Dossier

La confessione

In occasione della Quaresima, Toscana Oggi propone un percorso sul sacramento della confessione.1. Da peccatori a creature nuovedi Benito MarconciniPenitenziere della Cattedrale di Santa Maria del Fiore – Firenze

La quaresima orienta e fa pregustare la Pasqua attraverso la conoscenza della Parola, specialmente dei testi evangelici domenicali. Questi preparano i fedeli al grido: «Cristo mia speranza è Risorto». È l’esplosione gioiosa della fede anticipata dal testo paolino della prima domenica. «Se con la tua bocca proclamerai “Gesù è il Signore”, e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo» (Rm 10,9). Il cammino quaresimale presenta sette aspetti del volto di Cristo, abbinati e complementari.

Tentato e trasfigurato. Gesù provato dal diavolo («colui che divide») supera l’illusione dell’immediato, la preoccupazione del solo pane, evita la delusione dei beni materiali, rinuncia a gesti spettacolari, finalizzati a suscitare ammirazione e stupore. Le tentazioni non si limitano a tre come descrive Matteo, ma sono per Luca «ogni specie di tentazione»: si ripresenteranno «al momento fissato», quello della passione. Vittorioso nella prova Gesù si presenta nella seconda domenica trasfigurato. In preghiera e, in dialogo con Mosè il legislatore e con Elia il profeta, lascia trasparire nello splendore del volto, nel candore delle vesti e nella reazione stupita e gioiosa di Pietro, la sua divinità attestata dal Padre: «questi è il Figlio mio, l’eletto, ascoltatelo» (Lc 9,35). Egli merita fiducia e attenzione, perché come Maestro trasmette la volontà di Dio.

Preoccupato e gioioso. Due drammatici episodi trovano in Gesù giusta interpretazione e una correzione della mentalità comune. Un’improvvisa azione repressiva di Pilato, nella quale furono uccisi dei galilei e il crollo improvviso della torre di Siloe che schiacciò diciotto persone, offrono a Gesù  l’occasione di correggere un giudizio comune sbagliato. Morire in una tragedia non è segno – afferma Gesù – di essere più peccatori dei sopravissuti, ma per tutti è invito a un esame di coscienza, a intensificare la ricerca di Dio, a impegnarsi nella conversione. È questo l’atteggiamento gradito a Dio come splendidamente narra la parabola del figliol prodigo, il quale sperperando le ricchezze di famiglia, sciupa la sua vita: alla fine tuttavia si pente, ha fiducia nel perdono del padre che lo abbraccia teneramente.

Nella quinta domenica Gesù si rivela misericordioso  nell’episodio della donna sorpresa in flagrante adulterio (Gv 8,1-11). Scribi e farisei sono sicuri di mettere in difficoltà il Maestro. Se infatti si dichiara favorevole a lasciare libera la donna, lo accusano di non rispettare la Legge; se la giudica come tutti fanno, non salva la peccatrice: o viola la Legge o perde la donna. Il perdono concesso a chi è pentito del male impegnandosi a fare il bene, rappresenta la novità apportata da Gesù. Crocifisso infine portando il peccato di tutti e risorto per la potenza del Padre, Gesù dà un senso al dolore e apre alla speranza di una nuova vita. Nel suo volto variegato l’uomo scopre la possibilità di essere perdonato per i peccati. Il passo biblico più significativo per la remissione delle colpe si trova nel contesto delle apparizioni pasquali ai discepoli. «Gesù disse loro di nuovo: «pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi». Detto questo soffiò e disse loro: «ricevete lo Spirito Santo. A coloro ai quali perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro ai quali non perdonerete, non saranno perdonati» (Gv 20,23). Il verbo al passivo sottintende il nome di Dio: il Signore perdona. La formulazione «perdonare – non perdonare», similmente al «legare – sciogliere» di Matteo (18,18) esprime la totalità della remissione del peccato, mentre l’uso del perfetto ne implica la definitività. Il testo è trinitario: il potere ricevuto dal Padre, è trasmesso dal Figlio alla Chiesa. Lo Spirito Santo che unisce due versetti (21.23) tiene viva la missione salvifica di Gesù affidata ai discepoli e causa il perdono dei peccati. Il contesto immediato parla di gioia e tre volte ricorre alla parola «pace», frutto ancora dell’effusione dello Spirito che comporta «amore, gioia, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5,22).

