Dossier

La vita spirituale del prete: la relazione di Enzo Bianchi

di Enzo Bianchi*Cari fratelli presbiteri nella chiesa di Dio, il vescovo di questa chiesa mi ha chiesto di essere oggi qui tra di voi perché possa offrirvi una riflessione sulla vita spirituale del presbitero. Sono un semplice monaco, «un povero laico», definizione che Pacomio dava di sé al grande Atanasio patriarca di Alessandria, ma ho accettato perché in questi ultimi vent’anni, senza che io l’abbia voluto o scelto, mi sono trovato impegnato sovente – su invito soprattutto dei vescovi di Milano e di Torino, ma anche di varie altre diocesi – nel riflettere su problemi riguardanti il presbitero, oltre che nella predicazione di esercizi spirituali ai presbiteri e nell’accompagnamento spirituale di molti di loro.

Cercherò di essere soltanto eco della Parola di Dio e una voce di ciò che ho a lungo ascoltato dal vissuto ecclesiale e presbiterale, e condividerò con voi alcuni pensieri che sulla base della mia esperienza giudico utili, se non addirittura urgenti, per una vita presbiterale vissuta nello Spirito santo e in fedeltà all’Evangelo.

Termino questa premessa comunicandovi una mia radicata convinzione: che cioè la vostra «spiritualità» non consiste in null’altro se non nella vita spirituale vissuta in ciò che voi fate come presby´ teroi, come ministri nella Chiesa di Dio. Sì, sono convinto che una sola è la spiritualità della Chiesa, fondata sul battesimo e nutrita dalla Parola di Dio e dai santi sacramenti, anche se essa è vissuta in modo diverso e distinto a seconda della grazia e della situazione in cui il Signore ha voluto il suo servo. Dunque il presbitero deve nutrire la sua vita spirituale attraverso ciò che egli è e ciò che egli opera nella Chiesa. Non deve vivere una «spiritualità del genitivo», fosse pure un genitivo che rinvia a grandi figure spirituali o a grandi santi; non deve neppure vivere spiritualità che gli indichino particolari «vie»: il presbitero deve trarre vita spirituale dal suo annunciare l’Evangelo, dal suo celebrare i sacramenti, dal suo presiedere la comunità cristiana. Ciò che dà identità al presbitero dev’essere ciò in cui egli è impegnato spiritualmente: da questo egli trae le ragioni e il nutrimento della sua vita spirituale! Ecco allora alcune tracce. 1. Il rapporto con il tempoLa tradizione spirituale ha sempre insistito sul rapporto tra cristiano e tempo, ma oggi forse occorre ribadire con più forza che una vita autenticamente cristiana non può prescindere dal rapporto con il tempo. Oggi, infatti, viviamo in una stagione segnata da accelerazione, velocizzazione e atomizzazione del tempo, così che la patologia del vivere il tempo si è fatta più evidente, intensa e grave. Il tempo è il nemico contro cui si lotta o il fantasma che si insegue, e così il tempo ci sfugge, noi perdiamo tempo, non abbiamo tempo, siamo divorati dal tempo. Il tempo diviene così l’idolo a cui siamo abitualmente e quotidianamente alienati. Ma per noi cristiani il tempo è l’ambito in cui si gioca la nostra fedeltà al Signore: o sappiamo vivere il tempo, ordinare il tempo sentendolo come dono e impegno, oppure siamo idolatri del tempo. È nel tempo che scorre che dobbiamo riconoscere l’oggi di Dio (cf. Lc 19,9; Eb 3,7-4,11); è «riscattando il tempo» (Ef 5,16) che possiamo sottrarlo al vuoto e al non senso; è ordinando il tempo che possiamo tendere alla preghiera incessante richiestaci da Gesù e dall’Apostolo (cf. Lc 18,1; Ef 6,18; 1Ts 5,17).Il presbitero deve dunque «santificare il tempo», cioè disciplinare, riservare, separare in modo intelligente il tempo per ciò che lui è ed è chiamato a fare. Ci sono priorità da stabilire, c’è un tempo che dev’essere ritenuto centrale nella giornata e al quale non si rinuncia: un tempo per l’azione per eccellenza che edifica la comunità, cioè la liturgia santa, un tempo per guidare la comunità del Signore nei diversi modi richiesti, un tempo per riposare. Senza una disciplina del tempo, che è una vera «santificazione del tempo», non c’è possibilità di vita spirituale cristiana. Infatti, molti restano in essa sempre dilettanti, non perseveranti, contraddittori, incapaci di una crescita robusta proprio a causa del loro rapporto alienato con il tempo. Quando il tempo appare senza adventus, un aeternum continuum senza novità essenziali, tempo che semplicemente si lascia passare senza viverlo in modo cosciente e nella consapevolezza della venuta del Signore, allora non c’è né memoria, né attesa, né capacità di ascoltare oggi la parola del Signore. 2. Il rapporto con la ParolaNei decenni successivi al Concilio Vaticano II è stato messo in forte risalto il particolare rapporto fra Parola di Dio e ministero episcopale e presbiterale, e certamente oggi il vostro ministero appare innanzitutto come ministero della Parola (diakonía toû lógou: At 6,4), servizio della Parola evangelizzatrice alla comunità cristiana e a quanti chiedono conto della speranza che vi abita (cf. 1Pt 3,15). Oggi voi avete chiara questa coscienza di essere «ministri della Parola» (hyperétai toû lógou: Lc 1,2), ma per essere tali occorre essere ascoltatori della Parola, curvati dalla Parola, abitati dalla Parola (cf. Mc 4,20; Gv 5,38; ecc.).

