Dossier

Povertà, chi bussa ai Centri di ascolto

DI CRISTIANA CIONITra gli appuntamenti della Conferenza regionale sull’esclusione sociale c’è la presentazione, da parte di mons. Antonio Cecconi, vicario generale della diocesi di Pisa e direttore dell’Osservatorio giuridico-legislativo della Conferenza episcopale toscana, dei risultati emersi dal Dossier sulle povertà «In ascolto dei bisogni del territorio». Si tratta di una ricerca sociologica curata dall’Osservatorio regionale Caritas, che ha seguito la raccolta e la lettura della grande quantità di dati sui bisogni e sullo stato di povertà delle persone che si rivolgono ai Centri d’ascolto diocesani Caritas della Toscana.

La realizzazione è stata possibile grazie al cofinanziamento da parte della Regione Toscana nell’ambito del programma sulle «Reti di solidarietà e povertà estreme» (vedi articolo su Toscanaoggi dell’8 dicembre 2002) e grazie alla collaborazione e alla messa in rete degli Osservatori con i Centri d’ascolto diocesani.

Il progetto, che è stato seguito e sviluppato dall’Osservatorio regionale Caritas, si chiama «Mirod»: una semplice parola che racchiude in sé l’essenza del progetto stesso, cioè la messa in rete degli Osservatori diocesani delle povertà, dei bisogni e delle risorse.I dati, su cui si basa il rapporto, sono espressione delle informazioni raccolte da 13 Centri d’ascolto della Toscana appartenenti alle diocesi di Arezzo, Firenze, Livorno, Lucca, Massa Marittima, Montepulciano, Pescia, Pisa, Pistoia, Pitigliano, Prato, Siena, Volterra. L’Osservatorio regionale Caritas ha potuto analizzare i dati rilevati al periodo gennaio-giugno 2003.

Per arricchire ed approfondire le conoscenze emerse dal rapporto, è stato adottato un sistema di analisi sociologicamente denominato «triangolazione» per il fatto di utilizzare diversi metodi di analisi. Si è ricorsi al metodo quantitativo per le elaborazioni statistiche dei dati forniti dai Centri d’ascolto e raccolti a livello regionale, e al metodo qualitativo, utilizzando sistemi di rilevazione come storie di vita e interviste, per comprendere meglio i fenomeni sociali che emergevano precedentemente dall’analisi quantitativa.

La ricercaDurante il primo semestre 2003, dai 13 Centri d’ascolto della Caritas della Toscana interessati alla ricerca, sono state accolte e ascoltate 3.025 persone. Sul totale delle affluenze, il 78,8% è rappresentato da stranieri, rispetto al 21,2% rappresentato da italiani. Tra le donne, la prevalenza delle straniere è sempre presente, anche se di tono inferiore rispetto agli uomini: il 75,9% è di nazionalità straniera, contro il 24,1% di italiane.Per quanto riguarda la provenienza degli stranieri che si rivolgono alla Caritas, i dati riferiscono di un universo variegato e composto da 62 nazionalità diverse, alcune consistenti, altre di dimensioni modeste. Le prime 5 nazioni a forte pressione migratoria in Toscana sono: Romania, Marocco, Albania, Perù, Ucraina. Secondo i dati diffusi dal Ministero degli interni, i gruppi nazionali di immigrati regolari più numerosi in Toscana sono invece gli albanesi, i cinesi e i marocchini.Rispetto a questi dati, le nostre informazioni presentano delle forti differenze. Per approfondire la questione e spiegare i possibili motivi di differenziazione, si è ricorsi al metodo qualitativo, intervistando direttamente le persone che si rivolgono al Centro e le figure professionali che si occupano di loro.È stato possibile, ad esempio, fornire delle spiegazioni più approfondite riguardo all’assenza del gruppo nazionale cinese tra le prime cinque nazioni evidenziate dalla Caritas.La Caritas diocesana di Prato, in collaborazione con l’Osservatorio regionale, ha così svolto alcune interviste a figure professionali cinesi che operano sul campo, quotidianamente a contatto con i loro connazionali. Attraverso queste interviste, si è capito che la situazione dei cinesi sfugge alla conoscenza del Centro d’ascolto di Prato in quanto la comunità cinese è molto chiusa e al tempo stesso indipendente; si rivolgono al Centro solo per la risoluzione di problemi burocratici e/o di salute.In contrasto con i dati diffusi dal Ministero degli interni, i dati Caritas evidenziano inoltre una notevole presenza di stranieri provenienti dalla Romania e nuovi ingressi in Toscana di immigrati peruviani.

