Dossier

40 anni fa la «rivoluzione» liturgica

di Riccardo BigiDi tutte le «rivoluzioni» che il Concilio Vaticano II ha portato dentro la Chiesa, è quella di cui si parla meno, eppure è stata la prima e quella che ha portato i cambiamenti più vistosi. Parliamo della riforma liturgica, che fra poco compirà quarant’anni: il 4 dicembre del 1963 infatti veniva promulgata la Sacrosanctum Concilium, la costituzione conciliare che poneva le basi per la nuova liturgia. «La riforma – afferma don Pietro Pratolongo, docente di liturgia allo Studio Teologico Interdiocesano di Camaiore – non ha portato solo cambiamenti esteriori: i cambiamenti più grandi, che forse non sono ancora del tutto assorbiti, riguardano un modo nuovo di concepire la celebrazione e, alla fine, un modo nuovo di concepire la Chiesa».

Quale fu il clima con cui, quarant’anni fa, fu accolta la riforma liturgica?

«L’aspetto prevalente fu senz’altro l’entusiasmo. Era una riforma attesa, aveva dei precedenti portati già da Pio X e da Pio XII che aveva riformato i riti della Settimana Santa. Indubbiamente ci fu anche chi espresse le sue perplessità e i suoi timori. Molti poi si sono trovati impreparati. A quei tempi la formazione liturgica nei seminari era limitata all’aspetto cerimonialistico, i preti erano abituati a sentirsi dire cosa fare piuttosto che a sapere perché. Tanto per avere un’idea, la rubricistica dava indicazioni precise persino sull’altezza a cui tenere le mani durante la consacrazione, c’era un rigore che oggi pare perfino buffo, ma è innegabile che la perdita di queste indicazioni per qualcuno, che era abituato a seguirle, abbia rappresentato un problema».

La riforma però non veniva dal nulla, era frutto di un cammino preparatorio…

«Non c’è dubbio che in alcuni ambienti il terreno era stato abbondantemente preparato: penso al grande cammino che era in corso da anni nel mondo monastico benedettino, o l’apporto di grandi personalità come il cardinale Schuster. Non è un caso che la riforma della liturgia sia stata la prima azione del Concilio: i padri conciliari avevano già, a differenza di altri temi, molto materiale su cui lavorare».

La riforma si inserisce in quel clima di fermento, di rinnovamento che caratterizzò gli anni del Concilio. Si è riusciti a far capire ai fedeli il senso di quello che stava succedendo, o la riforma si è limitata a cambiare alcuni aspetti esteriori?

«Questo è un problema che per certi versi sussiste ancora. La Sacrosanctum concilium chiede, tra le altre cose, che i fedeli non siano più “muti spettatori” e raccomanda una partecipazione consapevole e attiva. Questo era l’obiettivo fondamentale, che forse è stato un po’ eluso: trasformare le nostre assemblee liturgiche da assemblee che assistono a assemblee che partecipano alla celebrazione. I nostri fedeli sanno veramente comprendere i riti, i segni, le parole, il mistero che accade nella liturgia?».

Quali sono stati i cambiamenti più grandi portati dalla riforma?

«L’uso della lingua italiana è quello più evidente, ma ce ne sono tanti altri. In generale, la ritualità si è snellita di tanti elementi che nel corso della storia si erano accumulati. Il Concilio, nella sua scelta di riportare il rito latino alla sua essenzialità, ha tolto un sacco di orpelli che lo appesantivano, a cominciare dalla semplificazione degli abiti, fino a riportare l’altare alla sua funzione di mensa».

Come è cambiato il ruolo del prete?