C’è un’espressione nel discorso di Paolo ai vescovi-presbiteri di Efeso che rappresenta un basilare orientamento di vita per voi. Paolo, salutando quei suoi collaboratori nel ministero, dice: «Io vi affido a Dio e alla Parola della sua grazia» (paratíthemai hymâs tô theô kaì tô lógo tês cháritos autoû: At 20,32). Nel suo testamento apostolico, Paolo non affida la Parola ai ministri, ma affida i ministri alla Parola! I destinatari del testamento dell’Apostolo hanno la missione di predicare, di diffondere, di tenere viva la Parola in mezzo al gregge, di affidarla alla Chiesa, ma – cosa sorprendente! – qui Paolo affida i ministri alla Parola. Prima che la Parola sia loro affidata, sono essi stessi affidati alla Parola; prima di essere portatori della Parola, essi stessi sono portati dalla Parola di Dio! Sì, la Parola è potente ed efficace, ha un’energia perché è realtà viva e operante (Eb 4,12), ha il potere di salvare la vita (Gc 1,21), di edificare e di concedere l’eredità con tutti i santi (At 20,32), di comunicare la sapienza che porta alla salvezza (2Tm 3,15-17) e, come Evangelo, è potenza di Dio (Rm 1,16).

Carissimi, non dimenticatelo mai: voi portate la Parola agli altri solo se siete portati dalla Parola. Ma cosa significa quest’espressione forte e paradossale: «affidati alla Parola»? Significa che voi mettete la vostra fede nella Parola di Dio e non in voi stessi o in altre realtà; che ogni mattina, quali autentici servi del Signore, fate attento il vostro orecchio per ascoltare come discepoli la Parola (Is 50,4); che ogni mattina lasciate che il Signore vi apra l’orecchio senza tirarvi indietro (Is 50,5); che tutto apprestate nella vostra vita, nel trascorrere del tempo, del giorno, perché la Parola abiti in voi (Gv 15,7), sia impiantata in voi (Gc 1,21). Voi dovete poter dire come Gesù: «Io custodisco la Parola di Dio» (Gv 8,55). Non ci vuole molto per capire quanto sia facile cadere nella tentazione di non far corrispondere il nostro ascolto, la nostra ricezione, la nostra ricerca della Parola, il nostro amore della Parola di Dio al nostro predicare, o al nostro annunciare la Parola agli altri. Mi si perdoni: il rischio non è solo quello dell’improvvisazione, o della poca preparazione nei confronti dell’atto dell’evangelizzare, ma il rischio è molto più radicale! Ed è quello di consegnare una parola depotenziata, una parola senza energie rispetto alla forza del demonio che si oppone alla predicazione, una parola che non giunge al cuore dei fedeli, ma che di fatto si svuota subito… Essere affidati alla Parola non è un augurio, ma un impegno di assiduità con la Parola, un’assiduità fatta di ascolto della Parola nella lettura delle Scritture che la contengono, fatta di meditazione e di esperienza quotidiana vissuta, fatta di preghiera che permette al predicatore di assumere e far proprio il pensiero di Cristo (noûn Christoû échomen: 1Cor 2,16).A questo proposito credo opportuno ricordarvi un testo del Card. Ratzinger rivolto al Consiglio delle Conferenze episcopali europee. Il Card. Ratzinger si interroga su come oggi, in questa nuova situazione ecclesiale che ha visto la promozione di molte competenze, del sapere specialistico e della nuova presenza qualificata di laici nella Chiesa, sia possibile al vescovo, e di conseguenza al presbitero, presiedere con exousía, cioè con autorevolezza, la Chiesa. Secondo i vangeli la parola di Gesù era sentita come parola munita di exousía, di autorevolezza, non come le parole degli scribi (cf. Mc 1,22; Mt 7,29). Dunque, come avere exousía nel presiedere