Dossier

Il caso Welby

Il 20 dicembre 2006 è morto a Roma Piergiorgio Welby, malato di distrofia muscolare dal 1963. A staccare la spina del suo respiratore, un anestesista di Cremona. Il caso, sul quale indaga anche la magistratura, ha suscitato molto dibattito nel paese. Welby, copresidente dell’Associazione Luca Coscioni, aveva chiesto infatti che gli fosse riconosciuto il diritto a morire, interrompendo le cure mediche. Il suo dramma personale è diventato così un caso politico. E ha fatto discutere (vedi le lettere giunte in redazione) anche il “no” del Vicariato di Roma a celebrare funerali religiosi. In questa pagina riassiumiamo le vicende di Piergiorgio Welby.

La scheda Malato di distrofia dall’età di 18 anni Piergiorgio Welby era nato a Roma il 26 dicembre 1945. Nel 1963, a 18 anni, gli viene diagnosticata la distrofia muscolare progressiva e pochi anni di vita. Lasciati gli studi, tra il 1969 e il 1971 gira l’Europa, e fa uso di sostanze stupefacenti. Negli anni Ottanta vi è un ulteriore aggravamento della sua malattia. Riesce a disintossicarsi dalla tossicodipendenza, ma di lì a poco perde l’uso delle gambe e non può più camminare. La moglie Mina la incontra durante un viaggio parrocchiale, a Roma. A lei chiede di non intervenire in caso di crisi respiratoria. Il 14 luglio 1997 entra in coma. Si risveglierà, tracheostomizzato, perché Mina non ce l’ha fatta ad accettare di perdere il marito. Da quel momento in poi respira con l’ausilio di un ventilatore polmonare «Eole3XO», si nutre di alimenti semiliquidi e parla con l’ausilio di un computer. Inizia qui la sua battaglia a favore dell’eutanasia. Nel corso del V congresso dell’«Associazione Luca Coscioni», nell’aprile 2006, viene eletto copresidente, insieme a Maria Antonietta Farina Coscioni, Piergiorgio Strata e Gilberto Corbellini. La lettera al presidente Giorgio Napolitano Il 22 settembre 2006 Piergiorgio Welby scrive una lettera-appello al presidente della Repubblica nel quale chiede che «ai cittadini italiani sia data la stessa opportunità che è concessa ai cittadini svizzeri, belgi, olandesi», di accedere all’eutanasia. «Io amo la vita, Presidente», scrive Welby. «Io non sono né un malinconico né un maniaco depresso… morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita… è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche… Quando un malato terminale decide di rinunciare agli affetti ai ricordi, alle amicizie, alla vita e chiede di mettere fine ad una sopravvivenza crudelmente biologica io credo che questa sua volontà debba essere rispettata ed accolta con quella pietas che rappresenta la forza e la coerenza del pensiero laico». La risposta di Napolitano arriva subito. Il Presidente si dice «toccato e colpito» e auspica un «confronto» nelle sedi «più idonee» perché «il solo atteggiamento ingiustificabile sarebbe il silenzio, la sospensione o l’elusione di ogni responsabile chiarimento». Gli esperti dicono no alla sua richiesta La pressione dei radicali perché le autorità sanitarie interrompano le terapie si fa sempre più forte. Il ministro Livia Turco insedia il 4 dicembre una «Commissione per la dignità del fine vita», che avrà un anno di tempo per elaborare pareri e proposte. Del caso specifico viene però investito il Consiglio superiore della sanità che il 20 dicembre risponde con un «no» alla richiesta di Welby: le cure che lo tengono in vita non sono da configurarsi come accanimento terapeutico. Anche il Tribunale di Roma rigetta il ricorso dei legali di Welby affermando che «è necessaria una iniziativa politica e legislativa per colmare il vuoto normativo in materià». Il 20 dicembre un medico stacca il respiratore Piergiorgio Welby muore il 20 dicembre, poco prima della mezzanotte. Un medico-anestesista dell’ospedale di Cremona, Mario Riccio, dopo averlo sedato, stacca la spina del respiratore artificiale. L’annuncio della morte viene dato l’indomani mattina ai microfoni di Radio Radicale da Marco Pannella. La magistratura apre un’inchiesta. Il «No» del Vicariato ai funerali religiosi La sera di venerdì 22 dicembre l’ufficio stampa e comunicazioni sociali del Vicariato di Roma rende noto un breve comunicato nel quale si spiegano le ragioni del «no» a funerali religiosi. Ecco il testo integrale: «In merito alla richiesta di esequie ecclesiastiche per il defunto dott. Piergiorgio Welby, il Vicariato di Roma precisa di non aver potuto concedere tali esequie perché, a differenza dai casi di suicidio nei quali si presume la mancanza delle condizioni di piena avvertenza e deliberato consenso, era nota, in quanto ripetutamente e pubblicamente affermata, la volontà del dott. Welby di porre fine alla propria vita, ciò che contrasta con la dottrina cattolica (vedi il «Catechismo della Chiesa Cattolica», nn. 2276-2283; 2324-2325). Non vengono meno però la preghiera della Chiesa per l’eterna salvezza del defunto e la partecipazione al dolore dei congiunti». Funerali civili davanti alla chiesa I funerali «laici» si tengono a Roma domenica 24 dicembre, proprio davanti alla chiesa di San Giovanni Bosco, la parrocchia di Welby (nella foto un momento della cerimonia, dal sito flickr.com). In piazza un migliaio di persone e sul palco, oltre ai familiari (la moglie Mina, la mamma 86enne, la sorella Carla, il cugino Francesco, la nipote Carolina) i leader radicali, da Marco Cappato, Presidente dell’associazione «Luca Coscioni» a Marco Pannella, da Rita Bernardini al ministro Emma Bonino, che ringrazia tutti i politici intervenuti (tra loro Franco Grillini, Cesare Salvi, Paolo Cento, Gavino Angius). Ma a parte i leader radicali, solo a Ignazio Marino, presidente della commissione sanità del Senato, viene concesso di parlare. A salutare il feretro anche due suore della parrocchia.

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