La Parola  raggiunge la massima efficacia nei Sacramenti quali «atti di Cristo», dei quali il quarto costituisce il vertice della vita penitenziale, come emerge anche dai nomi che lo connotano. Confessione invita a prendere coscienza del peccato; conversione esige rinnovamento nel pensiero e discernimento della volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto (cfr Rm 12,2); penitenza esprime il dolore per il peccato commesso, unito al desiderio di ripararvi; riconciliazione intende una pacificazione fino a raggiungere la comunione con Dio e con gli uomini; perdono, di iniziativa divina, è accolto dall’uomo desideroso di recuperare l’unione con Dio.

Questo sacramento rende  il peccatore «creatura nuova» (2Cor 5,17). Per raggiungere l’obiettivo è essenziale che il penitente  riconosca il proprio peccato e prenda una ferma decisione di evitarlo in futuro. I cinque atti tradizionali per fare una buona confessione (nel Duomo di Firenze sono disponibili dépliants  e sono esposti quadri con  nomi e tempi dei confessori per ogni giorno) sono come l’elemento primo «materiale», che associato all’elemento «formale» dell’assoluzione del sacerdote costituiscono il sacramento. «La Parola si avvicina all’elemento materiale e diventa sacramento» (S. Agostino).

Un sacramento in cinque attiLa Cattedrale di Santa Maria del Fiore offre, in occasione della Quaresima, un foglietto in cui sono suggeriti alcuni passi da fare per accostarsi alla confessione. Ecco come vengono sintetizzati i cinque atti necessari per una buona confessione:Un diligente esame di coscienza, fatto alla presenza di DioIl dolore per i propri peccati, che hanno offeso DioUn proposito fermo di lottare contro il peccatoUn’accusa breve, chiara, completa, sinceraLa penitenza, cioé quanto il sacerdote indicherà di fare e che serve per riparare il danno causato dal peccato

2. I primi cristiani si confessavano così

di Carlo Nardi

Se c’è speranza anche per Simon MagoQuella di Simone Mago, già battezzato, fu una «proposta indecente»: allungare agli apostoli una bustarella perché gli dessero il potere di far miracoli. San Pietro la freddò sul nascere: senza mezzi termini fece capire che non stava né in cielo né in terra e che «belle» cose avrebbe prodotto. Così negli Atti degli apostoli (cap. 8).

Giovanni Crisostomo ad Antiochia tra il 386 e il 398 spiega gli Atti ai battezzati di fresco per premunirli dalla disperazione nel caso che, dopo tanto catechismo e soprattutto dopo un serio impegno di vita cristiana, fossero piombati, col peccato, nella infedeltà alla grazia battesimale appena ricevuta. Al Crisostomo piacciono soprattutto le parole che san Pietro dice a Simone dopo la sua incoerenza col dono di grazia ricevuto, incoraggiandolo a guarire l’enormità della trasgressione mediante un cambiamento di mentalità: «cambia mentalità: c’è il caso che ti sia perdonata quell’intenzione», quel pensieraccio «del tuo cuore». Dagli Atti e dall’accorato commento di Giovanni appare la consapevolezza che la Chiesa ha lentamente assunto della «remissibilità» dei peccati commessi dopo il battesimo. Insomma, una seconda penitenza e un secondo perdono dopo il battesimo. Un testo, quello che riguarda Simone con le parole finali di Pietro negli Atti (c. 8), rivissuto da Giovanni Crisostomo, fa pensare al sacramento della penitenza. Parole adatte per la quaresima. E non solo.

Da una confidenza di Giovanni CrisostomoRammentando l’episodio, Giovanni Crisostomo sembra fare una confidenza: da un lato scongiura con tutto il cuore i suoi nuovi fratelli e figli spirituali alla fedeltà al loro battesimo appena ricevuto per pasqua, ma proprio per infondere fiducia fa capire d’aver avuto anche lui bisogno di un’altra penitenza dopo il battesimo ricevuto a diciott’anni. C’è del rammarico, ma soprattutto è invito alla conversione per tutti, anche per i già battezzati da tempo, perché per tutti c’è speranza e possibilità di salvezza.

Da diacono, tra il 381 e il 306 ne Il sacerdozio il Crisostomo attesta che il sacerdote, principalmente il vescovo, è ministro del perdono di Dio, della remissione dei peccati, della riconciliazione dei peccatori.

