Cultura & Società

Toscani bizzarri di sempre

DI FRANCO CARDINISi fa presto a dir Toscana. Storicamente e geograficamente parlando. Ma il concetto, la cosa che dovrebbe corrispondere alla parola, non è semplice. V’era l’antica Etruria, che a sua volta corrispondeva solo alla parte centrale – e, certo, più densamente popolata – del territorio insediato dagli etruschi: il quale dalla pianura padana si estendeva fin alla Campania. Ma l’Etruria dei romani non comprendeva l’area tra l’Arno e l’Appennino, quindi l’intera Toscana settentrionale moderna, insediata a lungo da genti liguri e celtiche. D’altronde, essa giungeva sin alle porte di Roma, e litus Tuscum era chiamata la riva destra del Tevere: l’etrusca Veio ha minacciato a lungo l’Urbe, e i tre ultimi fra i sette re di Roma – secondo la tradizione, che maschera così una lunga era di egemonia etrusca – appartenevano all’antico popolo l’idioma del quale ci è oggi meno ignoto grazie alle ricerche di un grande filologo fiorentino d’adozione, Giovanni Semerano.

V’era poi la Tuscia imperiale e altomedievale: anzi, le due Tusciae, la maritima (da cui «Maremma») e l’annonaria. Esse, unificate con l’ampliamento settentrionale dell’area fra Arno e Appennino e decurtate di tutto il Latium vetus ch’era andato a costituire il Patrimonium Beati Petri corrispondente grosso modo a tutta l’area a sud dell’Amiata e dell’Ombrone inquadrata nelle diocesi suburbicarie di Roma e a vario titolo dipendenti dal suo vescovo, furono la base territoriale fra VI e VIII secolo del «ducato» longobardo di Tuscia, che con i franchi andò denominandosi anche «marea» senza tuttavia perdere la qualifica precedente. La pessima e illegittima idea della ducissa-comitissa Matilde, di redigere morendo un testamento nel quale al pontefice romano si assegnavano in eredità non solo i beni allodiali canossiani, ma anche quelli di pertinenza imperiale ricevuti in beneficium, scatenò un contenzioso tra papato romano e impero romano-germanico che si trascinò per secoli e che fu tra l’altro alla base del conferimento a Cosimo I de’ Medici – già vassallo dell’imperatore il quale aveva eretto in due distinti ducati i territori fino ad allora dominati da Firenze e da Siena, al Medici affidandoli in feudo – della nuova e, in tutti i possibili sensi del termine, inaudita corona granducale.

Orgoglioso giglioSpettò più tardi agli Asburgo-Lorena tagliare il nesso feudale che al pari dei re di Napoli, ma sulla base di una differente eziologia storica, li legava alla fedeltà in temporalibus al papa.

Al centro della corona radiata granducale di Toscana, trionfa – ed è rimasto per tre secoli sulla fronte dei granduchi delle due dinastie – un orgoglioso «giglio di Firenze» smaltato in rosso. Un bel lavoro d’oreficeria, senza dubbio: che tuttavia testimonia della difficoltà di rintracciare e di tradurre in linguaggio simbolico adeguato un concetto unitario che davvero potesse valere per tutta la Toscana, al di là del dato storico dell’estensione dell’egemonia fiorentina progressivamente – a partire dal Trecento – sulla Toscana centrale tra Pistoia e Arezzo, quindi già fin dal primo Quattrocento sul territorio della vecchia gloriosa repubblica di Pisa, poi dalla metà Cinquecento su Siena e sull’area senese-maremmana dalla Civitas Virginis da tempo egemonizzata, e solo dopo la Restaurazione anche su Lucca e sul suo territorio, toscano sì ma alquanto sui generis. Guido Cavalcanti, esule alla fine del Duecento in Sarzana, poteva da lì scrivere i suoi versi struggenti d’esule che non sperava di poter mai più rientrare «in Toscana». I Malaspina, grandi e terribili domini loci dell’Appennino nordoccidentale, si son sempre sentiti più liguri e, semmai, emiliani che non toscani; Lucchesia, Lunigiana e Garfagnana han sempre mostrato a Firenze e a quelli insediati a sud dell’Arno il viso dell’arme; e Dante, che pur non esitava a sostenere l’esistenza di un idioma toscano – uno dei sette dialetti a ovest dell’appennino che avrebbe dovuto concorrere alla fondazione di un Italiae vulgare eloquium ancor inesistente, aveva poi difficoltà e mostrava gran reticenza nel rintracciare i concreti caratteri distintivi. Sergio Salvi, sostenitore del principio che «l’Italia non esiste» (e, al di là di equivoci nominalistici, di antichi valori circoscrizionali ed istituzionali e di pateracchi ideologico–politico militari ottocenteschi, io sono perfettamente d’accordo con lui: aveva ragione il grande Metternich a definire, con assoluta esattezza anche se con generosa benevolenza, l’Italia «un’espressione geografica»), ha in realtà dimostrato da par suo, dati etnologici ed etnodialettologici alla mano, che non esiste neppure la Toscana. Esistono semmai «le Toscane»; corrispondenti alle aree municipali e territoriali oggetto delle successive egemonizzazioni – in questa millenaria «terra di città» – di altrettante successive dominanti, e in molte più o meno estese subregioni storiche refrattarie, almeno in gran parte, anche rispetto a quelle egemonizzazioni.

