Dossier

Giornalismo e pace

di Luigi SpallacciL’11 settembre 2001, alle ore 15,30 mi trovavo a Cortona. New York era lontanissima, nonostante i numerosi turisti statunitensi che si incontravano lungo le suggestive vie dell’antica città etrusca. New York era lontana ma ho potuto assistere, quasi in diretta e mio malgrado, al crollo delle torri gemelle. Ho provato la stessa angoscia e lo stesso sgomento di quanti, in quel momento, si trovavano sul luogo dell’orrendo attentato terroristico e dei milioni di spettatori che seguivano in diretta le scene strazianti dell’evento dai quattro angoli del mondo.

La globalizzazione è anche questo: l’immediata comunicazione di un fatto, che consente allo spettatore di qualunque parte del mondo, di viverlo in tempo reale. Prima ancora che a livello economico, la globalizzazione ha avuto origine sul piano delle comunicazioni. Lo sviluppo tecnologico (radio, tv, satellite, telefoni cellulari, internet) consente agli uomini del nostro tempo di vivere all’interno del «villaggio globale». Come nel villaggio di altri tempi, tutti sanno tutto degli altri.

Nella realtà però le cose sono molto diverse. Nel villaggio geografico la conoscenza è personale e diretta, dunque controllabile. Nel «villaggio globale» c’è la contemporaneità tra notizia e informazione, ma essa non ne garantisce la controllabilità. Vedo in diretta quello che accade, ma sono altri che decidono cosa trasmettere e come informare.

La notizia, ha detto qualcuno, non è mai neutrale, nemmeno quando viene data in diretta, perché è sempre scelta, commentata e gestita da qualcuno. È qui che nascono i problemi della comunicazione sociale, anche in rapporto alla pace. La pace e la guerra non dipendono dall’informazione. Chi decide la pace o la guerra di solito non ha compiti professionali di carattere informativo, ma di governo. Eppure l’informazione non è mai innocente. Poiché ogni potere, anche quello meno democratico, ha bisogno del consenso dell’opinione pubblica per mantenere la sua forza, l’informazione gioca un ruolo determinante; si tratta di decidere da che parte sta chi fa informazione. Dalla parte della verità o della mistificazione.

A un onesto informatore non si chiede di essere un pacifista militante, ma un professionista serio, interiormente libero dall’insidioso condizionamento dei poteri forti, capace di approfondire le cause degli eventi, di documentare con obiettività le ragioni e i torti delle parti in conflitto. Non si tratta di tollerare il sopruso e la violenza, ma di combatterla con armi adeguate, che non sono mai quelle distruttrici della guerra.

La globalizzazione ha reso più piccolo il mondo e più «nervose» le relazioni tra gli Stati, tra i popoli, tra le culture, tra le religioni. Soprattutto ha dato origine a preoccupanti asimmetrie di potere, non adeguatamente riequilibrate dagli organismi internazionali. Di fatto il potere politico e quello economico si concentrano nelle mani di pochi che decidono, da soli, il destino dell’umanità. Il livello della democrazia, anche nei paesi più evoluti, non supera di molto quello della semplice scelta elettorale, anche questa resa problematica dalla diversa capacità di comunicazione. Ci sono solo due rimedi contro l’evidente eccesso di potere concentrato nelle mani di pochi che decidono per tutti: l’autorevolezza dei leaders spirituali che richiamano l’umanità e i capi delle Nazioni alle loro responsabilità e la pressione dell’opinione pubblica a livello internazionale e nazionale.

Quest’ultima, in gran parte, è affidata ai mezzi della comunicazione sociale e non sempre chi li usa ha la piena consapevolezza del suo enorme potere. Questo divario tra potere effettivo e scarsa consapevolezza degli operatori sociali rende l’informazione timida, impacciata, reticente. È più facile che i mass media obbediscano alle ragioni dei potenti che non all’obbiettività e alla verità degli eventi. Ma è qui che si misura la dignità professionale e il senso di responsabilità dei giornalisti e in genere degli opinions leaders. Non si tratta di schierarsi fideisticamente da una sola parte, ma di ricercare costantemente la verità e la giustizia, anche quando tali scelte potrebbero disturbare i potenti di questo mondo.

Fare informazione non significa emplicemente scrivere o trasmettere notizie; vuol dire soprattutto essere «agenti di verità, giustizia, libertà e amore». Non è chiedere troppo a chi ha in mano un grande potere, quello della mobilitazione dell’opinione pubblica. Sul piano democratico, infatti, tale potere è l’unico capace di contrapporsi alle tentazioni dello strapotere politico o quanto meno al potere di decisioni drammatiche lasciate in mano a pochissimi. Solo un’opinione pubblica bene informata può influire con efficacia sulle decisioni solitarie degli alti vertici della politica.

Mai come oggi la cultura italiana, anche a livello accademico, è interessata alle problematiche della pace. Una informazione, anche locale, che fosse attenta a quanto sta accadendo nel Paese potrebbe valorizzare con maggiore attenzione queste iniziative culturali, che spesso rimangono chiuse all’interno degli addetti ai lavori. La scusa più spesso ripetuta è che i lettori vogliono altro e che quindi il giornalista è condizionato da chi compera i giornali. L’obiezione è corretta, ma all’interno di un giornale o di un telegiornale non dovrebbe essere difficile collocare un’informazione essenziale e puntuale anche su quanto in una comunità locale si sta facendo in questo importante ambito formativo. È questione di sensibilità, di attenzione a quanto di positivo si manifesta attorno a noi. Le ragioni della pace stanno a cuore alla gran parte degli uomini di buona volontà, crediamo però che i mezzi della comunicazione sociale non ne avvertano sempre l’urgenza. L’appello del Papa in un momento carico di tensioni internazionali offre l’opportunità, a quanti sentono la responsabilità della loro professione, di meditare sui loro compiti e sulla missione storica di mettersi al servizio del bene comune universale. Un’utopia forse, ma la storia è piena di sfide utopistiche che l’hanno fatta crescere nella via della libertà, della giustizia e della pace.

L’inganno del GolfoL’inganno del Golfo. Dietro le quinte della guerra senza fine» è il titolo del volume di Lorenzo Bianchi e Giovanni Porzio, con prefazione di Ettore Mo, edito da Vallecchi (pp.224, euro 16,00), Lorenzo Bianchi, intervistato in questa pagina, è inviato speciale dei giornali «La Nazione», «Il Resto del Carlino» e «Il Giorno». Esperto di Medio Oriente e Balcani, ha vinto il premio Saint Vincent. Con Giovanni Porzio, inviato di «Panorama», ha seguito la guerra del Golfo nel 1991 e quella recente finendo entrambe le volte prigioniero degli iracheni a Bassora.

Quando l’informazione diventa un’arma

Messaggio del Papa per la Giornata delle comunicazioni sociali 2003