la Chiesa? Ratzinger dice: «Non è necessario che il vescovo [si intenda anche il presbitero] sia uno specialista in teologia, ma dev ‘essere un maestro di fede. Ciò suppone che sia in grado di vedere la differenza tra fede e riflessione sulla fede: in altre parole, deve avere il sensus fidei … Mentre il vescovo lascia agli specialisti la loro area di competenza, rimane suo compito indicare ai fedeli e ai teologi quale sia il dato della fede, oggetto della riflessione, il quale rimane stabile nella variazione delle teorie … In una parola, si potrebbe dire che il discernimento fra dato della fede e riflessione della fede è il compito del vescovo … Ma come si può ottenere questo dono del discernimento? La condizione fondamentale per la capacità di discernimento consiste nel senso della fede, che diventa occhio; il senso della fede si nutre della prassi della fede; l’atto fondamentale della fede è la relazione personale con Dio: “con Cristo, nello Spirito santo, al Padre” … Quali sono i modi più importanti di questa relazione personale partecipata con Dio? Il modo fondamentale di una relazione personale è il colloquio, il dialogo. Sarebbe insufficiente però se dicessimo: il colloquio con Dio si chiama preghiera, perché il dialogo esige reciprocità, non solo la nostra parola, ma anche il nostro ascolto. Senza ascolto il dialogo si riduce a monologo … Ecco perché noi ascoltiamo la voce di Dio ascoltando la sua Parola consegnataci nella sacra scrittura.Difatti sono convinto che la lectio divina è l’elemento fondamentale nella formazione del senso della fede e di conseguenza l’impegno più importante per un vescovo maestro della fede … La lectio divina è ascolto di Dio che parla con noi, che parla a me. Questo atto di ascolto esige quindi una vera e propria attenzione del cuore, una disponibilità non solo intellettuale, ma integrale, di tutto l’uomo. La lectio divina deve essere quotidiana, deve essere il nostro nutrimento quotidiano, perché solo così possiamo imparare chi è Dio, chi siamo noi, che cosa significa la nostra vita in questo mondo …».

Vi è un bel testo contenuto nella Pastores dabo vobis che riguarda proprio il rapporto fra ministero e Parola di Dio: «Il sacerdote deve essere il primo “credente” alla Parola, nella piena consapevolezza che le parole del suo ministero non sono “sue”, ma di Colui che lo ha mandato. Di questa Parola egli non è padrone: è servo. Di questa Parola egli non è unico possessore: è debitore nei riguardi del popolo di Dio. Proprio perché evangelizza e perché possa evangelizzare, il sacerdote, come la Chiesa, deve crescere nella coscienza del suo permanente bisogno di essere evangelizzato» (PDV 26). E al numero 47 lo stesso documento recita: «Elemento essenziale della formazione al ministero presbiterale è la lettura meditata e orante della Parola di Dio (lectio divina), è l’ascolto umile e pieno di amore di Colui che parla». Sì, è l’Evangelo la vostra forza, è l’Evangelo la fonte del vostro presiedere le assemblee del Signore, è l’Evangelo ciò che conferisce exousía alla vostra predicazione! Senza la Parola di Dio voi non siete nulla nella Chiesa, senza la Parola di Dio non avete nulla da dire alla Chiesa, senza la Parola di Dio tutto il vostro impegno non gioverebbe a nulla! Gesù ha detto: «Senza di me voi non potete fare nulla» (Gv 15,5), ma Lui è innanzitutto il Verbo, la Parola del Padre all’umanità. Dal vostro rapporto con la Parola di Dio dipende dunque la vostra identità, l’efficacia del vostro ministero, il tesoro da voi portato in vasi di creta (cf. 2Cor 4,7).

