Don Lorenzo Milani
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La testimonianza del card. Piovanelli: «Un compagno esagerato nella povertà»

Parole chiave: don lorenzo milani (30), silvano piovanelli (6)

Per gentile concessione dell'autore, pubblichiamo in anteprima l'intervista rilasciata a Mario Lancisi dal cardinale Silvano Piovanelli e contenuta nel libro «Il segreto di don Milani», edito da Piemme.

Lorenzo Milani entrò in seminario l'8 novembre 1943. Che impressione le suscitò?

«Ricordo intanto che quell'anno furono in tre a entrare come vocazioni adulte, cioè quelli che entravano in seminario per la teologia. Dei tre Lorenzo fu sicuramente quello che si inserì meglio».

Come andava negli studi?

«Si rivelò più avanti di noi. Noi avevamo un metodo liceale: seguivamo un testo e la spiegazione del professore. Lorenzo aveva invece uno stile di ricerca. Ad esempio ricordo che quando si studiò Eucaristia lui non si accontentò del testo adottato dal professore ma andò a cercarne un altro, molto bello, il “De La Taille”. Si faceva attrarre dalle materie che gli piacevano e prediligeva la ricerca personale. In questo ci ha aiutato perché ci ha fatto capire che lo studio è anche ricerca. Inoltre Lorenzo possedeva una grande capacità di sintesi. Le lezioni per esempio le riassumeva in foglietti molto chiari, logici, che utilizzavamo anche noi suoi compagni».

Com'era dal punto di vista umano?

«Simpatico, amabile».

Qualcuno ha detto che in realtà c'era chi lo amava e chi lo odiava.

«Credo che questo giudizio valga più per il dopo che per gli anni del seminario. Certo, Lorenzo aveva una forte personalità e può darsi che qualcuno non legasse troppo con lui, come d'altra parte capita in tutti i gruppi. Noi gli volevamo bene».

Che cosa le è rimasto impresso del Milani seminarista?

«Conservo molti ricordi di lui. Se devo citarne uno, vorrei sottolineare la sua esagerazione, tra virgolette, nelle posizioni che assumeva. Era, si badi bene, esagerato non tanto nei confronti degli altri ma di se stesso. Questo tratto del carattere credo derivasse dalla sua conversione. Lorenzo mi ricorda Edith Stein: ebrea, si converte, diventa suora. Il passaggio dall'ateismo o dall'agnosticismo alla conversione comporta spesso una radicalità di posizione».

In cosa Lorenzo fu «esagerato»?

«Ad esempio nella povertà. Noi in genere eravamo tutti figli di povera gente e poi in quegli anni in seminario si conduceva una vita davvero povera. Lorenzo, che proveniva da una famiglia ricca, accentuò ancora di più la povertà del seminario. Così al posto del letto mise una branda, non volle neppure la libreria ma se ne fece una più modesta con degli assi di legno e non volle neppure le scarpe, che sostituì con dei sandali fatti con i copertoni ritagliati di una motocicletta e tenuti insieme da legacci di cuoio».

Altri ricordi significativi per comprendere la figura di don Milani?

«Ne vorrei citare almeno due. Il primo si riferisce al tempo di guerra quando la gente mangiava pane nero e c'era la carestia. Un giorno Lorenzo, camminando per le strade di San Frediano, un quartiere popolare di Firenze, si mise a mangiare un pezzo di pane bianco, proveniente dalla sua fattoria di Montespertoli. Dalla finestra una donna lo vide e lo sgridò: “Non si mangia il pane dei ricchi nelle strade dei poveri”. L'episodio turbò molto Lorenzo e credo che esso serva a capire meglio anche la sua scelta di povertà. La quale non fu povertà di carattere sociologico, materiale bensì condivisione, mettersi insieme con gli altri, alla pari, mai sopra».

L'altro episodio?

«Quando gli morì il babbo, il rettore lo mandò a casa ma lui la sera, dopo il funerale, tornò in seminario. Noi gli chiedemmo perché non era rimasto qualche giorno dalla mamma e lui rispose: “Ora la mia casa è questa”.

Una volta ordinati sacerdoti ciascuno ha preso la sua strada oppure avete continuato a frequentarvi?