Assumendo l’ipotesi che maggiore è l’affluenza ad un Centro d’ascolto e minore è il grado di integrazione sociale di un gruppo nazionale, si deduce che quello rumeno è il gruppo nazionale con più problematiche di integrazione sociale e di regolarizzazione, anche più della comunità marocchina e albanese.

Anche su questi due ultimi gruppi nazionali, l’Osservatorio regionale ha condotto delle osservazioni. Confrontando le realtà di ogni Centro d’ascolto diocesano, si può notare come nella zona costiera e nell’entroterra meridionale della Toscana, la presenza immigrata albanese non conviva o conviva poco nello stesso territorio con la comunità marocchina. Al Centro di Livorno si è rivolto il 35% di marocchini e nessun albanese; al Cda di Pisa si è rivolto il 26% di albanesi e nessun marocchino; al Cda di Arezzo si è rivolto il 40% di albanesi rispetto al 13% di marocchini; ed infine, al Cda di Siena si è rivolto il 23% di albanesi e il 2% di marocchini.

Un altro aspetto, che emerge dall’analisi condotta dall’Osservatorio regionale, riguarda la presenza rilevante in Toscana di stranieri irregolari, soprattutto maschile. Su un totale di 2.385 stranieri che si sono rivolti ai 13 Centri d’ascolto diocesani, nell’arco di tempo compreso tra gennaio 2003 e giugno 2003, il 58% è costituito da immigrati soggiornanti in Toscana senza permesso di soggiorno.

Non esiste ancora oggi un centro per rilevare utili informazioni riguardo all’irregolarità degli stranieri tanto realistico e prezioso quanto il Cda Caritas. Infatti, il Ministero degli interni si rifà all’archivio dei permessi di soggiorno collegato alle questure, sottostimando però in questo modo il numero reale di stranieri; l’Istat si basa sull’archivio delle iscrizioni anagrafiche collegato agli uffici comunali, ma anche in questo caso il numero degli stranieri iscritti all’anagrafe è inferiore a quello dei soggiornanti effettivi.

Il 26,3% degli immigrati ascoltati dai CdA vive in un nucleo familiare, rispetto al 21,4% che convive in un nucleo non familiare e al 5,6% che vive da solo.

Negli anni precedenti dai risultati di altre ricerche sulla tipologia di convivenza degli stranieri emergeva che gli stranieri abitavano per lo più in nuclei non familiari. I dati emersi dall’indagine Caritas evidenziano invece che in Toscana esiste una notevole presenza di famiglie immigrate e che quindi in questi ultimi anni si sono completati numerosi ricongiungimenti familiari.

Analizzando le problematiche che gli operatori dei Centri rilevano durante il colloquio con gli utenti, si osserva che la famiglia è al centro delle preoccupazioni della maggior parte delle persone che vanno al Cda. La famiglia immigrata, come nuovo soggetto sociale, sviluppa bisogni a vari livelli, necessita di accedere ai servizi, alle istituzioni scolastiche, ma soprattutto esprime la necessità di trovare un alloggio adeguato alle nuove esigenze.

La famiglia italiana, d’altra parte, dimostra di non riuscire più ad avere un reddito sufficiente, appare in grado di provvedere al sostentamento dei propri componenti solo in modo modesto e in grado di condurre un tenore di vita dignitoso. Rispetto agli uomini italiani, sono più le donne a rivolgersi al Cda con un’attenzione rivolta alla gestione della casa e alla cura della famiglia, richiedendo aiuti in denaro per il pagamento di bollette o dell’affitto o delle spese sanitarie. Confrontando i dati a disposizione, emerge che la donna italiana che si rivolge al Centro d’ascolto è una donna in età adulta, coniugata, convivente in nucleo familiare, disoccupata.

