Dossier

Il triste bilancio del «dopo-guerra»

PER IL TERZO ANNIVERSARIO DEL GIORNO IN CUI LA PACE VENNE MESSA AL BANDO / Parte I Peace/Justice, Standard di Pietro Mariano BenniA Tall Afar, nel nord dell’Iraq, al confine con la Siria, 45 morti e 80 feriti dopo 13 ore di bombardamenti americani; a Fallujah, uno dei poli del cosiddetto ‘triangolo sunnita’, almeno 12 morti, inclusi 5 bambini e due donne dopo una ripetuta serie di passaggi di aerei americani: è il bilancio ufficiale dei raid statunitensi di ieri, 9 settembre 2004. Mentre è noto che martedì scorso il conto ufficiale dei caduti statunitensi in Iraq ha superato i 1000 – 800 dei quali tra i 18 e i 24 anni – non esistono dati precisi di alcuna fonte per il totale delle vittime civili irachene da quando gli Stati Uniti e l’Inghilterra – e una cosiddetta coalizione di altri Paesi – nel marzo 2003 avviarono la “guerra preventiva”, ufficialmente motivata dalla presunta presenza di ‘armi di distruzione di massa’ in territorio iracheno.

Un’organizzazione che si fa chiamare ‘Iraq body count’, e che ha una pagina in internet piena di nuvole grigie e pioggia di bombe, calcola che i civili iracheni uccisi siano un minimo di circa 12.000 e un massimo di quasi 14.000. Ma un grande registro della clinica di Baghdad ‘Sheik Omar’ ne elenca da solo 10,363, tutti provenienti dalla capitale e dai centri vicini. L’Iraq, oltre a quella di Baghdad, si compone di altre 17 province. Hazem al-Radini, che rappresenta un’organizzazione irachena per i diritti umani, sostiene che in base alle notizie diffuse dai mezzi d’informazione, il totale delle vittime irachene deve essere ormai superiore a 30.000. Una cifra sinistramente identica a quella delle prime stime successive al crollo delle Torri Gemelle del World Trade Center a New York nel tragico settembre di tre anni fa.

Ma che senso ha oggi in Iraq qualsiasi totale di vittime, sospettabile in ogni caso sia di voluti ridimensionamenti, su un fronte come sull’altro, sia di ‘gonfiamenti’ per pura propaganda contro o a favore dell’una e dell’altra parte. Che senso possono avere questi macabri tentativi di statistiche in un Paese in cui in un solo giorno, un giorno qualunque come ieri, possono morire decine di persone per una guerra che al 1° maggio dell’anno scorso era dichiarata ufficialmente conclusa? Chi non ricorda il ‘mission accomplished’, missione compiuta, pronunciato da un raggiante George W.Bush – vestito da aviatore, lui che non era stato in Vietnam perché dichiarato inabile al volo – sul ponte di una nave al largo della California, pavesata con un grande striscione che ripeteva la stessa altisonante affermazione?

Siamo alla vigilia del terzo anniversario del famoso 11 settembre 2001, la data in cui incominciò lo stravolgimento del mondo che conoscevamo. Uno stravolgimento che sembra ora accentuarsi in modo cronico, con una violenza cieca e inarrestabile a cui appaiono sempre più insensibili e avvezzi troppi tra coloro che avrebbero il dovere di porla invece sotto controllo. Spaventano, terrorizzano non solo e non tanto i comportamenti di chi ha dichiaratamente scelto come arma il terrorismo fondamentalista e la morte casuale e gratuita di chicchessia ma anche e soprattutto la cecità di chi non sembra rendersi conto che – come ha ricordato nei giorni scorsi il cardinale Renato Raffaele Martino, presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace – “non basta uccidere un terrorista; se ne possono uccidere cento, mille, ma non si viene a capo del fenomeno se non si ricercano anche le radici, le cause, il malessere che fanno da sfondo”.

Torniamo alla cronaca dal fronte della “quarta guerra mondiale”, come per primo ha definito l’attuale stato del mondo, nel suo ultimo libro, l’intellettuale neo-conservatore americano Norman Podhoretz. Torniamo a una ‘superficiale’ rassegna della sola giornata di ieri.

In Afghanistan, obiettivo originario della “guerra al terrorismo” rapidamente liquidato da Washington, in piena Kabul sono caduti ieri quattro o cinque missili che miracolosamente hanno ferito ‘soltanto’ una donna e un bambino, quando mancherebbe appena un mese alla prima consultazione elettorale.

Nei Territori Palestinesi – Gaza e Cisgiordania che sono in pratica ‘enclaves’ di Israele – sono continuati i raid israeliani e poi, per extra-misura di sicurezza dovuta alla grande festività ebraica di Yom Kippur, sono stati chiusi fino a fine mese tutti i punti di ingresso e di uscita pur indispensabili per la vita dei palestinesi.