«No, ciascuno di noi, come è anche logico che fosse, ha seguito la sua strada. Però decidemmo di rivederci tutti insieme, una volta all'anno, il 13 luglio, il giorno della nostra ordinazione. Ricordo che Don Milani non partecipava a queste riunioni perché aveva avuto dei contrasti con alcuni dei suoi compagni che avevano criticato “Esperienze pastorali”».

Come fu accolto il libro tra di voi suoi compagni di seminario e più in generale nella diocesi fiorentina?

«Sembrava esagerato, un po' troppo pignolo in certe affermazioni, non facilmente assimilabile, come era un po' il carattere di Lorenzo per cui nasceva il contrasto. Quando non si era d'accordo con lui bisognava litigare perché in questo Lorenzo era di una logicità paurosa, non c'erano le mezze tinte, una cosa o era bianca o era nera».

Ha mai litigato con Lorenzo?

«No, mai».

Dopo l'ordinazione le è capitato di incontrarlo?

«Sì. Una volta sono andato anche a predicare nella sua parrocchia, a San Donato di Calenzano. Mi colpì la cura che metteva nello stare con i ragazzi e nel preparare la catechesi».

È mai stato a Barbiana?

«Una volta insieme ai miei compagni di seminario, nell'ambito di quegli incontri annuali ai quali facevo prima riferimento. Poiché Lorenzo non veniva a questi incontri decidemmo di andare noi da lui».

Come vi accolse?

«In maniera buffa, cioè continuando a fare scuola ai ragazzi. Ci disse: “Salve, accomodatevi” e continuò la lezione. Solo dopo si mise a parlare con noi».

Che impressione suscitò in voi «La lettera ai cappellani militari» e la successiva «Lettera ai giudici»?

«Anche in questo caso la posizione di Lorenzo ci parve rigida ma, nella sostanza, giusta. Quello che magari a noi dispiaceva erano certe sue frasi dure, un po' violente. D'altra parte lo stesso Lorenzo se ne rendeva conto. In una lettera alla mamma scrisse che se non avesse tirato qualche nota stonata non lo avrebbero ascoltato».

È stato difficile essere compagni di Lorenzo?

«Proprio per il carattere che aveva i rapporti personali con lui non furono facili».

Qual è il filo rosso che unisce la figura di Lorenzo, come lei l'ha conosciuta dai tempi del seminario, a quella emersa dopo la sua morte?

«La coerenza. Anche negli aspetti polemici con l'ambiente e con i superiori Lorenzo è stato sempre coerente con i suoi valori, con la sua coscienza».

Da vescovo di Firenze, nel 1986, lei ha fatto visita alla tomba del suo ex compagno di seminario. Una visita non facile, considerato un certo clima di diffidenza che si continuava a respirare in quegli anni nei confronti del priore di Barbiana. Quale fu il significato del suo gesto?

«In Lorenzo io ho sempre distinto quella che era la sua linea di fondo – la fede, la dedizione ai poveri, la coerenza ecc. – e certi modi di vivere e presentare agli altri i valori in cui credeva».

Quali messaggi di don Milani lei considera più importanti e attuali, soprattutto per i giovani?

«Intanto quello dell'interezza, cioè di essere se stessi, di non fare compromessi con i propri ideali. Poi il messaggio che la vita deve essere dedicata alla liberazione degli altri. Nell'aiutare gli altri a liberarsi, uno poi libera anche se stesso. Infine don Milani ci ha insegnato a non sciupare la propria vita in cose superficiali e secondarie, ma a impiegare ogni energia e tutto il proprio tempo per aiutare gli altri a essere pienamente se stessi, salvando la propria vita dalla mediocrità. Per don Milani è importante non svendere la propria vita».

Infine quale messaggio per la Chiesa?

«La scelta di strade le quali non siano tortuose ma vadano subito al cuore del problema. La polemica sua, anche con i preti vicini alla parrocchia, era questa: ma perché perdete tempo con i ragazzi facendoli giocare al pallone o al biliardo? Cercate piuttosto di interessarli ai valori che contano, diceva».

La testimonianza del card. Piovanelli: «Un compagno esagerato nella povertà»
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