Dossier

11 settembre, le radici del male

A poco più di un mese dal 20° anniversario dell’incontro di preghiera promosso ad Assisi da Giovanni Paolo II, e alla vigilia del 5° anniversario dell’11 settembre, abbiamo posto alcune domande a mons. GIAMPAOLO CREPALDI, segretario del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace.

Lo spirito di Assisi dice chiaramente che il ruolo delle religioni non è astratto eppure si ha la sensazione che non ci sia stata una loro efficacia nel rivolgersi ai politici, ai governanti, ai detentori del potere economico… È così?

“La grande esperienza di Assisi del 1986 ha una valenza molto precisa e concreta, dal momento che ha riscoperto il ruolo pubblico della religione, non relegata alla semplice sfera privata o confessionale. Inoltre proprio, il rispetto del ruolo pubblico della religione conduce a un’idea sana di laicità dello Stato e delle istituzioni politiche internazionali, e può costituire un punto di riferimento sia per coloro che rivestono cariche pubbliche, sia per coloro che esercitano attività private dal forte impatto sociale. È bene ribadire come la religione, malgrado gli errori che la storia ci mostra, sia fonte di pace e non di conflitto, di unione e non di divisione. Come afferma Benedetto XVI nel messaggio per il recente incontro interreligioso di Assisi (4-5 settembre 2006, ndr): Si potrebbe obiettare che la storia conosce il triste fenomeno delle guerre di religione. Sappiamo però che simili manifestazioni di violenza non possono attribuirsi alla religione in quanto tale, ma ai limiti culturali con cui essa viene vissuta e sviluppata nel tempo”.

Quale deve essere il ruolo della Chiesa cattolica?

“Sembra opportuno menzionare un importante passaggio del Compendio della dottrina sociale della Chiesa, dove si trova che: La Chiesa lotta per la pace con la preghiera… [la quale] apre il cuore non solo ad un profondo rapporto con Dio, ma anche all’incontro con il prossimo all’insegna del rispetto, della fiducia, della comprensione, della stima e dell’amore (519). La religione risponde alle più profonde esigenze della persona umana, coinvolta nella sua dimensione naturale e spirituale e chiamata a un rapporto con Dio e all’amore per il prossimo. Questa è la vocazione della religione, vocazione che, vorrei ribadire, emerge con chiarezza a un’analisi serena e onesta della storia”.

Rimane, dopo 5 anni, la ferita dell’11 settembre insieme a molte altre spesso ignorate o nascoste. Di fronte al male che sembra vincente ci si sente impotenti, forse anche rassegnati al possibile ripetersi di tanta ferocia. Su questi punti chi non crede interroga a fondo chi crede. Come rispondere oggi?

“Come accennato, non è la religione, ma la strumentalizzazione o la politicizzazione della religione a costituire un grande rischio per la pace e la sicurezza della famiglia umana. In tale contesto, il terrorismo internazionale o il fondamentalismo non sono una manifestazione religiosa, ma la degenerazione di persone che tendono a imporre con la violenza la loro verità e visione della realtà. Pertanto, i tragici attentati di New York, come pure quelli di Londra e di Madrid (per citare quelli che hanno scosso maggiormente l’opinione pubblica internazionale) sollecitano, certamente, una riflessione sul ruolo pubblico della religione e sulla relazione fra le diverse religioni. Tuttavia, e più in generale, la famiglia umana dovrebbe interrogarsi sulle vere radici del terrorismo e del fondamentalismo, da ricercare nel cuore umano e nelle strutture della società, che non sembrano essere fondate sulla dignità umana e orientate a quello che il Magistero della Chiesa definisce umanesimo integrale e solidale, cioè allo sviluppo di ciascuna persona e di tutta la persona, cioè in tutti i suoi ambiti, culturali, spirituali e sociali”.

Com’è cambiata la vita dopo l’11 settembre?

“Con l’11 settembre si è aperta una nuova fase della convivenza umana, dove la guerra irrompe nella quotidianità. Con l’11 settembre, infatti, la guerra ha gettato via la maschera di conflitto fra Stati in un campo di battaglia, per svelarsi pienamente come conflitto fra persone e popoli, nella loro quotidianità. La guerra, potenzialmente, è oggi uno spettro nella vita di ogni persona. Il secondo punto che richiede attenzione è il fenomeno per cui nel terrorismo alcune persone si uccidono per uccidere altre persone, manifestando una visione radicale della realtà ma al tempo stesso nichilista della vita umana, e scoprendo il volto di quello che non è uno scontro fra civiltà, ma un attacco alla civiltà, basata sulla dignità e sulla vita umana. Questi due aspetti, l’irruzione della guerra nella quotidianità e il nichilismo del terrorismo, sollecitano un serio esame di coscienza di ogni persona, credente in Dio o non credente. Ognuno di noi è chiamato a costruire la pace nel proprio cuore e ad amare il prossimo nella quotidianità, e in particolare nel contesto della famiglia. È la pace nei cuori e nella quotidianità, infatti che dona una speranza e che motiva a un impegno genuino per la pace nel mondo”.

