Cultura & Società

Social network, i blackout ci fanno capire la dipendenza dalla rete

Che cosa succede cioè se per un blackout, o per un blocco dei servizi di questa o quella piattaforma, ci ritroviamo incapaci di mantenere le relazioni online con i nostri contatti? Sono domande che periodicamente si ripropongono, così come periodicamente si ripropongono i blackout e le interruzioni che ce le fanno formulare.

Viviamo infatti in una situazione di dipendenza. È anzitutto una dipendenza dalle fonti di energia che fanno funzionare i nostri apparati tecnologici. Pensiamo che cosa succederebbe della nostra vita se non ci fosse più produzione di elettricità. Eppure è uno scenario che dobbiamo considerare, visto che questa risorsa non è illimitata.

C’è poi la dipendenza dai dispositivi di cui facciamo comunemente uso: soprattutto lo smartphone. Lo portiamo sempre con noi, non lo stacchiamo mai (neppure la notte), ci consente di stare sempre collegati. Esso infatti è la porta che, grazie ai suoi programmi e alle sue app, c’immette in altri ambienti e ci offre sempre nuove possibilità di relazione. Ormai, d’altronde, ci siamo abituati. Non ne possiamo fare a meno. Così come ci stiamo abituando all’interazione con altri dispositivi «smart»: ad esempio la Smart TV. A essi e alla loro «intelligenza» cediamo quote sempre più ampie di competenze, visto che facciamo fare a loro ciò che dovremmo o potremmo fare noi. Questa progressiva perdita di competenze gli studiosi la chiamano «deskilling».

C’è infine la dipendenza dagli altri. A causa dei programmi veicolati dai dispositivi digitali non solo siamo costantemente collegati, ma, per dir così, siamo sempre alla finestra. Siamo cioè costantemente in vista, e vogliamo sempre di più attirare l’attenzione di coloro che ci possono guardare. Pensiamo ai Social. Lo vogliamo fare perché ci piacer avere un seguito, ci piace avere l’approvazione degli altri. Ciò solletica il nostro narcisismo. E così facciamo di tutto per conquistare «amici» e «followers».

Bene: tutto ciò va in crisi se ci troviamo disconnessi. Se c’è un blocco elettrico o della rete entriamo in crisi di astinenza. Se non sappiamo più come far funzionare i nostri dispositivi, perché si bloccano o perché il loro aggiornamento va oltre le nostre competenze, andiamo nel panico. Il nostro rapporto con le tecnologie è diventato, per certi aspetti, come una droga. E dunque bisogna farci i conti.

Visto che si tratta di una dipendenza, molti pensano che la si debba trattare semplicemente iniziando un processo di disintossicazione. Da questo punto di vista le strategie adottate sono molte. C’è chi usa la formula del digiuno periodico, per cercar di ribadire il controllo sulle connessioni. C’è chi invece, più radicale, si trasforma in una sorta di luddista delle tecnologie: come nel caso di quegli operai che, nell’Ottocento, distruggevano le macchine che li sostituivano nel loro lavoro.

Non è facile, però, spegnere i propri dispositivi. Ce lo mostrano alcuni film recenti, che mettono in scena famiglie disperate perché costrette a rinunciare all’uso dei Social. Non è facile disconnettersi, visto che le nostre relazioni sono insieme online e offline.Il problema tuttavia non è se dobbiamo disconnetterci del tutto oppure no. La questione non è da porre in questi termini estremi. Ciò infatti che ci mette davanti la possibilità di un blackout o di un crash del sistema è la necessità di vivere il rapporto tra online e offline secondo un giusto equilibrio. Non si tratta di rinunciare a tutto ciò che ci viene offerto dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Si tratta di tenere assieme nel modo corretto le nostre relazioni: online e offline. È un problema di comportamento. È un problema etico.

Si parla da tempo della nostra condizione come di una condizione «onlife». Con questa espressione s’intende il fatto che, ormai, mescoliamo il nostro vivere in situazioni non connesse con il trovarci costantemente inseriti in ambienti digitali. Conosciamo bene l’attrattiva di questi ambienti. Social, videogiochi, piattaforme offrono servizi che ci coinvolgono sempre di più. E così sottraiamo sempre più spazio alle nostre esperienze concrete, a favore di quelle, apparentemente più gestibili, fornite in rete: persino giungendo, in certi casi patologici, a sostituire quelle con queste.

Certo: la commistione fra le due forme di vita è un dato di fatto. Ma fermarsi alla constatazione di esso è troppo poco. Non è detto infatti che questo dato di fatto sia anche un bene. Lo dimostra proprio il disagio, il disorientamento che proviamo quando siamo disconnessi. Che fare, allora?

La questione, dicevo, è di trovare il giusto equilibrio fra online e offline. Bisogna per prima cosa renderci conto del problema: e proprio i blackout e le difficoltà di connessione ci aiutano a farlo. Bisogna poi capire che le relazioni online non sono la stessa cosa di quelle offline, e che comunque ciò che accade negli ambienti digitali ha conseguenze pure sul mondo nel quale viviamo con il nostro corpo. Se insulto una persona su di un Social, al cospetto di altri «amici», gli effetti di quest’azione si estendono alla vita concreta. Bisogna infine affrontare la questione di come mettere in rapporto online e offline. È questo il vero problema, che il fatto di parlare semplicemente di «onlife» finisce per nascondere. E come definire questo rapporto, in quali termini, è in nostro potere stabilirlo. Possiamo identificare il tempo giusto per la nostra vita connessi. Possiamo dire basta quando le relazioni online diventano troppo assorbenti. Possiamo porre dei limiti: e insegnare ai nostri figli che è necessario farlo.

Insomma: vivere disconnessi si può. Non necessariamente «ritornando alla natura»: posto che ciò sia mai stato possibile. Ma agendo con intelligenza. Cioè, anzitutto, non delegando l’esercizio di tale intelligenza a un apparato artificiale.