Questi caratteri confermano quindi le precedenti osservazioni scaturite dall’analisi sulle problematiche.Il 76,4% delle donne italiane conviventi in un nucleo familiare, ha figli. Non è possibile stabilire in modo univoco un legame causa-effetto tra la presenza di figli in una famiglia e l’ingresso in uno stato di povertà della famiglia stessa. È possibile invece affermare che la presenza dei figli in un nucleo familiare non determina un miglioramento delle condizioni di vita o la diminuzione al ricorso ad enti di assistenza privati. Non dobbiamo trascurare quindi la condizione economica e psicologica in cui si trovano a vivere molte donne italiane.Nel 2000 una pubblicazione della Commissione d’indagine sull’esclusione sociale ha affrontato il tema della «povertà delle donne in Italia». Emergeva che in Italia le categorie femminili maggiormente a rischio di povertà sono: 1) le donne sole con figli a carico (madri sole); 2) le donne disoccupate o con un lavoro mal retribuito/precario; 3) le casalinghe dei nuclei familiari con un solo percettore di reddito o dove vi sono grandi carichi di cura (disabili, anziani non autosufficienti); 4) le donne anziane sole.Anche dai dati rilevati dai Cda diocesani si confermerebbero queste categorie femminili. Basta pensare che, sul totale degli italiani che si rivolgono ai Centri:il 10% è rappresentato da donne ultra sessantacinquenni, contro il 6% degli uomini ultra sessantacinquenni;l’11,6% è rappresentato da vedove, rispetto all’1,4% di vedovi;il 7,9% è costituito da donne divorziate, contro il 3,3% dei divorziati; il 16% è costituito da donne separate, contro il 7,8% degli uomini separati;il 31,4% delle donne italiane è disoccupato, rispetto al 16,2% degli uomini italiani.

La percentuale delle donne disoccupate è più alta anche rispetto al 29% delle donne straniere disoccupate. Non è una notevole differenza. Ma se consideriamo tutte le difficoltà che deve superare una donna straniera per trovare un lavoro: conoscenza della lingua, inserimento sociale, permesso di soggiorno, non si può trascurare la situazione occupazionale della donna italiana.

Gli operatori dei Cda non individuano solo problemi economici; molte volte dietro a storie di povertà e di smarrimento, si rendono conto dell’esistenza di veri e propri problemi psicologici e relazionali, come la solitudine.

La Caritas diocesana di Arezzo ha approfondito la questione, intervistando una psicologa che collabora con il Centro aretino e raccogliendo la storia di vita di una ragazza tunisina di 30 anni. Dal racconto si evince quanto può essere facile cadere in un stato ansioso e depressivo, non riuscendo ad integrarsi socialmente e sentendo la lontananza della famiglia d’origine, la mancanza di amicizie, la frenesia della vita quotidiana nella solitudine.Anche la situazione socio-economica degli immigrati quindi non è delle migliori: sia gli uomini che le donne si rivolgono ai Cda per essere aiutati economicamente, richiedendo sussidi a fondo perduto, ma anche semplicemente pacchi viveri e vestiario.

Fino ad ora si è analizzato quella parte di persone che si rivolge ai Cda con una dimora abituale, al di là delle diverse tipologie di convivenza. Ma spesse volte ai Cda bussano persone che sono prive di una dimora adatta e stabile, in precarie condizioni di esistenza: i «senza fissa dimora».

Dai dati forniti dall’Osservatorio regionale, sul totale delle persone che si sono rivolti ai Cda diocesani, il 19,8% è rappresentato dai senza fissa dimora. Il 14,6% è costituito da uomini italiani, rispetto al 60,5% di uomini stranieri. Tra le donne, l’affluenza delle straniere senza fissa dimora è maggiore rispetto alle italiane: 20,6% di straniere, contro il 4,3% di italiane.