Ma siamo alla fine del quarto secolo: come si era giunti a quella consapevolezza? Quella del dono di grazia della potestà della Chiesa di rimettere i peccati commessi da un battezzato seriamente pentito, disposto ad espiarli dopo averli confessati a un sacerdote, vescovo o prete incaricato, che possa valutare a modo e conferire la medicina appropriata, e assolvere, rimettere i peccati, riammettere nella pace della chiesa e alla comunione delle cose sante, ossia alla comunione, secondo la terminologia degli antichi scritti.

Oscillazioni nel Nuovo TestamentoNel Nuovo Testamento ci sono passi che parrebbero escludere una ulteriore penitenza e perdono dopo il battesimo (Eb 6,3-8; 1Gv 5,16-17). Si capisce: il battesimo, l’unico battesimo, era considerato, e giustamente, unico, definitivo. Se ne deduceva che tornare a peccare è fare come il «cane che va a leccare il suo vomitaticcio» (2Pt 2,22).

Ma la vita, i gesti, le parole e soprattutto la croce e la risurrezione del Signore sembrano suggerire altre deduzioni. Le parole costitutive sullo «sciogliere» e il «legare» dette a Pietro (Mt 16) e almeno agli apostoli in genere (Mt 18), nonché sul dono dello Spirito Santo da parte di Gesù risorto per la remissione dei peccati (Gv 20) aprono ad una speranza garantita da un gesto sacramentale: la frase sembra comporta che gli apostoli, ministri del perdono, debbano compiere una valutazione su quanto il peccatore penitente dice: saranno i testi, specialamente l’ultimo che già nella chiesa antica e poi al Concilio di Trento, in cui si ravvisa l’istituzione del sacramento. Così già in Tertulliano e Origene tra secondo e terzo secolo, e nel Crisostomo.

C’è anche l’esortazione di s. Giacomo a confessare gli uni agli altri i propri peccati, fraternamente per una reciproca intercessione ed edificazione (Gc 5,16), uso ripreso successivamente talora anche come confessione fatta a laici.

Testimonianze patristiche: la penitenza pubblica Nella Didachè tra primo e secondo secolo è attestata una qualche confessione dei peccati non meglio identificabile previa all’eucaristia domenicale. Nel secondo secolo Erma confessa un suo desiderio impuro e la trascuratezza dell’educazione dei suoi figli, peccati di pensiero e di omissione. Potrà essere perdonato? Sì, in una specie di giubileo, di cui è fatto banditore da un misterioso Pastore in cui è forse da ravvisare Cristo. In quella circostanza esclusivamente?

Fatto sta che per Clemente di Alessandria (+215 circa) c’è possibilità di salvezza anche per un battezzato che si sia dato al brigantaggio. L’evangelista Giovanni aveva riammesso nella Chiesa un giovane in lacrime per quella sua vita sbagliata, anzi delittuosa.

Fine secondo e terzo secolo: s’intravede la prassi penitenziale delle chiese sul Mediterraneo. Doveva succedere grosso modo così, da quanto si può ricavare dalla testimonianze. Un battezzato si accorgeva da sé o per correzione paterna o fraterna d’aver peccato. Pentito – ecco la «penitenza» come contrizione – doveva andare dal vescovo o da un prete incaricato e dirlo: era la confessione. Se si trattava di peccati allora detti «mortali», specialmente di dominio pubblico nella comunità (rinnegamento della fede, omicidio, adulterio, fornicazione …), il vescovo imponeva tempi e modi di riparazione, cura, espiazione – la soddisfazione -, finché in occasione della pasqua assolveva, riconciliava e ammetteva alla comunione eucaristica e alla pace della chiesa. È la forma classica, più vistosa e nota di penitenza, quella pubblica (Tertulliano ne La penitenza, Cipriano, Origene e poi in genere nel quarto secolo), che poteva avvenire una sola volta nella vita: una sola seconda penitenza, che cominciava con una confessione.

Il diffondersi della confessione auricolare Era l’unica forma? No. Cipriano, vescovo di Cartagine ai tempi della persecuzione di Decio, contempla il caso di un cristiano che avesse deciso in cuor suo di sacrificare agli dèi, nell’eventualità che fosse minacciato di morte: si trattava di peccato interno di apostasia, in sé grave, noi diremmo mortale. Ebbene Cipriano non impone la penitenza pubblica: dice di confessare il peccato a un prete per accedere alla comunione. È una testimonianza, e non è la sola, di confessione auricolare, si può dire della comune prassi attuale.