«La partecipazione dei fedeli come attori presuppone un problema che è quello della regia: chi presiede deve conoscere l’arte della presidenza, ha un ruolo e una responsabilità molto maggiore di prima. È lui che guida l’assemblea dentro il mistero. Qualcuno ha temuto che la riforma portasse un attentato all’autorità del celebrante: invece il suo ruolo è valorizzato. Fare il ministrante, leggere le letture, animare la liturgia con il canto, partecipare a una processione offertoriale sono forme di partecipazione attiva dei fedeli che richiedono una preparazione, e il sacerdote ha il compito di rendere questa partecipazione piena e consapevole».

Dopo quarant’anni, oggi si può fare anche una valutazione più serena anche delle critiche che accompagnarono la riforma liturgica: qualcuno temeva un «tradimento» della tradizione.

«La liturgia ha subito in questo senso lo stesso percorso del Concilio, che ha suscitato entusiasmi veri, ed è stato però seguito da un tempo in cui la secolarizzazione si è fatta sentire. Forse qualcuno sognava una esplosione di fede, e ci siamo trovati di fronte invece a un allontanamento dalla Chiesa, a una partecipazione alla Messa sempre minore. Ma le due cose non sono collegate, l’allontanamento non è certo dovuto alla riforma liturgica, ma ai cambiamenti sociali e culturali».

Verrebbe da chiedersi cosa sarebbe successo senza il Concilio…

«Sicuramente sarebbe stato peggio. E certe forme di ritorno al passato, alla Messa in latino, che anche oggi esistono, nascondono una nostalgia del sacro. È un fenomeno interessante il fatto che l’uomo moderno, razionale, senta il bisogno di avvicinarsi al mistero: è l’indice di una ricerca di spiritualità alla quale però è responsabilità delle parrocchie saper rispondere nella maniera corretta, non distorta. L’uso del latino non è affatto negativo, può essere utile, ad esempio, riscoprire gli antichi inni sacri. Il latino creava una dimensione sacrale, mistica, solenne, ma la Messa in italiano ci avvicina di più al mistero dell’incarnazione, alla presenza del Signore nella vita vissuta. Il Concilio aveva come obiettivo proprio quello di parlare all’uomo di oggi, ritrovando nella tradizione gli aspetti più essenziali, più attuali. Chi ha usato la riforma liturgica per cancellare il passato ha fatto un abuso».

Ci sono state, forse per eccesso di entusiasmo, applicazioni eccessive?

«Sì, forse più all’estero che in Italia: in Olanda, Francia, Germania, a volte si è interpretato la riforma come un abbandono totale di tutto ciò che apparteneva al passato, creando problemi enormi nelle persone che si sono trovate disorientate. La riforma ad esempio non si poneva l’obiettivo di cancellare forme di religiosità o di pietà popolare, ma di vedere come queste forme potessero meglio esprimere il mistero che celebrano».

Tanto è vero che oggi si vanno a recuperare tradizioni o forme di religiosità popolare.

«Con il rischio opposto, quasi pensando che quello che appartiene al passato sia tutto buono. L’importante è evitare gli eccessi, in ogni senso. Da un culto mariano che era fin troppo marcato, si è passati all’esclusione quasi totale del culto alla Vergine ritenendolo un retaggio del passato: queste mancanze di equilibrio hanno fatto dei danni alla riforma liturgica, e non erano richieste dai documenti conciliari».

Nella Messa domenicale, capita spesso di vedere usi e costumi diversi: ogni chiesa, verrebbe da dire, ha la sua Messa…

«Anche qui torna il discorso sulla responsabilità del sacerdote che presiede la liturgia: le stranezze per rendere la Messa meno noiosa sono un errore fondamentale. L’unico modo per rendere la Messa meno noiosa è affermare la centralità del mistero pasquale. A volte c’è un eccesso di parole, troppe spiegazioni, oppure un eccesso di segni, di gesti che appesantiscono il rito e depistano dalla sua centralità. Non serve che le persone tornino a casa pensando di aver assistito a una “bella” celebrazione, se poi il rito non ha rappresentato per loro l’incontro con Cristo. La Messa-spettacolo è quanto di più pericoloso ci sia. Così come, d’altra parte, la semplicità non deve essere sciatteria o trascuratezza: anche l’ambone, da cui si proclama la Parola, non è un semplice leggìo, deve avere una sua solennità. L’altare è una mensa sacrificale, non un tavolo di salotto da riempire di ornamenti, fiori, candele: troppi simboli possono essere fraintesi. È bene invece che la croce abbia la sua evidenza, perché sull’altare si compie un sacrificio vero e proprio e non una semplice ripetizione dell’ultima cena».