Di nome ma non di fattoCi diciamo quindi toscani, per consuetudine antica corroborata da millenarie vicende istituzionali e da una obiettiva anche se non assoluta e totalizzante comunità geodialettale. Siamo istituzionalmente parlando toscani, in quanto da mezzo millennio quasi tutti inquadrati in una realtà granducale peraltro collegata a quella ducale-meridionale franco-longobarda e trasformata, col regno unitario sabaudo, in circoscrizione regionale. Dopo la seconda guerra mondiale, burocrati e politici consigliati da araldisti e da simbolologhi pessimi ci hanno dotato d’un’incongrua insegna che ormai sembra ci dobbiamo tenere, una specie di asciugamano bianco tipo Corredo Bassetti con due bande verticali rosse e al centro un «Pegasino» (argento su bianco, alla faccia di tutte le regole araldiche e perfino ottiche), ricordo della Resistenza ma in realtà obiettivamente parlando – e mi ricollego sempre al rigoroso linguaggio araldico – vilipendio di essa (un reato, pertanto), in quanto pegasino rivolto verso il lato sinistro dello spazio dell’insegna. Ora, nelle armi araldiche, gli animali – specie quelli rampanti – si fanno volgere verso il lato destro del campo dello scudo (quindi a sinistra di chi guarda), in quanto l’immaginano incedere, baldi e minacciosi, contro il nemico. A noi toscani, burocrati e politici simbologicamente ignoranti hanno imposto un «Pegasino vigliacco», poiché «vigliacchi» appunto si denominano, in linguaggio araldico, gli animali raffigurati con orientamento a sinistra. Che ci fosse qualche malizioso ed erudito neofascista, nascosto tra i grafici che elaboravano il bozzetto? Ad ogni modo, le due referenze identitarie esplicitate dal pur brutto ed infelice gonfalone toscano sono chiare. Da una parte, ci si è voluti rifare alla Repubblica nata dalla Resistenza, con il suo bagaglio di valori legati alla libertà da un lato, all’autonomia – e dunque, in prospettiva, allo sviluppo federale – dall’altro. Fin qui, nulla da eccepire: se non che si tratta di valori politici, etici, istituzionali abbastanza recenti e non specifici e tantomeno caratteristici con tratto identitario costitutivo.

Dall’altra, per i colori, ci si è invece ispirati a una nobilissima tradizione che ha più di un millennio. I colori argento e rosso, e perfino qualcosa nella loro disposizione all’interno della moderna insegna, richiamano a quella, antica, di Ugo di Lorena, il «Gran Barone» lo scudo araldico del quale era tradizionalmente vermiglio alle tre bande verticali d’argento. Da allora anche quasi tutte le armi cittadine toscane inalberano i colori vermiglio e argento («bianco e rosso», come di solito si dice), gli stessi dell’antica Blutfahne, lo stendardo imperiale romano-germanico che recava una croce d’argento su fondo porpora. Anni fa, l’autore di queste righe, insieme con un gruppo d’illustri ed autorevoli amici, tra i quali Ugo Barlozzetti, Mario Scalini, lo stesso Sergio Salvi e altri, ci facemmo promotori d’una bella e dotta iniziativa che presentammo alla Regione Toscana e a tutte le Province e i Comuni ad essa afferenti. Tale iniziativa, che mirava appunto ad avviare quel discorso identitario che alla Regione, alle province ed ai Comuni tanto sta a cuore – come i rispettivi amministratori non cessano di ricordarci –, non fu nemmeno presa in considerazione.