A Giakarta una decina di indonesiani sono morti in un attentato contro l’ambasciata australiana ( che fa parte della ‘coalizione’ in Iraq).

In Pakistan, vicino al villaggio di Dila Khula, verso il confine con l’Afghanistan, l’aviazione dice di aver ucciso almeno 50 guerriglieri ceceni, uzbechi e arabi in un campo di addestramento di ‘al-Qaida’.

Con un filmato trasmesso da ‘Al- Jazira’, il medico egiziano Ayman al-Zawahri, ‘accreditato’ della qualifica di primo luogotenente di Usama ben Laden, ha detto a tutto il mondo che la sconfitta degli americani in Iraq e Afghanistan “con l’aiuto di Allah, è solo questione di tempo” perché se continuano moriranno dissanguati e se si ritirano perdono tutto.

Dagli Stati Uniti contemporaneamente si apprendeva che nel carcere iracheno di Abu Ghreib, quello famoso per le torture inflitte ai prigionieri da militari americani, i detenuti – molti dei quali “fantasma” perché mai ufficialmente registrati – erano soltanto comuni civili non combattenti. In Iraq – dove in queste ore molte organizzazioni non governative internazionali spaventate stanno andando via – ma “Medici senza Frontiere” e quelle italiane intendono restare, come ha ribadito più volte nelle ultime 48 ore il coordinatore nazionale Sergio Marelli – rimane intanto non rivendicato né minimamente spiegato o comprensibile il sequestro delle volontarie italiane Simona Pari e Simona Torretta dell’organizzazione umanitaria “Un ponte per…” , attiva a Baghdad dal 1991, e di altri due operatori umanitari iracheni.

Nella luce di fiaccolate come quella di ieri sera a Rimini, città della Pari, e stasera a Roma, dove in zona di Cinecittà vive la famiglia della Torretta, il mondo intero si sta mobilitando in ogni modo per la loro liberazione, dai bambini iracheni in Piazza del Paradiso a Baghdad ai capi della Lega Araba a molti grandi politici di prestigio internazionale come Kofi Annan e Romano Prodi .

“Il cuore del mondo è con le volontarie rapite” titola oggi a tutta pagina “L’Osservatore Romano”, quotidiano della Santa Sede. Senza fiaccole né esibizioni, al riparo anzi da qualsiasi luce o voce indiscreta, allo stesso scopo stanno di sicuro alacremente lavorando uomini dei servizi segreti e ‘mediatori’ più o meno anonimi. Per lo meno uguale impegno di uomini e mezzi è dispiegato per i due giornalisti francesi che ugualmente restano sequestrati in Iraq. “Intanto è da rilevare – scrive “L’Osservatore Romano” – un altro atto macabro: un sito internet del gruppo denominato “Esercito islamico” ha pubblicato, ieri, un’immagine del volto del giornalista italiano Enzo Baldoni, dopo la sua uccisione”. Quest’ultima vergognosa iniziativa contribuisce per certi versi a ricordare e sottolineare il mistero già da molti accantonato delle circostanze e delle motivazioni dell’uccisione di Baldoni che, forse anche perché avventuroso “free-lance” del tutto autonomo e indipendente, non poté godere della mobilitazione popolare e della Società Civile che oggi fortunatamente riguarda “le due Simone.

In un messaggio diffuso in occasione del XVIII Incontro Internazionale della Comunità di Sant’Egidio «Uomini e Religioni» svoltosi dal 5 al 7 settembre a Milano sul tema “Il coraggio di un nuovo umanesimo”, Papa Giovanni Paolo II si chiedeva: “Il mondo sta forse abbandonando la speranza di raggiungere la pace?” e aggiungeva: “ Si ha a volte l’impressione di una progressiva assuefazione all’uso della violenza e allo spargimento di sangue innocente…C’è bisogno del coraggio di globalizzare la solidarietà e la pace… La guerra è da considerarsi sempre una sconfitta: una sconfitta della ragione e dell’umanità…Il mondo ha bisogno di pace.” Più che mai, più che mai, visto il modo in cui sta vivendo la vigilia del terzo anniversario del cosiddetto 9/11. Quel “911” che il regista americano Michael Moore, ricordando un celebre film del francese Francois Truffaut, ha associato nel titolo alle temperature espresse in gradi Farenheit. A 411 gradi Farenheit (211 centigradi Celsius), ricordava il film francese, bruciano i libri, si distruggono libertà e sapere umano; e sembrava già terrorizzante. Che cosa può mai salvarsi se il mondo raggiunge e mantiene una febbre di 911 Farenheit?

Angoscia per le due operatrici rapite in Iraq

Misna