A Livorno commentarono: «Deh, provaci» e via di questo passo. Ce n’è per tutti i gusti, anche con ammiccamenti non proprio corretti. Tutti ricordiamo la voce siciliana che affermava: «Ce l’ho profumato. L’alito: che avevi capito?». E dire che c’è ancora chi si ostina a parlare di estremità (eufemismo per i piedi) e chi ricorda con nostalgia Carducci e le celebri «corazze fatte con la cotenna di quell’animale che ha il nome della città omerica». Al poeta i nomi della femmina del porco creavano un qualche imbarazzo.

Chiasmi, similitudinie altre figure retorichedi LORELLA PELLISRetorica, dunque: deriva dal greco, dal verbo eirein, «parlare», cui si riconnette il sostantivo rhema, «parola», e l’aggettivo rhetorikos. Grandissimi comunicatori, sono stati proprio gli antichi a fondare quest’arte. Fra i traslati – parole trasferite a significare una cosa diversa da quella indicata in senso proprio – si collocano le metafore: «quello è una volpe» per indicare un tipo astuto, le tempeste della vita e la quiete del porto della morte di foscoliana memoria. La similitudine è più semplice: basta un «come» ed il gioco è fatto. Padre Dante può usare anche «a guisa di» ed ecco l’indimenticabile Sordello: «A guisa di leon quando si posa».

Metonimia: il nome significa cambiamento «che va oltre il nome». Si ottiene usando il contenente per il contenuto: «beviamoci un bicchierino»; l’autore per l’opera: «leggete il Manzoni»; la causa per l’effetto: «vivere del proprio lavoro»; l’effetto per la causa: «guadagnarsi il pane col sudore della fronte»; la materia per l’oggetto che di essa è composto: «i sacri bronzi» per le campane e via di questo passo.

La sineddoche (dal greco syn-dechesthai, «accogliere insieme») è una forma speciale di metonimia che si fonda su un rapporto quantitativo tra nome e oggetto: «Tetto» per «casa»: una parte indica il tutto; il tutto può indicare una parte: un «mantello di visone», per dire «pelle di visone».

Litote: si afferma qualcosa negandone il contrario. «Non è uno stupido» per dire che qualcuno è intelligente.

Perifrasi: è la circonlocuzione, un «girare intorno alle cose», un esprimere con molte parole quello che si potrebbe dire con una parola sola. Così se l’«Atene d’Italia» è Firenze, l’Italia, parola di Dante, è «il bel paese là dove il si suona».

«Sembri una lumaca», «sono secoli che non ci vediamo» appartengono alla categoria delle iperboli.Dire «che eleganza» ad uno vestito di stracci è ironia, ma attenti che non siano stracci d’autore.Restano l’anafora (ripetizione): «per me si va nella città dolente/per me si va nell’etterno dolore/ per me si va tra la perduta gente»; il chiasmo (il ripetere in ordine inverso, a incrocio, alcune parole e qui ci aiuta Leopardi «Io solo/ combatterò, procomberò sol io»; l’antitesi, ossia accostare concetti contrari, e infine le figure grammaticali. «Mal comune mezzo gaudio» è un proverbio ellittico del verbo; il pleonasmo è quello tipico dei toscani e perfino Renzo dice «la c’è la Provvidenza», in conseguenza dei risciacqui in Arno del Manzoni.

L’asindeto è quello del primo telegramma della storia. «Veni, vidi, vici» di Cesare. Se ci si chiama Petrarca si può usare un aggettivo per un avverbio «Quel rosignuol che si soave piagne» e fare una enallage; se ci si chiama Carducci l’ipallage può scappare: «Il divino del pian silenzio verde», dove il verde connota il silenzio e non il piano.

E per ultimo citiamo l’anacoluto, una incongruenza, dal greco: «che non segue». E un costrutto ardito: «Lei sa che noi monache ci piace sentir le storie per minuto». Parola di Gertrude, monaca di Monza.