Cultura & Società

Riflessioni per il giorno dei morti

di Carlo LapucciIl culto dei morti, comunemente considerato la forma più antica di rapporto dei viventi con la trascendenza, cambia sotto i nostri occhi sia nella ritualità che nella sostanza, né poteva essere altrimenti, vista la generale trasformazione della vita. La cosa più vistosa che si nota entrando in un cimitero è la scomparsa delle iscrizioni sopra le lapidi: le lunghe lamentose sequele di meriti dello scomparso, le attestazioni di lode e d’affetto non ci sono più. La lastra di marmo ha tutt’al più una fotografia, un nome con date di nascita e di morte.

Era usanza antica fissare sul marmo, insieme ai tratti del defunto, anche un suo breve cenno biografico, le sue qualifiche, la sua attività e i titoli, se li aveva. Più nulla. Vero è che nel passato prossimo (Ottocento e parte del Novecento) si era esagerato non poco, riempiendo i marmi di lunghe pappardelle, che spesso facevano sorridere al punto che si dice ancora: Bugiardo come un epitaffio. D’altra parte non era il caso di ricordare chiaro e tondo, e a caratteri indelebili, come il poveretto che giaceva là sotto n’avesse fatte più di Carlo in Francia, e allora si diceva il meglio possibile e qualcuno esagerava, finendo nell’incredibile. Fenomeno che fece domandare a un turco in visita a un cimitero cristiano, dove venivano sepolti da noi i cattivi.

Le epigrafi sono scomparse: un piano di pietra, un nome, due date, al più una croce o un altro simbolo religioso come ! e S. Raramente compare una frase della Sacra Scrittura.Certamente non è il caso di rimpiangere quelle lunghe chiacchiere, che nessuno tra l’altro leggeva: il fatto è che ai nostri predecessori sembravano un giusto tributo di onore e di memoria per gli scomparsi, e a noi sembrano cose inutili, a volte anche da guardarsi con commiserazione.Quindi non è cambiato solo una forma, ma qualcosa di più profondo: secoli, millenni se non altro di abitudine, non si cancellano con una moda. Basta pensare alla quantità enorme di notizie sia stata tramandata attraverso le lapidi dai tempi remoti, quante figure e quanti fatti si siano conosciuti attraverso un epitaffio, quale contributo questi abbiano dato alla decifrazione delle lingue, per accorgersi che noi stiamo alterando una consuetudine di primaria importanza: quello che pensa l’uomo di sé, della vita, del suo rapporto col mondo e con la trascendenza.

Questo può apparire meglio attraverso altri mutamenti di usi funebri, alterati o scomparsi, ed emerge subito un elemento: l’uomo oggi tende a circoscrivere la propria vita al tempo della sua realtà biologica. Anche ritenere che, in sostanza, quello che uno ha fatto nella vita, chi è stato, cosa ha lasciato, non interessa più a nessuno, significa che l’io non si pensa più parte coerente con un tutto: con buona pace del Foscolo, né le urne dei forti, né quelle dei deboli, creano più una corrispondenza d’amorosi sensi, né sono ammonimenti, dal momento che tutto illumina la ragione e per quanto riguarda l’esperienza ognuno deve fare la propria. Era già tutto scritto nella visione illuminista della vita: oggi se ne traggono solo le conseguenze.

Cicerone a Siracusa riuscì a individuare la tomba di Archimede trovando sulla lapide incisi un cilindro e una sfera, il cui rapporto fu la grande scoperta dello scienziato, ma quanti messaggi sono giunti fino a noi anche da umili sepolcri? L’epitaffio un tempo raccoglieva la summa di un’esperienza, un ammonimento, il frutto estremo di un’esistenza, tanto che ne ha fatto tesoro la letteratura. Molte composizioni dell’Antologia Palatina, la grande raccolta di poesia bizantina, sono forme poetizzate di epitaffi. Lo stesso procedimento usò Edgar Lee Masters nella, un tempo notissima, Spoon River Anthology, e anche i discorsi di coloro che Dante incontra nella Divina Commedia, non sono che grandi autoepitaffi.

Nel giro di pochi decenni le tombe dalla terra si sono sollevate in edifici, loculi somiglianti agli alveari di casermoni di megalopoli, tutti uguali, come vuole la morte, tutti precari destinati ad ospitare le salme qualche decennio, poi la polvere.

Se si guarda il fenomeno in un’ottica di storia dell’umanità non si sa più se l’uomo sta cancellando qualcosa, o sta ricominciando da capo. In fondo anche le tombe dei primitivi avevano la stessa durata, gli stessi segni, lo stesso anonimato. Questo è certamente un ritorno alla semplicità, un abbandono di tronfie presunzioni di imporre la ricchezza e le differenze sociali oltre la vita, l’ingenua speranza di recuperare con la pompa e la grandiosità una vita perduta. Tuttavia altri elementi rivelano umane inquietudini sotto l’apparente recupero di semplicità. La morte sta diventando una specie di tabù moderno: il funerale, che un tempo fermava per pochi attimi la vita d’un paese, i passanti, impegnava in riti familiari, visite, cortei, ostensione di dolore, fiori, abiti a lutto, sta scomparendo riducendosi all’essenziale, quando non diviene quasi un trafugamento all’insaputa di quanti più possibile.