I senza fissa dimora, che vivono in situazioni più precarie perché dormono in strada, in stazione o in auto, sono i «senza alloggio». Quest’ultimi rappresentano il 51,4% dei senza fissa dimora che si sono rivolti ai Cda. Fra le sistemazioni d’alloggio utilizzate dal restante 48,6% dei senza fissa dimora prevalgono case di accoglienza, ostelli, case abbandonate (queste ultime sono utilizzate più dagli stranieri che dagli italiani, e rispetto all’universo degli stranieri, più dagli uomini che dalle donne), baracche, roulotte o camper.

Il 51,4% dei «senza alloggio» sul totale dei senza fissa dimora costituisce ancora una percentuale rilevante e rappresenta un dato anomalo rispetto ai dati rilevati in altre città non toscane. I risultati delle indagini, che evidenziano la diminuzione delle persone che dormono in stazione o sulle panchine dei giardini pubblici, spiegano che il senza alloggio (il clochard) stia abbandonando il proprio modo di vivere perché obbligato. Motivi costrittivi, infatti, impediscono al senza alloggio di radicarsi in un territorio, in un contesto stabile: proteggere la propria incolumità fisica contro gli atti teppistici, contro comportamenti di disturbo, di insofferenza, messi in atto dalle «persone normali».

Sempre più stanziali i nomadi «toscani»Nelle conclusioni, il rapporto sulle povertà dedica un approfondimento alla situazione dei nomadi in Toscana. L’Osservatorio regionale della Caritas ha raccolto interviste rivolte a figure professionali di vari ambiti e di varie città toscane, grazie al lavoro puntuale e collaborativo delle Caritas diocesane di Lucca, Firenze e Pisa: un’assistente sociale del Comune di Lucca, un pubblico funzionario del Comune di Firenze, il responsabile del progetto «Città sottili» della Conferenza dei sindaci dell’area pisana. La Caritas di Pistoia ha fornito inoltre la storia di vita di una nomade di 49 anni.

Sul totale delle persone conosciute nel disagio e nella marginalità attraverso il servizio sul territorio dei Centri di ascolto, si registra un’affluenza di nomadi (sinti e rom) dello 0,9%.

In Toscana si osserva un lento ma progressivo cambiamento della comunità nomade, la quale ha rinunciato a cambiare città frequentemente, divenendo stanziale. Negli ultimi anni, infatti, si è assistito ad un costante avvicinamento delle comunità nomadi alla nostra società.

Le pubbliche amministrazioni delle maggiori città toscane interessate dal fenomeno hanno promosso progetti di insediamento e di integrazione dei nomadi nel tessuto sociale cittadino.

Nello sviluppare questi progetti, le amministrazioni pubbliche cercano di superare la logica del «campo», il quale, negli anni, ha creato soltanto degrado e marginalità.Attraverso l’analisi delle interviste, si sono colte alcune difficoltà che possono determinare probabili fallimenti delle strategie di inserimento sociale dei nomadi:

1) il pregiudizio avvertito da parte degli italiani. Un pregiudizio maggiore rispetto a qualsiasi altra cultura;

2) la disunione esistente tra i nomadi che convivono all’interno dello stesso campo. La nomade intervistata racconta che gli affronti fra di loro non vengono facilmente dimenticati e coinvolgono tutta la famiglia e non solo i diretti interessati. «Dall’esterno il campo viene spesso visto come un’unica entità, invece ciascuno di noi ha una propria identità. Un errore spesso fatto dai gagi, che vengono per aiutarci, è di cercare di diventare amico di uno di noi per farsi benvolere da tutto il campo, niente di più sbagliato, così il risultato è che immediatamente ti schieri da una parte, magari senza saperlo»;

3) la mancanza di accoglienza nei confronti di coloro che non appartengono alla stesso clan familiare, nei confronti del «diverso», non solo dei rom che sono di passaggio, che si fermano cioè per periodi più o meno lunghi nel campo, ma anche di un assistente sociale o di un educatore;4) l’incapacità di cambiare radicalmente le proprie abitudini di vita. Passare da un campo nomade ad un appartamento rischia di portare ad un depauperamento rispetto alla risorsa fondamentale per la popolazione nomade rappresentata dai legami con il clan familiare, spesso troppo esteso per poter trovare spazio nella medesima abitazione.

Il Rapporto Mirod 2003 (formato .rtf)

Dalla povertà alle povertà

In Toscana 223 mila poveri