Cultura & Società

Turoldo frate e poeta, un ricordo a più voci

Le tappe della sua vitaUn incontro nel decennale della morteUn appunto ineditoUn’autobiografia dedicata agli amici

DI LORELLA PELLIS

Turoldo è stato un grande testimone che, in fondo, ha fatto come Giacobbe: ha lottato con Dio e Dio lo ha colpito. E se a Giacobbe ha cambiato nome (“ti chiamerai Israele”), a lui ha detto: tu sei mio amico, mio servo fedele, ti sei rimesso a Dio completamente». Le parole del cardinale Silvano Piovanelli riassumono bene, con l’immagine biblica, l’avventura umana del grande religioso e poeta scomparso dieci anni fa e caro anche alla Toscana per i sei anni trascorsi a Firenze, presso la Santissima Annunziata, tra il 1954 e il 1959. Erano, quelli, gli anni di un cattolicesimo fecondo che seppe segnare la vita della città, in particolare attraverso l’esperienza amministrativa di Giorgio La Pira e del suo gruppo, ma non solo.E l’arrivo di padre David, profeta dalle parole forti e spesso scomode a molti, friulano d’origine, aggiunse un’ulteriore tessera d’oro a quel rifulgente mosaico umano. «Era ritenuto come un nuovo Savonarola – continua Piovanelli – non solo per il contenuto dei suoi interventi, ma anche per la forma esteriore, perché quest’uomo grande, enorme, aveva poi anche un modo fascinoso di presentare le cose con quella sua vena poetica». Eppure in quegli anni l’arcivescovo emerito di Firenze non ebbe occasione di incontrarlo: lo conobbe solo «a distanza, perché frequentava un certo gruppo: quello di don Barsotti, di Meucci, di Bartoletti, amici che avevano in comune una certa ricerca». La conoscenza diretta avvenne anni dopo, a Sotto il Monte, quando Turoldo era ormai malato. Anche lo scrittore Rodolfo Doni conobbe Turoldo solo dopo il suo periodo fiorentino. «L’ultima volta che l’ho visto – ricorda – eravamo a Padova. Lui era poeta anche nell’evangelizzare, trascinava chiunque, infallibilmente il suo spirito toccava l’ascoltatore. La sua poeticità l’esprimeva soprattutto nella oratoria sacra e lo aiutavano molto l’aspetto e la voce».Chi invece lo frequentava già a Firenze ricorda di aver avuto l’impressione che fosse «uno dei nostri, uno che aveva sentito questo bisogno di rinnovamento, di un’attenzione maggiore alle persone ultime della terra». Così ce ne parla Raffaello Torricelli, oggi lucidissimo novantaduenne, in quegli anni membro della Giunta La Pira. E continua: «Padre David non si limitava a dire le cose ma le sapeva dire da artista, da poeta, con quelle intuizioni che sono feconde perché rimangono nell’anima: non parlava solamente, viveva quello che diceva. Così a Firenze avemmo da una parte La Pira, che era il pensiero dei tempi nuovi, mentre Turoldo ne era il cantore».

Lo conobbe ancor più da vicino Anna Meucci, vedova di Giampaolo, uno dei personaggi di spicco del laicato cattolico di quegli anni, allora procuratore della Repubblica, poi presidente del Tribunale dei minorenni: «Io e mio marito – ricorda – lo abbiamo frequentato moltissimo, anzi lui all’inizio era un po’ disorientato perché non sapeva come fare ad abbordare i fiorentini che facevano una battuta dietro l’altra, Giampaolo per primo. Poi siamo diventati così amici che finì anche per adeguarsi al linguaggio fiorentino, qualche volta un po’ becero. Era come se ci si fosse conosciuti da sempre: l’amicizia derivava da un comune modo di sentire non solo dal punto di vista religioso ma anche da quello dei problemi del paese, tanto che eravamo sempre d’accordo su come affrontarli e risolverli. Da molti fiorentini era amato, alcuni cattolici lo consideravano pericoloso, ma aveva un bel seguito. La Pira, poi, lo aveva incantato, hanno avuto un’intesa perfetta». In una dedica su un libro scrisse: «All’Anna e a Gianni perché mi fanno amare ancora di più Firenze». «L’ultima volta l’ho visto all’ospedale a Padova – rammenta ancora la signora Anna – era sempre lucidissimo, e volle fare anche allora alcune battute».