Ora, di fronte al rifiuto rigorista di qualsiasi remissione dei peccati allora detti «mortali» (montanisti, Tertulliano ne La pudicizia, Ippolito, Novaziano, donatisti), di fronte alla macchinosa ed estrinseca penitenza pubblica non reiterabile, lentamente ma in modo significato la Chiesa della tarda antichità dà segni di orientarsi verso un allargamento della penitenza «privata» con la confessione auricolare ripetibile (papa Siricio, Giovanni Crisostomo), con l’assolutezza del segreto, il cosiddetto sigillo sacramentale (Ambrogio, papa Leone I). L’assoluzione diventa immediata in caso di pericolo di vita (papa Innocenzo I), assoluzione che di solito comincia a precedere le opere di penitenza (monachesimo celtico), impartita da parte di un ministro che è per lo più è il sacerdote di second’ordine, il prete. E la confessione viene raccomandata per peccati veniali e in caso di pericolo di vita anche a un laico (alto medioevo).

Liberazione e gioiaLa situazione, come si vede, è piuttosto variegata. Tuttavia si ravvisano delle costanti: il pentimento, contrizione e rifiuto del peccato; l’opera penitenziale come espiazione e medicina; ma anche la confessione. S’intravede il ministro: il vescovo e, in virtù del sacerdozio, da esercitare per mandato del vescovo, il prete; in un ambito di sacramentalità diffusa, per esempio nella confessione a laici, con le problematiche teologiche che apre.

Che ci può dire la Chiesa antica? che la sacramentalità diffusa non può essere intesa come genericamente emozionale, ma che occorre la fedeltà alla concretezza qui ed ora della salvezza del Dio fatto uomo, il che vuol dire anche quelle parole dette al prete, momento chiave sacramentale in senso stretto di azione di Cristo mediante il suo ministro, ma per un’ampia sacramentalità penitenziale nella vita liturgica e spirituale.

A questo proposito, per riprendere un’immagine urtante sopra citata, mi è caro citare Origene: «La Sacra Scrittura insegna che non bisogna nascondere il peccato in noi stessi. Quelli che hanno una indigestione trovano sollievo e guariscono col vomito. Così coloro che nascondono un peccato segreto in fondo alla loro coscienza, si sentono oppressi, come soffocati. Se invece uno diventa accusatore di se stesso e confessa, insieme vomita quella colpa e risolve ogni causa di malessere».

Dio si contenta di quel nostro vomitaticcio. Che, anzi, è una specie di materia del sacramento, come insegna il Concilio di Trento. E confessione di peccati è insieme confessione di fede e di lode (Agostino). Sicché Dio ne gioisce. «C’è più gioia in cielo…»

3. Diario di un confessore

di Graziella Teta

L’uomo teneva il volto basso, attraverso la grata non se ne intuivano i lineamenti. Con un soffio di voce, in inglese, disse che erano molti anni che non si avvicinava ad un confessionale, ma che ormai sentiva di doverlo fare per sopravvivere al rimorso e al dolore. Non aveva mai avuto il coraggio di confidare, nemmeno a sua moglie, che in territorio di guerra, tempo addietro, come militare dovette partecipare ad una fucilazione. Dopo la confessione, si dileguò ancora triste ma con il cuore meno pesante. Padre Piotr non ha più dimenticato quell’uomo, e tanti altri pellegrini provenienti da tutto il mondo che, nel suo confessionale nella basilica di S. Pietro, hanno lasciato i loro pesi e dolori: «Ne uscivo esausto, ma con la speranza di aver alleggerito almeno qualcuno dei loro fardelli».

Piotr Anzulewicz, frate minore conventuale, da un anno vicario della parrocchia di San Francesco d’Assisi a Pisa, già docente di spiritualità della Pontificia facoltà  teologica di S. Bonaventura in Roma, già redattore della rivista francescana Miscellanea Francescana, capo redattore della rivista Doctor Seraphicus, per 15 anni è stato penitenziere vaticano: «Un’esperienza intensa, difficile, coinvolgente, di servizio totale, che mi ha permesso di sondare più profondamente l’animo umano, di capirne i lati oscuri e quelli luminosi. Certi incontri, apparentemente minimi, sono stati testimonianza di come, per esempio, piccole suorine nascondessero in sé tesori grandiosi di umiltà e santità… Non basta conoscere le “regole” per assolvere, ma occorre saper ascoltare, consolare, sorreggere dolori, smarrimenti interiori, angosce e tragedie di coloro che si accostano con tremore al Sacramento della Riconciliazione. Come farlo dipende dalla sensibilità di ogni confessore: chinarsi umilmente e intensamente sul significato della misericordia divina può aiutare ad essere un suo mite, trepido e docile strumento».