Anche i fiori scompaiono con la formula umanitaria: Non fiori, ma opere di bene. L’intenzione è lodevole, ma anche qui si cancella l’ultima traccia dell’antico sacrificio in onore e memoria del trapassato: un tributo di bellezza, una rinuncia a un bene che si deponeva ai piedi della persona cara, dell’amico, di chi doveva essere ricordato.

Proprio davanti alle tombe ormai non si trovano quasi più fiori freschi. Le imitazioni in plastica e altri materiali hanno preso il loro posto, col vantaggio di non mostrare più il penoso spettacolo di steli e foglie appassite, mantenendo a tempo indeterminato un aspetto meno trasandato, ma di una fissità spettrale, alla quale non si fa più caso.

Del resto che faccia farebbe una persona che si vedesse fare in omaggio un bellissimo mazzo di fiori finti? Avete voglia a dire che durano di più: non la rimediate, e giustamente. I morti non parlano e se li tengono, ma è un nostro autoinganno.

Un altro elemento contraddittorio è il lusso delle tombe che sempre più si fanno in terra: qui compaiono marmi preziosi, talvolta statue che da tempo erano scomparse, ornamenti in bronzo, vasi, riquadrature o strutture dello stesso metallo: manufatti spesso costosissimi, che fanno pensare a sopravvivenze di uno spirito apparentemente tramontato. A rifletterci bene si sospetta che sia uno spirito foscoliano esteso alla massa, anche perché l’immanentismo vi trionfa ancora di più.

Infatti un altro elemento è venuto a mutare: la fotografia. Fino a poco tempo fa le immagini che si trovavano sulle lapidi erano di una tremenda serietà: pareva che il defunto fosse il primo a condolersi per la sua scomparsa. Gente per lo più vecchia accigliata, triste, senza una minima traccia di sorriso: e si capisce bene. Si pensava a loro come in un mondo lontano, forse nelle sofferenze d’un purgatorio, forse davanti al trono di Dio e si meditava.

Oggi suona altra musica: la foto sulla tomba, soprattutto in quella di media sfarzosità, tende a ritrarre il caro estinto nel momento della sua massima vitalità, anche se è morto centenario, per cui si vede gente nel fiore degli anni che fa lo sci nautico, o quello sulla neve, in calzoni corti in visita ai Caraibi, in moto, su rombanti auto scoperte con le chiome al vento, tanto che lì per lì si sospetta che il decesso sia avvenuto il quei momenti, nel corso di un malaugurato incidente.

Invece no. L’interessato è morto di vecchiaia nel suo letto, ma la sua immagine, anche sulla tomba, non deve evocare la morte, semmai la vita, ma non quella eterna, quella terrena.Qui forse si capisce meglio cosa possa essere cambiato veramente tra noi e la morte: è il rifiuto della sua rappresentazione. Riti, immagini, fino a poco tempo fa ce la rappresentavano come esito e come parte inseparabile della vita: la realtà alla presenza della quale occorreva vivere, se si voleva avere una consapevolezza intera della realtà umana. Oggi si tende a vederla come fatto separato dalla vita: non si vogliono vedere sopra le tombe neppure i fiori morti.

Al di là degli aspetti esasperati di rappresentazioni nevrotiche della nostra fine, quali le varie ossessioni vissute in diversi periodi storici, atte a spaventare più che a far meditare, nei cimiteri si tocca con mano la contraddizione di una vita alla quale la sola scienza, nella sua veste peggiore di scientismo, presume di dare il senso e il valore e non riesce ad aver ragione dei problemi fondamentali dell’uomo, per cui infantilmente cerca di nascondere quello che ricorda la sua scommessa e la sua sconfitta.

Un ultimo elemento si affaccia alla nostra osservazione: la comparsa dei lumini votivi perenni, alimentati dalla corrente elettrica. Una volta la visita al cimitero comportava l’acquisto di qualche candelotto che veniva acceso dentro un lanternino fissato sulla lapide. L’omaggio di luce, col suo simbolo di vita e di memoria, durava alcune ore, spegnendosi nella notte seguente. Era un tributo di prodotti naturali, immolati davanti alla tomba, un sacrificio, che è scomparso anche nella sua estrema sintesi. Con questo si può notare che stanno sparendo sotto i nostri occhi le estreme propaggini del paganesimo: ce ne sono voluti di anni. Ma non è che siano proprio morte, perché è indistruttibile il bisogno di un segno, di una cosa concreta su cui appoggiare quello che d’inesprimibile sta nell’animo. La luce, simbolo primario di vita, sia nel sole che nella lampada, si è abbarbicata alle tombe, trasformandosi da eterna in perenne, per cui i cimiteri nella notte appaiono mondi favolosi, castelli stipati, addensati di esseri ognuno dei quali sta accanto al suo lumino, alveari di anime, chi sa? Mondi purgatoriali di una lunga attesa, a cui l’uomo contemporaneo non sa dare un nome, un contenuto, una forma, ma della quale non può fare a meno, perché nel profondo del suo essere sa che qualcosa deve venire, e intanto, come il personaggio di Kafka nel Messaggio dell’Imperatore, siede alla finestra e lo sogna mentre passa la notte.