3. Il rapporto con la liturgiaSo di toccare un rapporto delicato e so anche che forse oggi non è ancora venuto il tempo per una vera riproposizione della liturgia come centralità nella vita del presbitero. Ma io ho spesso l’impressione di una scollatura ormai solidificata tra ministero e liturgia. Prima del grande mutamento ecclesiale avvenuto negli anni ’60/’70, il presbitero appariva soprattutto come il liturgo, ma ora si è estesa sempre più la sua attività pastorale e si sono ridotti l’impegno e l’attenzione alla liturgia. È innegabile che oggi si avverte il prevalere del funzionalismo e il ridursi della sacramentalità presbiterale nutrita soprattutto dalla liturgia: la liturgia è sempre meno preparata, spesso è celebrata in fretta, non riceve più quell’attenzione e quella cura che conosceva nell’ora della riforma liturgica. Sì, la tendenza oggi dominante è a separare la liturgia dalla vita. E certamente questa disaffezione, questo decentramento della liturgia dalla vita del presbitero ha una ricaduta nella comunità cristiana. Se aumentano sempre più i cristiani che si confessano tali senza però sentirsi vincolati all’assemblea liturgica almeno nel giorno del Signore, è anche per questo. D ‘altronde, il presbitero stesso vive altre forme di liturgia con la sua comunità all’infuori della celebrazione eucaristica e di qualche, ormai rarissima, devozione? Eppure la liturgia, azione e celebrazione della grazia, è alla sorgente e alla fine del vostro ministero. È attraverso la liturgia che voi siete posti nel luogo dell’evangelizzazione e debitamente abilitati ad essa, è attraverso la liturgia che rinnovate la vita della comunità cristiana edificandola e facendola crescere in grazia e santità.

Per questo nella vita del presbitero la liturgia deve assolutamente tenere il posto centrale: alla liturgia il presbitero si prepara con la Parola ascoltata nella lectio divina, ma anche disponendosi ad evangelizzare la Parola ascoltata alla sua comunità; alla liturgia si prepara cercando di comprendere l’eucologia che offre il messale, si prepara come all’azione per eccellenza di tutta la comunità cristiana da lui presieduta. Ci si deve allora chiedere: c’è conoscenza, c’è comprensione delle nuove preghiere eucaristiche donate alle comunità dalla riforma liturgica? C’è lo sforzo e l’attenzione a far sì che la lex orandi sia lex credendi per i fedeli? C’è la capacità mistagogica che porterebbe i fedeli a una vera partecipazione e a una vera conoscenza della liturgia? Sì, è questione di centralità: e se questa centralità liturgica non è reale nella vita del presbitero, allora tutto il suo ministero ne risente ed è svuotato. Solo quando viene celebrata con autentica e rinnovata fede, la liturgia trasforma la vita, celebra la vita e dà forma, plasma la vita del presbitero, che proprio nella presidenza eucaristica trova il fondamento al ministero di presidenza della comunità. Il presbitero è dall’Eucaristia e per l’Eucaristia: in essa lo Spirito santifica la Chiesa, ma santifica anche il presbitero. Non dimenticate che anche quando celebrate le più umili eucaristie, magari in paesini sperduti o in anonime situazioni urbane con poche persone, sovente anziane, se voi celebrate con la tensione dovuta e con serietà e convinzione, spezzando il pane della Parola e partecipando all’unico pane eucaristico, voi edificate la Chiesa e partecipate all’azione del Pastore dei pastori, Gesù Cristo! Lo ribadisco: voi non dovete lasciare che la vostra sacramentalità sia ridotta a mera funzionalità: questa è l’epoca del progresso della razionalizzazione, del recul du sens (P. Ricoeur), e neppure voi siete esenti da questa tentazione, ma il funzionalismo è una nuova forma di clericalismo. Sì, la leitourghía, azione e celebrazione sacramentale della grazia, sia davvero al cuore del vostro ministero. Voi annunciatori dovete sempre comprendere la vostra missione come relativa alle altre due che precedono la vostra: la missione del Figlio e la missione dello Spirito, ed è dunque attraverso la preghiera e la liturgia celebrata che voi realizzate la vostra missione giorno dopo giorno. È nella liturgia che voi accogliete le parole per voi e le parole da predicare, è nella liturgia che chiedete lo Spirito santo per voi e per coloro verso cui andate, è nella liturgia che riconoscete l’opera compiuta dallo Spirito santo in voi e nelle vostre comunità.

