Cultura & Società

«The Passion», Perché in latino e aramaico?

di Fabrizio Mastrofini Padre William Fulco, gesuita, insegna al Dipartimento di studi classici e archeologia della Loyola Marymount University di Los Angeles. Ha curato la traduzione in latino e aramaico del copione originale inglese del film di Mel Gibson “The Passion of Jesus Christ”.

Perché la scelta di tradurre tutto in latino e aramaico?

“Utilizzare le lingue antiche libera Gesù dal bagaglio di una cultura particolare. Se il film fosse stato in inglese o in tedesco oppure in italiano, lo spettatore avrebbe inconsapevolmente associato i personaggi con la cultura collegata al linguaggio. Ora invece non è possibile tale associazione e lo spettatore è portato direttamente dentro il mondo di Gesù”.

Quali difficoltà ha superato nella traduzione?

“Il latino è stato facile. L’aramaico no, perché conosciamo molto poco di questa lingua. Così sono risalito a Daniele e Ezra nel Vecchio Testamento, poi alla Chiesa siriaca, ed ho avuto qualche aiuto dai Manoscritti del Mar Morto. Ma ho dovuto decidere da solo su aspetti grammaticali specifici e sulla pronuncia. Ho cercato di fare un lavoro plausibile”.

Può fare un esempio concreto delle difficoltà?

“Ad esempio, i discepoli come chiamavano Gesù? I suoi più stretti seguaci lo chiamavano ‘rabbani’ che non è una forma attestata ma sembrava comunque la più esatta. Gli altri che non lo conoscevano lo chiamavano ‘adoni’, (da non confondere con ‘adonai’ che è un titolo divino) e vuol dire semplicemente ‘signore’. Maria lo chiamava ‘bari’ cioè ‘figlio mio’. Ecco, queste sono state le scelte importanti, in grado di creare appunto un’atmosfera”.

Il film può essere un’occasione per comprendere la Passione o per riaprire le polemiche con il mondo ebraico?

“Dagli anni sessanta, in Usa ed Europa, abbiamo cercato di comprenderci, protestanti e cattolici, ebrei e cristiani. Penso che il film ha raggiunto l’obiettivo di descrivere una situazione come realmente avvenuta. Ora siamo pronti per un vero dialogo. Del resto la verità può far male, ma alla lunga è l’unica strada da percorrere”.

Si è sentito più sacerdote o più filologo?

“Direi in tutti e due i modi. Sul set mi sono sentito piuttosto sacerdote, vedendo gli attori e tutto lo staff al lavoro. Adesso, di fronte alle polemiche della stampa, mi sento piuttosto ‘l’esperto'”.

Cosa consiglia al pubblico europeo una volta che il film uscirà qui?

“Di non avere pregiudizi e di giudicare con i propri occhi, ignorando la stampa americana, se si può”.

Ci sarà un nuovo interesse per l’aramaico?

“Già ora ci sono centinaia di articoli su giornali e riviste e senza dubbio è un’opportunità nuova, di nuova vita, per questa lingua”.

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