Lo ricorda con affetto anche il figlio, Piero Meucci, attualmente giornalista al «Sole 24 Ore», che il 15 maggio del ’76 si sposò con una figlia di Raffaello Torricelli. A celebrare le nozze fu proprio padre Turoldo: «“Fate una casa e non un appartamento”, ci disse in quella circostanza, con una di quelle sue espressioni che potevano sembrare quasi banali ma che invece diventavano dei grandi messaggi». «Era – continua Piero – la personalità più forte, soprattutto dal punto di vista fisico, che frequentava casa mia: aveva una voce tonante, promanava una forza che colpiva, allora, uno giovane come me. Poi l’amicizia è proseguita e anche quando sono stato a Milano, alla fine degli anni ’80, ho potuto frequentarlo. Rimangono indimenticabili i discorsi che faceva alla radio: ricordo quello nel giorno di Cernobyl, i primi di maggio di quando ci fu l’esplosione della centrale nucleare russa, mi ricordo un suo discorso alla radio sul silenzio di Dio che faceva venire i brividi. È stato uno dei più grandi predicatori di tutti i tempi. Quando mi chiamarono per dirmi che era morto fui uno dei primissimi ad arrivare lì dove era stato esposto; invece non riuscii ad entrare il giorno del funerale perché non arrivai puntuale e trovai una folla esagerata».

Una voce forte, provocatoria, ma mai oltre i limiti. «Eretico sarà lei!» replicò risentito a un membro del Sant’Uffizio che per scherzo l’aveva così apostrofato. È Torricelli a ricordare l’episodio, che era stato raccontato da padre Balducci. E a spiegarci: «Anche padre Turoldo come don Lorenzo Milani, con il quale ebbe fraterna amicizia, poteva tuonare la sua invettiva per una Chiesa più eroica di fronte alle necessità dei poveri, tantoché pagava di persona per le sue idee, ma sempre nell’ortodossia più assoluta».

Poi venne la malattia, che lo ricondusse, come ricorda Piovanelli, «in un atteggiamento diverso da quello di prima, certamente più profondo, senza peraltro rinunciare a quelle che erano le istanze profonde di quel tempo là». Un atteggiamento ben descritto da Mario Luzi nel depliant che sarà distribuito il 6 febbraio alla Santissima Annunziata: «Come in Giobbe si rinnova l’aspirazione a un dialogo diretto con il Padre che non risponde, che si cela, che lascia adito al Nulla. In questa tensione dove l’antagonista non è più il mondo e la sua iniquità ma il proprio bruciante desiderio inappagato, il proprio amore frustrato, Turoldo si innalza alla statura dei grandi mistici». È una posizione nuova che si fa strada e che gli fa dire anche, sottolinea Piovanelli, «che quello che è accaduto e che riguarda la sua vita personale è dovuto accadere “perché il raccoglimento mi salvasse”». «Sono sicuro – conclude l’arcivescovo emerito di Firenze – che lui ha vissuto in una maniera molto profonda questo suo essere aggredito dal male e lo ha espresso bene nella sua poesia, quando diceva: “In questo slancio finale non cedere mio cuore alle stanchezze. Questo darmi ancora e lasciarmi divorare dica con quale umile passione, vita, io ti amavo e come ora con la morte vorrei sdebitarmi e pagare lietamente il pedaggio d’entrata”. Una testimonianza bellissima».

