Quel «cavallo di razza» di nome Amintore Fanfani
Cent'anni fa, il 6 febbraio 1908, a Pieve Santo Stefano, in provincia di Arezzo, nasceva Amintore Fanfani, morto a Roma il 20 novembre 1999.
di Romanello Cantini
Amintore Fanfani ed Aldo Moro. Con una definizione famosa Donat Cattin li aveva chiamati «i due cavalli di razza». Eppure oggi il primo sembra particolarmente dimenticato. Addirittura il Dizionario storico del movimento cattolico in Italia pubblicato da Marietti omette fra centinaia di voci anche insignificanti il nome di Fanfani. Ma Fanfani, perfino come studioso emerge fra i non pochi esponenti democristiani che pure provenivano dall'Università. A ventotto anni era già professore alla Cattolica e a ventisei anni aveva già scritto quel Cattolicesimo e protestantesimo nella formazione storica del capitalismo, che negli anni Cinquanta era già entrato nei seminari universitari, accanto alle opere Classiche del Weber e del Sombart sulle origini del capitalismo. Già come ministro dell'Agricoltura, del Lavoro e dei Lavori pubblici nei governi De Gasperi lasciò il segno dovunque andava. Se oggi tu attraversi le crete senesi il vecchio amico può dirti: «Quelli sono i laghetti collinari di Fanfani». E in ogni paese c'è un angolo, quasi un quartiere, chiamato «Case Fanfani» come monumento di un periodo in cui lo stato fece costruire più case popolari che in nessun altro periodo della storia repubblicana. Negli anni Cinquanta la Democrazia cristiana si identifica con Fanfani. Ci fu anzi un periodo, nel 1958, in cui Fanfani era tutto: segretario del partito, presidente del Consiglio e ministro degli Esteri. Risalgono a quel periodo le ironie sul suo decisionismo efficientistico e sul suo presunto autoritarismo. Una leggenda metropolitana ripresa da quasi tutti i suoi biografi racconta che nel suo ufficio all'Eur chiamasse il vicesegretario Rumor con il campanello. Faceva sorridere il suo parlare di sé in terza persona come se si trattasse di Giulio Cesare nel De Bello Gallico.
Eppure, dopo aver assunto l'eredità di Dossetti che aveva scelto il sacerdozio ed essersi impadronito del partito al congresso di Napoli del 1954, Fanfani fu colui che creò davvero la Democrazia Cristiana come partito organizzato , presente nella società e autonomo dai gruppi di pressione privati. De Gasperi, tutto sommerso nei problemi del governo, aveva delegato la fatica della ricerca del consenso ai Comitati Civici e non sapeva mai nemmeno con precisione quanti iscritti avesse la Dc.
Fanfani aveva grande orgoglio, ma anche grande dignità. Fu uno degli ultimi democristiani a conoscere e a praticare l'istituto delle dimissioni. Per questo suo andarsene e ritornare Montanelli lo definì il «rieccolo». Voleva essere una presa in giro per chi usciva ed entrava ed era invece inconsapevolmente un'accusa per chi invece non mancava mai.
Quando nel 1959, dopo aver cercato di dar vita al primo «centro sinistra pulito» ed essere stato impallinato dai franchi tiratori del suo partito, si dimise da tutti gli incarichi, il suo gesto provocò nel partito un dibattito di massa profondo ed appassionato sezione per sezione che, fra parentesi, i partiti di oggi si sognano. Fu quella forse la prima e l'ultima volta che nel partito regnò una vera e propria democrazia interna intorno a scelte vere con un grado di partecipazione altissimo e l'emozione orgogliosa di decidere anche per il coltivatore diretto. Non è un caso che la forza delle varie correnti che si misurò al congresso del Teatro della Pergola nel 1959 rimase poi sostanzialmente invariata fino alla fine della Dc quando ormai le correnti erano diventate affiliazioni ossificate in gran parte per gestire il potere.
Il primo governo di centrosinistra presieduto da Fanfani dal 1962 al 1963 fece in due anni più riforme di quelle che non ne fece il governo Moro nella legislatura successiva: dalla nazionalizzazione dell'energia elettrica alla istituzione della scuola media unica con la minaccia della riforma urbanistica.
Per questo suo eccessivo «sinistrismo» Fanfani fu messo da parte e successivamente fatto segno ad una campagna che riuscì ad impallinarlo come uomo di destra nella battaglia presidenziale del 1971 e successivamente nella gestione della battaglia sul referendum sul divorzio nel 1974.
Eppure Fanfani era il referente istituzionale fisso di La Pira che gli scriveva quasi un giorno sì e un giorno no. Fu a Fanfani presidente dell'Onu che la Pira si rivolse nel novembre 1965, dopo il suo famoso viaggio ad Hanoi, perché riprendesse con gli americani il discorso sugli spiragli di pace che aveva intravisto.
E fu attraverso Fanfani che La Pira tornò a capeggiare la lista della Dc nel collegio Firenze Pistoia nel 1976, un anno prima di morire.
Fanfani sembra che se ne sia andato dalla storia della Dc negli ultimi anni in punta di piedi. E non tanto per ragioni anagrafiche (in pista si sono visti e si vedono ben altri vegliardi in scarpe da tennis). Ma perché nella stagione di Mani Pulite di quasi tutti si poté parlare fuorché di lui come se il «terribile aretino» fosse foderato di una pelle repellente agli scandali. Solo a lui come ministro degli interni non furono concessi i fondi del Sisde distribuiti con puntualità da ventisette a predecessori e successori. Solo a lui come presidente del consiglio non fu rivelata l'esistenza di «Gladio». In quaranta anni di attività politica, passando per tutti i posti di potere possibili e immaginabili, la giustizia non si è mai interessata di lui nemmeno per assolverlo e per dirgli alla fine che era innocente. Fino alla fine il nostro personaggio toscano che oggi avrebbe cento anni è rimasto in fondo il professore universitario, divertentissimo in privato e burbero in pubblico, esigente e coerente che a Milano tirava fuori da un cassetto chiuso a chiave il libretto universitario del fratello Amelio e glielo consegnava perché lo riportasse prima di notte con un buon voto pena il taglio dei viveri.
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