Il sacramento della riconciliazione oggi, soprattutto tra i giovani, è tra i meno praticati. Perché?

«La confessione è entrata in crisi per diversi motivi. Se la confessione è ridotta ad una “pratica” amministrata, a un faticoso dovere formale da compiere almeno una volta l’anno, una sorta di “tributo da pagare” alla Chiesa, allora cresce la disaffezione. Riduttiva e avvilente questa consuetudine, nell’atteggiamento che ancora prevale tra fedeli e sacerdoti. Papa Giovanni Paolo II ha accelerato il processo di riscoperta della dimensione biblica della Confessione che è un’esperienza bella, salvifica, pasquale: è l’incontro con il Cristo risorto che permette di sentirsi dire la parola che tutti in fondo aspettano: “Vai in pace, i tuoi peccati ti sono perdonati”. Dobbiamo fare il possibile per restituire alla Confessione questa sua dimensione pasquale. Molto dipende anche dal confessore, che deve imitare Gesù, il quale era duro con gli ipocriti che credevano di non aver bisogno di perdono, ma tenerissimo con i peccatori. Chi si riconosce debole e si affida a Dio ottiene grazia e perdono».

Come recuperare il valore della confessione, affrontandola nel modo migliore?

«Il Sacramento della Riconciliazione è uno dei più “ostici”, ma anche uno dei più belli e umani, di cui abbiamo bisogno, perché è l’incontro personale con Cristo che perdona. Dobbiamo inoltrarci nel suo vero significato e  non limitarci al suo dato canonico, liturgico, sacramentale. Solo così le persone potrebbero avvicinarsi di più senza timore, senza quel pudore che paralizza soprattutto chi si è allontanato dalla pratica religiosa, senza la “vergogna” di rivelare ad un altro gli aspetti più intimi della propria vita».

In tempi di «relativismo etico», come si fa a riconoscere ciò che è peccato e ciò che non lo è?

«Non c’è da confondersi: ci guidano i comandamenti, norme da rispettare che rendono la vita più in sintonia con l’essere profondo dell’uomo, soprattutto il comandamento dell’amore che ci ha lasciato in eredità Cristo. Tutti i peccati, anche quelli “moderni” come le manipolazioni genetiche sull’uomo o l’inquinamento ambientale, sono riconducibili all’inosservanza dei comandamenti e alla mancanza d’amore. Chi confida solo in se stesso è come accecato dal proprio io e il suo cuore s’indurisce nel peccato che costituisce sempre una “diminuzione” dell’uomo: lo chiude nella prigione dell’egoismo, impedendogli di conseguire una pienezza di vita. Secondo le immagini della Bibbia ogni peccatore, che sia formalmente e gravemente tale, è cisterna vuota, ramo secco, mano paralizzata, lucignolo fumigante, È significativo notare che la radice della parola peccato sta in peccus, che significa letteralmente: difettoso nel piede, per cui peccare significare camminare male, claudicare, zoppicare».

In un tempo in cui molti affermano di non ritenere necessaria l’intermediazione della Chiesa nel proprio rapporto con Dio, perché confessarsi ad un sacerdote?