Le lapidi più famose

Epitaffio di Beniamino FranklinLa spoglia di Beniamino Franklintipografo,come la copertina d’un vecchio libroche ha perduto i suoi fogli,le dorature e il titolo,qui giace, pasto dei vermi;tuttavia l’opera non andrà persa,poiché, come lui ha sempre creduto,ricomparirà di nuovoin un’altra edizione assai migliorata,corretta ed emendatadall’Autore. Tomba campestrePasseggero che attraversi questa terra,se mai avesti un amore,fermati un poco e versa una lacrimaper me che giaccio sotto queste zolle;ma se nei tuoi giornitu non hai mai amato, alloraverserò io una lacrima per te. La lapide del Piovano ArlottoIl celebre Piovano Arlotto, fattosi membro della confraternita di Cristo Pellegrino a Firenze, volle essere sepolto nella chiesa di Cristo Salvatore, detta comunemente dei Pretoni, dettando la famosa lapide che ancora si legge: «Questa sepoltura il Piovano Arlottofece fare /per se e per chi ci vuole entrare». In seguito vi fu aggiunto:Morì il dì XXVI dicembrea ore XIV del MCCCCLXXXIV.Così la chiesa fu chiamata comunementeanche del Piovano Arlotto. Al cimitero di NorimbergaNel Cimitero di Norimberga c’era l’uso di mettere ironia sopra le lapidi al punto che è diventato una specie di luogo comune, per cui questo luogo ha agito, come accade nella tradizione popolare, quale elemento polarizzante, attraendo anche elementi e materiali che non appartengono propriamente a queste lapidi. Comunque sia, le lapidi del Cimitero di Norimberga sono quelle in cui emerge l’umorismo, volontario o meno. L LETTERATO-SCRITTORESi privò del suo sonnoPer farlo venire agli altri. IL COCCHIEREBreve è il viaggioper l’eternità:partito alle cinquealle sei era già arrivato MALATO NON CREDUTOScemi! Ve lo dicevo io che mi sentivo male! MARITO CONSOLATOQui riposa mia moglie.Dio le ha dato la pace,lei l’ha data a me. ANONIMO DI NORIMBERGAQuesto non mi eramai capitato. IL MEDICOQui riposa il seminatoredi tutta questa ricca messe. ANONIMO DI NORIMBERGAQuesto non mi era mai capitato. CONSORTE AMOROSAQui giace il mio sposo:visse 26 anni da uomoe 37 da marito. ROVINATO DALLE MEDICINEPer stare meglio sono finito qua. MASCALZONE SCAPOLOAvesse fatto suo padrequello che ha fatto lui. DEFUNTO GENTILEScusate se non mi alzo a salutarvima forse è meglio per voi

«Il giorno dei morti»

«Il giorno dei morti» di MontaleMontale descrive la donna di servizio, la vecchia Gina, che in casa ricorda a suo modo il giorno dei morti. Quasi un relitto nella città industriale, la Gina, come un primitivo in una metropoli, conserva i suoi riti, la suavisione del mondo, ricorda i suoi morti, li onora. La vera morte è l’indifferenza che le sta intorno, quella di chi è chiuso nell’aridità del proprio io, mentre sono vivi tutti quelli scaldati dalla sua memoria e dal suo amore.La Gina senza saperlo ha costituito una minima,umana Comunione del Santi. Il giorno dei morti, Quaderno di quattro anni, Mondadori, Milano 1977. La Gina ha acceso un candelotto per i suoi morti.L’ha acceso in cucina, i morti sono tanti e non vicini.Bisogna risalire a quando era bambinae il caffellatte era un pugno di castagne secche.Bisogna ricreare un padre piccolo e vecchioe le sue scarpinate per trovarle un poco di vino dolce.Di vini lui non poteva berne né dolci né secchiperché mancavano i soldi e c’era da nutrirei porcellini che lei portava al pascolo.Tra i morti si può mettere la maestra che dava bacchettatealle dita gelate della bambina. Mortoanche qualche vivente, semivivente prossimoal traghetto. E’ una folla che non è nienteperché non ha portato al pascolo i porcellini.

1° novembre, l’enigma della santità (di FRANCO CARDINI)

Se il fatto più importante della vita è la morte (di RODOLFO DONI)