L’intervistaL’Islam in Europa a cinque anni dagli attentati alle Torri gemelle“Dopo l’11 settembre il livello dello scontro è stato spostato sulla dimensione mediatica: la spettacolarizzazione degli attentati ha dato il via a molte pubblicazioni, dai libri di Oriana Fallaci alla quotidiana presenza su giornali e televisioni di tematiche relative al terrorismo. Il pericolo però è che la rappresentazione della realtà possa prendere il posto della realtà stessa”. Così riflette PAOLO LUIGI BRANCA, docente di lingua araba all’Università Cattolica di Milano, a cinque anni dagli attentati alle Torri Gemelle.

L’11 settembre ha messo in luce con una forza senza precedenti il problema dell’estremismo islamico. A cinque anni di distanza, come viene affrontata oggi questa realtà?

“C’è una concentrazione assoluta su alcune tematiche e polemiche, come il problema dell’estremismo, mentre la realtà è diversa. Tanti musulmani in Italia non vanno in moschea, non si riconoscono in un’associazione, però è come se non esistessero, non viene data loro voce. D’altra parte ci sono alcuni attori polemici, che sono diventati essi stessi l’oggetto del contendere, al punto che, invece del problema, si parla dei personaggi che lo fomentano. Possibile che l’unico argomento di discussione a proposito della consulta islamica, ad esempio, sia la moderazione o meno dell’Ucoii, di cui è solo una componente?”.

Spesso, però, si parla di pericoli imminenti legati all’estremismo.

“Certamente c’è anche il problema del fondamentalismo. È però una questione che va affrontata dagli organi preposti alla sicurezza, magari con maggiore efficacia rispetto a quanto avviene oggi. Tuttavia, lo show mediatico tende a coprire la realtà, invece che farla emergere in tutte le sue sfaccettature, anche positive. Pensiamo ai giovani musulmani che quest’anno, per il giorno della memoria, sono venuti al binario 21 della stazione di Milano, quello da cui partivano i treni per i campi di concentramento, dando una fattiva testimonianza di solidarietà con la comunità ebraica. Il portavoce era addirittura un siriano, cioè proveniente da un Paese considerato il nemico per eccellenza d’Israele. Eppure l’avvenimento è passato pressoché inosservato”.

Ma per il mondo arabo, esclusi fondamentalisti e terroristi, cosa ha rappresentato l’11 settembre?

“Purtroppo l’arabo medio, anche cristiano, condivide un certo livore anti-occidentale e anti-americano, per cui Bin Laden o Saddam Hussein finiscono per essere visti come personaggi che hanno avuto il coraggio di sfidare i nemici. È come quanto è successo nell’Italia degli anni Settanta. A sinistra, non tutti certamente condividevano le Brigate Rosse e la lotta armata, però questi erano considerati compagni che sbagliano, ossia persone che adottavano sistemi discutibili per giungere, però, a fini condivisi”.

Non si tratta dunque di una contrapposizione religiosa?

“No, la religione serve semplicemente come codice attraverso cui si esprimono dissensi e voglia di cambiamento. Ed è così perché gli altri linguaggi sono entrati in crisi, primo fra tutti il nazionalismo. Perfino Saddam Hussein, che rappresentava l’anima laica dell’Iraq, inneggiava ad Allah quando doveva combattere, per avere il sostegno della popolazione. Quando vanno in crisi gli altri sistemi di riferimento, vengono recuperati i più atavici, legati al sangue, alla fede, alla lingua”.

All’interno del mondo islamico, cosa è cambiato in questi cinque anni?

“Soprattutto tra i musulmani che vivono in Occidente è maturata una visione critica: hanno capito di avere una posizione specifica, e che non possono essere solo il clone dei loro fratelli che abitano nei Paesi arabi. In occasione della polemica sulle vignette anti-Maometto, ad esempio, le comunità islamiche italiane hanno sconsigliato ai loro seguaci di partecipare a manifestazioni o proteste, capendo in anticipo che sarebbe stato controproducente. Questo non sarebbe capitato prima dell’11 settembre, allorquando si rispondeva di più agli umori dei Paesi d’origine”.

Si può dire che quella tragedia abbia segnato un’evoluzione dell’Islam?

“Sì, e da questa svolta può derivare un Islam moderato europeo. Un musulmano integrato, e per questo motivo con una vita migliore in Occidente, non rinuncerà a tutto ciò per ragioni ideologiche. Compito nostro è de-ideologizzare il dibattito e creare una situazione in cui adottare certi comportamenti premia. Non è una questione religiosa: pur essendo fedeli all’essenza della propria fede, si può essere dei buoni cittadini, integrati, che collaborano al bene comune”.a cura di Francesco Rossi

L’11 settembre, 5 anni dopo (di Pier Antonio Graziani)

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