4. Ministero e vita umanaSovente, ed è una realtà recente, nell’ambito di coloro che esercitano funzioni ministeriali nella chiesa, si deve constatare una scarsa attenzione alle virtù, non quelle teologali, ma quelle umane. Si ha a volte la sensazione che il ministero vissuto come funzione diventi un paravento per evitare di misurarsi con valori che in verità sono determinanti nella rete delle relazioni interpersonali e sociali, essenziali per lo sviluppo e la crescita di una personalità umana protesa a fare della propria vita un’opera d’arte. È una malattia in fondo docetica, perché non mette in evidenza la rilevanza incarnazionista della vita cristiana, non riconosce la bontà della realtà creazionale e l’assunzione da parte di Cristo della natura umana e di quanto ad essa appartiene. Quasi che Cristo sia venuto in questo mondo solo per vivere il ministero pubblico e la croce, e non anche per vivere come uomo, anzi come il vero Uomo, l’Adam voluto da Dio nella creazione! Noi abbiamo, è vero, un passato che non ha letto pienamente il significato dell’incarnazione di Dio in Gesù di Nazaret, un passato in cui è presente uno gnosticismo che non solo mette in conflitto vita umana e vita cristiana, ma addirittura impedisce di cogliere l’umanità, l’esistenza umana ordinaria e comune come ciò che dev’essere assunto nella vita cristiana, e dunque anche nella vita del presbitero. Troppo preoccupati di segnare la differenza dai fedeli e troppo impegnati nell’esibire un’identità propria, di fatto si incoraggia la custodia di identità deboli che tendono ad appoggiarsi al ruolo per dare stabilità ai propri comportamenti e vincere le insicurezze… La funzione in questo caso diventa un elemento dietro cui ci si nasconde per occultare le proprie fragilità, e una conferma della dimenticanza dell’umano, reso del tutto funzionale al mero esercizio del ministero. In verità – e in ciò restando fedeli alla grande tradizione spirituale cattolica – occorre ribadire che non c’è netta separazione e tanto meno contrapposizione tra maturità umana e maturità cristiana: io sono sempre più convinto che la crisi oggi del presbitero è da individuare proprio in questo rapporto tra ministero e vita umana, e non nello spazio della teologia del ministero.Va detto con forza: l’umanità di Gesù come ci è proposta dai vangeli non è né apparente, né sovrapposta alla sua missione: è un’umanità reale, un’esistenza quotidiana comune alla carne e al sangue. Questo è il luogo in cui ci è stata data l’immagine perfetta del Dio invisibile (cf. Col 1,15), questo è il luogo in cui il Figlio exeghésato, ci «ha narrato» Dio (Gv 1,18)! Permettetemi allora di rinnovare l’invito di Paolo ai presbiteri di Mileto: «Vegliate su voi stessi» (At 20,28). Analogo avvertimento è rivolto a Timoteo: «Vigila su te stesso» (1Tm 4,16). Sì, vigilare su se stessi è operazione che quasi si impone da sé, ma essa può diventare più difficile per coloro che sono tesi a vegliare sugli altri per mandato conferito loro. Succede così che chi non vigila su se stesso diventa spione e gendarme degli altri. Carlo Borromeo così diceva rivolgendosi ai presbiteri: «Eserciti la cura d’anime? Non trascurare per questo la cura di te stesso, e non darti agli altri fino al punto che non rimanga nulla di te a te stesso. Devi avere certo presente il ricordo delle anime di cui sei pastore, ma non dimenticarti di te stesso». No, nessuno può giustificarsi dicendo: «Ho troppo da fare per gli altri per poter pensare a me stesso!», perché chi dice questo, prima o poi trascurerà il suo ministero non riuscendo più ad essere all’altezza della situazione. Vigilare su se stessi, aver cura di se stessi, è una condizione necessaria per la qualità del ministero e la fedeltà ad esso. Mi sia permesso di dire ciò che molti presbiteri frequentemente mi confessano: spesso la vita presbiterale, per l’accumularsi degli impegni, per il prevalere di un certo disordine nell’attribuire le giuste priorità e nel dominare il tempo della giornata, per una certa pigrizia o incapacità a porre limiti che significano anche dire un «no» alle richieste della gente, non lascia posto alla cura di se stessi, sicché non avviene quello che Paolo si augura per Timoteo: «Dèdicati alla lettura … non trascurare il dono spirituale che è in te … abbi premura di queste cose, dèdicati ad esse interamente perché tutti vedano il tuo progresso» (1Tm 4,13-16). Davvero straordinaria, a questo proposito, la lettera dei vescovi francesi del 16 gennaio 2002 intitolata Ritrovare il tempo di leggere! Gregorio Magno, lamentandosi dei presbiteri del suo tempo e ponendosi in solidarietà con loro, accusava anche se stesso dicendo: «Ci siamo ingolfati in affari terreni! Sì, altro è ciò che abbiamo assunto con l’ufficio presbiterale, altro ciò che mostriamo con i fatti! Noi abbandoniamo il servizio della Parola e siamo chiamati vescovi-presbiteri, ma forse piuttosto a nostra condanna, dato che possediamo il titolo, ma non abbiamo la qualità».