1916 – Il 22 novembre a Coderno (Udine) nasce Giuseppe, nono figlio di Giambattista Turoldo e Anna di Lenarda.1934-40 – A 18 anni entra come novizio nel convento dei Servi di Maria a Monte Berico; nel ’35 emette la prima professione religiosa: assume il nome di David Maria.1940-45 – Ordinato sacerdote a Vicenza nel ’40. Nel ’41 si stabilisce a Milano nel convento di San Carlo. 1946-54 – A Milano fonda, con Camillo De Piaz, il centro culturale «Corsia dei Servi», diventa predicatore ufficiale in Duomo. Collabora con don Carlo Gnocchi quindi con don Zeno a Nomadelfia. A causa del suo coinvolgimento in questa esperienza e delle prese di posizione in campo sociopolitico gli viene imposto, alla fine del 1952, di lasciare l’Italia. 1954-59 – Le sue peregrinazioni lo portano anche a Firenze, presso il convento della Santissima Annunziata.1962-89 – Nel ’63 si stabilisce a Sotto il Monte (Bergamo), paese natale di Papa Giovanni XXIII.1989-92 – Già sofferente di dolori addominali, a Padova gli viene diagnosticato un tumore al pancreas. Muore a Milano il 6 febbraio 1992. È sepolto nel cimitero di Fontanella. Per mercoledì 6 febbraio, decennale della morte di padre David Maria Turoldo, il «Fogolâr Furlàn» di Firenze ha organizzato nella basilica della Santissima Annunziata una serata in ricordo del sacerdote. Si comincia alle 18 con una Messa di suffragio, quindi, alle 18,30, introduzione del presidente del «Fogolâr Furlàn» di Firenze, Gabriele Stringa. Alle 18,40 «Pensieri su Padre Turoldo» di fra Luigi De Candido, priore nel convento di Monte Senario, casa madre dell’ordine dei Frati Servi di Maria. Alle 19 la compagnia udinese di prosa «Baraban» presenta la liturgia poetica «Fede e poesia». Preludio e intermezzi musicali sull’organo del 1500 con partiture dell’epoca a cura dell’organista Fabrizio Bartalucci.

Padre Turoldo, lo abbiamo accennato, morì per un tumore al pancreas, male che lo aveva portato all’ospedale di Padova in cura dal professor Ancona. Ed è proprio uscendo una volta dall’ospedale di Padova che padre Turoldo scrisse l’appunto di cui sopra riportiamo l’originale. «Più che un ricordo per chi è malato – scrisse Turoldo sulla carta intestata dell’Unità locale socio sanitaria numero 21 di Padova – un richiamo per chi passa accanto al malato. A me ha fatto sempre impressione questi 10 verbi della parabola del Samaritano». Seguono i verbi della parabola, numerati da 1 a 10: «Ebbe cura di lui. Si mosse a pietà. Scese da cavallo. Si curvò su di lui. Gli versò olio e vino. Gli fasciò le ferite. Lo caricò sul suo giumento. Lo portò nel proprio albergo. Pregò per lui. Tornò indietro per pagare». «Sono i 10 verbi dell’Amore», scrive ancora Turoldo. «Ora capisco perché il Signore dice: “Questo è il compendio di tutta la legge e dei profeti”. Perciò: “facciamo questo e vivremo”». Uno dei doni che penso più abbiano inciso su tutta la mia vita, e confortato in ogni battaglia, è stato il dono dell’amicizia: un dono di cui non mi sarà dato di sdebitarmi facilmente. (…). No, non mi sono mai mancati gli amici; e quando pensavo di sentirmi solo, ecco che mi trovavo a essere una moltitudine: un popoloso deserto». Così padre Turoldo parla di se stesso e del suo rapporto con l’amicizia nel libro fresco di stampa pubblicato da Mondadori in occasione del decennale della morte del frate poeta. Il volume, «La mia vita per gli amici», è una vera e propria autobiografia e raccoglie il testo (privato delle domande, ridotte a titoli) di una lunga intervista, già parzialmente pubblicata anni orsono, con l’italianista di New York Maria Nicolai Paynter, realizzata nel 1989 quando già il poeta friulano era gravemente ammalato. Quel testo, grazie al giornalista Marco Garzonio, viene ora proposto in forma diretta e per intero così come padre David lo aveva dettato e composto.

Fu lo stesso Turoldo, nel consegnare il manoscritto a Garzonio, a sottotitolare il volume «Vocazione e resistenza»: poco tempo dopo sarebbe morto, così che la scelta di questo binomio appare come la sigla riassuntiva della sua esistenza. Vocazione, perché tutta la sua vita fu visitata dal dramma di Dio, e fino all’ultimo, chiedendosi «se ancora mi rifarei frate», conclude che «non poteva capitarmi sorte migliore». Resistenza in quanto, come è stato scritto, egli fu «chiamato a farlo dall’alto». Queste ultime pagine turoldiane permettono al lettore di compiere un triplice viaggio: «nelle vicende politiche e sociali di mezzo secolo italiano a partire dalla resistenza antifascista; nella primaverile stagione del concilio; all’interno dell’anima di uno dei più amati poeti italiani, tra le sue letture, i suoi maestri, i suoi sogni e i suoi amici».

David Maria Turoldo, La mia vita per gli amici. Vocazione e resistenza, Mondadori, pagine 242, euro 15,00.