La riforma ha cambiato la musica che accompagna la liturgia: anche qui forse serve un equilibrio tra gli eccessi di novità e le nostaglie del passato…

«Non ci sono strumenti musicali diabolici, e non esiste una contrapposizione di principio tra l’organo e la chitarra. Quello che conta è il buon gusto, e anche qui è compito del prete educare chi si occupa dei canti a scegliere non solo in base all’estro musicale ma anche tenendo conto dei testi, che devono avere sempre un fondamento biblico o teologico. A volte si sentono canti poeticamente molto belli, adatti a una serata o a un campeggio ma non per la Messa».

La schedaLa Sacrosantum Concilium, promulgata nel dicembre del 1963, portava molte novità non solo negli aspetti esteriori della celebrazione, ma soprattutto nel modo di concepire la liturgia. Ecco, di seguito, alcuni dei passi più significativi del documento conciliare.

Partecipazione attiva: «la Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori al mistero eucaristico, ma che, comprendendolo bene nei suoi riti e nelle sue preghiere, partecipino all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente».

Educazione liturgica: «Anche i ministranti, i lettori, i commentatori e i membri della schola cantorum svolgono un vero ministero liturgico. (…) Bisogna dunque che tali persone siano educate con cura, ognuna secondo la propria condizione, allo spirito liturgico, e siano formate a svolgere la propria parte secondo le norme stabilite e con ordine».

Sacra Scrittura: «Affinché risulti evidente che nella liturgia rito e parola sono intimamente connessi, nelle sacre celebrazioni si restaurerà una lettura della sacra Scrittura più abbondante, più varia e meglio scelta».

Lingua nazionale: «L’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini. Dato però che, sia nella messa che nell’amministrazione dei sacramenti, sia in altre parti della liturgia, non di rado l’uso della lingua nazionale può riuscire di grande utilità per il popolo, si conceda alla lingua nazionale una parte più ampia, specialmente nelle letture e nelle ammonizioni, in alcune preghiere e canti».

Riti semplificati: «i riti, conservata fedelmente la loro sostanza, siano semplificati; si sopprimano quegli elementi che, col passare dei secoli, furono duplicati o aggiunti senza grande utilità; alcuni elementi invece, che col tempo andarono perduti, siano ristabiliti, secondo la tradizione dei Padri, nella misura che sembrerà opportuna o necessaria».

La domenica: «Secondo la tradizione apostolica, che ha origine dallo stesso giorno della risurrezione di Cristo, la Chiesa celebra il mistero pasquale ogni otto giorni, in quello che si chiama giustamente «giorno del Signore» o «domenica». In questo giorno infatti i fedeli devono riunirsi in assemblea per ascoltare la parola di Dio e partecipare alla eucaristia e così far memoria della passione, della risurrezione e della gloria del Signore Gesù (…). Per questo la domenica è la festa primordiale che deve essere proposta e inculcata alla pietà dei fedeli, in modo che risulti anche giorno di gioia e di riposo dal lavoro».

La musica: «La tradizione musicale della Chiesa costituisce un patrimonio d’inestimabile valore, che eccelle tra le altre espressioni dell’arte, specialmente per il fatto che il canto sacro, unito alle parole, è parte necessaria ed integrante della liturgia solenne (…) La Chiesa poi approva e ammette nel culto divino tutte le forme della vera arte, purché dotate delle qualità necessarie».