Ma oggi, a mio avviso, non è solo il problema del ministero sovraccarico di impegni e incombenze che grava sulla vita dei presbiteri: è anche e soprattutto questione di una cattiva qualità di vita umana. Si pensi semplicemente ai rapporti e ai bisogni primari che un uomo vive: la casa, il cibo, il vestito. La casa del presbitero sovente è inospitale, è uno spazio in cui non ci si reca volentieri, che non «canta la vita». È così che, non sentendosi a casa propria, molti preti trovano sostitutivi frequentando assiduamente famiglie o gruppi. Il cibo, poi, in quale contesto è assunto? Se il mangiare non è solo sostentamento, ma occasione di cultura, oggi il presbitero può dirsi sempre capace di viverlo con una logica cristiana che è innanzitutto eucaristica? E che dire del vestito? Nei primi secoli cristiani non vi era alcun vestito distintivo del clero: questo si è imposto solamente nel XVII secolo con la talare intesa come segno di consacrazione a Dio. Ma il vestito è il primo linguaggio con cui una persona comunica ciò che è. Per questo Gerolamo suggeriva ai presbiteri di fuggire l’eleganza e la ricercatezza, ma anche la sciatteria e la negligenza. Lo si sappia o no, questi tre ambiti sono un riflesso di chi è il presbitero, e nello stesso tempo lo influenzano: a partire da questi si rivelano la sua libertà e la sua maturità. Sì, oggi, che non si fa più affidamento sulla funzione, ma sulla persona, l’autorevolezza del presbitero è ancora più necessaria ed è legata alla sua statura umana e spirituale. Davanti a Dio e agli uomini niente può rimpiazzare una vita personale autentica! Più che mai si impone che il presbitero coltivi interessi personali intellettuali, letterari, artistici, musicali, a seconda dei doni ricevuti, perché la via cristiana è filocalia, ricerca e contemplazione della bellezza: per mantenersi vivi, desti, interessati alla vita, per rinnovare le proprie convinzioni nel passare degli anni, per combattere la malattia del cinismo e della rassegnazione occorre leggere, andare alle fonti cristiane e culturali, occorre anche sapersi riposare e ricreare con intelligenza. La condizione del presbitero è oggi connotata dalla dispersione, dall’esposizione senza protezione, ma senza una volontà di condurre una vita buona e bella nel senso compiuto del termine ci si espone solo alla dissipazione. Sì, per una buona qualità della vita è importante l’esercizio (ascesi) delle relazioni, dato che la qualità della vita è direttamente legata e connessa alla qualità delle relazioni: fra parroco e viceparroco, fra prete e vescovo, fra preti e laici, e poi con le infinite diverse situazioni personali ed esistenziali che il prete si trova a incontrare. Vigilare su se stesso significa vigilare sulle relazioni, sul comportamento, sul ministero… Più che mai oggi è essenziale un’ascesi della comunicazione. Al rischio della dissipazione si deve aggiungere quello dello stress e della stanchezza, della depressione e della demotivazione. Se uno fa coincidere personalità, riuscita personale, e lavoro pastorale, azione del ministero, allora i fallimenti pastorali diventano fallimento della persona tout court. Occorre anche una comprensione evangelica dell’«efficacia» della Parola, che è sempre dell’ordine di efficacia della «croce».