«Certamente, è sempre a Dio che ci si rivolge quando si confessano i propri peccati. Che sia, però, necessario farlo anche davanti a un sacerdote ce lo fa capire Dio stesso: scegliendo di inviare suo Figlio nella nostra carne, egli dimostra di volerci incontrare mediante un contatto diretto, che passa attraverso i segni e i linguaggi della nostra umanità. Come Lui è uscito da sé per amore nostro ed è venuto a “toccarci” con la sua carne, così noi siamo chiamati ad uscire da noi stessi per amore suo e andare con umiltà e fede da chi può darci il perdono in nome suo con la parola e col gesto. Solo l’assoluzione dei peccati che il sacerdote ti dà nel Sacramento può comunicarti la certezza interiore di essere stato veramente perdonato e accolto dal Padre che è nei cieli, perché Cristo ha affidato al ministero della Chiesa il potere di legare e di sciogliere, di escludere e di ammettere nella comunità dell’alleanza. Confessarsi da un sacerdote è tutt’altra cosa che riconoscere i propri peccati nel segreto del cuore, esposti alle tante insicurezze e ambiguità che riempiono la vita e la storia. Da soli non sapremmo mai veramente se a toccarci è stata la grazia di Dio o la nostra emozione, se a perdonarci siamo stati noi o è stato Lui, attraverso la via che Lui ha scelto. Assolti da chi il Signore ha scelto e inviato come dispensatori  del perdono, potremo sperimentare la libertà che solo Dio dona e comprenderemo perché confessarsi è fonte di pace e ci si sente come rinati e ritrovati. Nei casi estremi, quando le persone sono in pericolo di vita, e si pentono dei peccati gravi commessi, l’amore infinito di Dio li raggiunge e li perdona, anche se il perdono non può arrivare attraverso la presenza e la voce di un sacerdote. Dio è oltre le nostre misere schematizzazioni e formule, è il sentimento d’amore e di pentimento che conta per Lui».

Ma se anche i preti sono peccatori, perché si deve chiedere a loro il perdono?

«La peccaminosità del sacerdote, la sua fragilità e l’indegnità, non è in grado di neutralizzare la misericordia e la potenza dell’amore divino. Ne era profondamente convinto san Francesco d’Assisi che è arrivato addirittura a dire che – se avesse incontrato un sacerdote e un angelo – si sarebbe avvicinato al primo (anche se fosse stato indegno) e ne avrebbe baciato le mani, perché attraverso di esse Cristo benedice e perdona. E il suo perdono è una forma particolarissima del dono: è un dono al di là del dono, cioè il dono che si realizza al grado supremo della sua gratuità».

Il consiglio: accostarsi al confessionale con la «grinta spirituale» di chi vuole cambiare vitaIl periodo della Quaresima, sottolinea padre Piotr Anzulewicz, «è il tempo propizio per chiedere perdono con il sacramento della riconciliazione». Esiste un legame stretto, spiega il francescano, tra la pratica regolare del sacramento e un’esistenza orientata alla conversione: «la grazia della riconciliazione sostiene e alimenta la nostra vita cristiana». Come prepararsi allora al sacramento, con quale atteggiamento accostarsi al confessionale?

Prima di tutto, consiglia padre Piotr, «fare un esame di coscienza accurato, qualche giorno prima, in un luogo tranquillo. Al confessionale, poi, si pensi che si va ad incontrare il Signore Gesù, senza l’assillo della meticolosità di dire tutto: bisogna, sì, riferire i peccati gravi, ma l’importante è l’incontro sacramentale con Cristo che perdona e il sentirsi accolto e compreso, ricevendo la forza per rialzarsi e non ricadere».

Chi si accosta alla confessione, dice il frate, deve avere una vera e propria «grinta spirituale»: è quella che serve, spiega, «per impegnarsi a migliorare, poi, la propria vita con rinnovato slancio, alla luce degli insegnamenti evangelici, con intensità spirituale e intellettuale». Come vivere, allora, la Confessione? «Come un incontro personale, dove fiorisca la confidenza tra il sacerdote e il fratello che gli si inginocchia accanto. Pensiamo a come Gesù viveva l’incontro in modo speciale, personale, con ciascuno che lo avvicinava: guardandolo negli occhi, mostrandogli la voglia di capirlo, consolarlo, guarirlo, nell’anima e nel corpo. La Confessione diverrebbe allora un momento di incontro, di liberazione, di gioia fra penitente e confessore, un pacificante momento in cui qualsiasi peccato si sia commesso – se lo si riconosce umilmente – si sperimenta la gioia pacificatrice del perdono. Nel cuore della Confessione non sta il peccato, ma la misericordia di Dio, che è infinitamente più grande di ogni nostra colpa». Ma che cosa cerca chi si confessa? Solo l’assoluzione o anche un conforto, un’indicazione per la propria vita? «Le persone più anziane – risponde padre Piotr – spesso si confessano per dovere, per abitudine, per ricevere l’assoluzione e una parola di conforto. Qualcuno si precipita in confessionale, schiacciato dal peso della colpa, perché sente urgente il bisogno del perdono, della misericordia di Dio. E chi “cerca” davvero, dialogando sinceramente con il confessore, scopre che il perdono ha due dimensioni: un perdono da chiedere e un perdono da dare. Il più importante è quello da chiedere a Dio, perché tutto parte da lì».