Quali potrebbero quindi essere i caratteri comuni dell’identità toscana, traducibili magari in una «Festa toscana»? Quelli etnodialettologici sono, come abbiamo visto, reali: ma vaghi e incoerenti. Esistono caratteri originali comuni, al di là di essi? Quelli insediativi, senza dubbio: ma la Toscana – antica «terra di città», come s’è detto – è per sua natura policentrica. Vi sarebbero i dati religiosi e culturali: ma anch’essi sono, per loro natura, strettamente legati a valori santorali e patronali, difficilmente estensibili all’intera area regionale. Inoltre il processo di laicizzazione, emarginando i valori cristiani e riducendone o annullandone i relativi caratteri di rappresentatività almeno pubblica, ha finito in Toscana come altrove per espropriare i popoli del loro più autentico e profondo patrimonio identitario comunitario. Non è pertanto un caso se, conclusasi ormai da tempo la stagione postrisorgimentale prima e fascista poi di «nazionalizzazione delle masse», la quale tendeva a marginalizzare ed umiliare tutte le realtà identitarie locali, consentendone al massimo una pittoresca permanenza folkloristica, ci siamo trovati appunto sul piano della coscienza identitaria con un pugno di mosche in mano . Non si può lavorare per lunghi decenni d’ascia e di sega e venir poi a lamentarsi che «le radici sono state tagliate». Dopo il taglio di esse, che cosa resta? Giusto un folklore spesso reinventato e surrettizio, su una base di solito mangereccia e festaiola: non a caso, quando i nostri cercatori massmediali di belle e profonde tradizioni toscane vanno a caccia di passato -che-non-passa e di genuinità, di solito finiscono per planare sugli «antichi sapori»: il vino, l’olio bòno, le infinite varianti locali della zuppa di pane o di cereali o di verdure, le variazioni sul tema dei prodotti del maiale conservato. Come se, in ultima analisi, la tradizione toscana fosse viva e riconoscibile solo quando si confronta con i turisti e con il «mercato», quando finisce sotto i denti e nello stomaco.

È davvero così? Forse: e ciò spiega perché oggi, a quel che sembra, i toscani la domenica portano la famigliola a passeggio per i Centri Commerciali. Niente più santuari, macché monumenti, chissenefrega della natura e del paesaggio: tutti allineati e coperti, ad acquistare e a consumare sognando di acquistare e di consumare ancora di più e invidiando chi ha più mezzi per farlo.

Un popolo di consumatoriNon siamo più un popolo di eroi, di santi, di navigatori e di trasvolatori. Siamo un popolo di consumatori, di videodipendenti, di telefoninoduli. E allora, che coscienza identitaria volete che si sviluppi tra noi?

Restano i valori politici, nel senso più alto del termine: quelli civici. Dobbiamo alla sensibilità e all’energia del Presidente del Consiglio regionale, Riccardo Nencini, l’idea d’una Festa Toscana coincidente con il giorno anniversario della decisione leopoldina di abolire la pena di morte. È una bella idea, che coglie bene una grande verità storica: che cioè le identità non sono qualcosa di «naturalmente» esistente, sono il risultato d’una volontà politica. Esse non servono tanto a comprendere il passato, quanto ad immaginare e indirizzare il futuro. Splendida, allora, questa proposta di far della Toscana – non certo incoerentemente, del resto, rispetto alle sue tradizioni culturali ed artistiche – il faro d’umanesimo e d’umanità per tutte le genti del mondo. È un’idea che certo ha radici molteplici, ma profonde: Dante, Savonarola, Leopoldo I La Pira. Un po’, magari, anche Papini e molti altri. Allora, avanti con l’acquisizione di un’identità ch’è anche un impegno. Fuori la grinta, davanti a tutto il mondo. Diamoci da fare. C’è un’umanità sconvolta da guerre di conquista e di potere, assediata dalla fame che serve a incrementare i profitti delle multinazionali. Sotto, toscani. Siate di nuovo il Quinto Elemento dell’Universo, come diceva Bonifacio VIII dei fiorentini. La tradizione non c’è: s’inventa e si costruisce per farla propria e viverla. Altrimenti, è folklore mistificatorio. Sotto, dunque.

FESTA DELLA TOSCANA, UN VADEMECUM PER I DISABILI

FESTA DELLA TOSCANA 2003 SUI DIRITTI DEI DISABILI