ConclusioneCarissimi, un documento dei vescovi tedeschi sul servizio sacerdotale, del 1992, parla di «nevrosi pastorale» e auspica l’assunzione da parte dei presbiteri di una «spiritualità del dire di no» per poter dire un sì più grande e importante. Sappiamo tutti che il Concilio di Trento ha saputo forgiare un’identità presbiterale, certo sempre da completare e correggere, che ha significato per la Chiesa una vera riforma. Il Vaticano II forse non ha avuto sul presbiterato la stessa forza e la stessa creatività, ma di fatto si sta forgiando un nuovo tipo di presbitero e di vescovo certamente più ispirato dal Nuovo Testamento che da preoccupazioni ecclesiastiche. Il cammino è ancora lungo e faticoso, ma ad ognuno di voi compete la responsabilità, vivendo (o non vivendo) l’Evangelo, di dare alla Chiesa un servo del Signore, un servo della comunità, e al mondo un testimone fedele dell’Evangelo di Gesù Cristo. Siate dunque ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio, come vi chiama Paolo (1Cor 4,1), e così sarete uomini a servizio della santità della Chiesa e uomini di santità. «Quel che dispensate all’esterno lo attingete alla fonte dell’amore, e amando imparate quello che annunciate insegnando», scrive Gregorio Magno. Io e la mia comunità preghiamo e pregheremo ancora per questo, e voi perdonate la mia possibile insipienza.

* Enzo Bianchi è nato a Castel Boglione in Piemonte nel 1943. Dopo gli studi alla Facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Torino, nel 1965 si è recato a Bose, una frazione abbandonata del Comune di Magnano sulla Serra di Ivrea, con l’intenzione di dare inizio a una comunità monastica. Raggiunto nel 1968 dai primi fratelli e sorelle, ha scritto la regola della comunità. È a tutt’oggi priore della comunità la quale conta ormai una settantina di membri tra fratelli e sorelle di sei diverse nazionalità ed è presente, oltre che a Bose, anche a Gerusalemme, Ostuni e Assisi. Alle assidue collaborazioni giornalistiche (La Stampa, Avvenire, Repubblica, Radiotre) affianca un’intensa attività editoriale: ha pubblicato diversi libri, tradotti in molte lingue, esprimendo una spiritualità abbeverata alle fonti bibliche e alla grande tradizione ecclesiale, ma attenta all’oggi e alla compagnia degli uomini. Tra le sue opere ricordiamo: «Ricominciare» (1991), «Magnificat», «Benedictus», «Nunc dimíttis» (1993), Adamo, dove sei? (1994), Giorno del Signore, giorno dell’uomo (1994), Da forestiero (1995), «Aids malattia e guarigione» (1997), «Come evangelizzare oggi» (1997), «Pregare i Salmi» (1997), «La lettura spirituale della Bibbia» (1998), «Altrimenti. Credere e narrare il Dio dei cristiani» (1998), «Le parole della spiritualità» (1999), «Quale fede» (2002).