Terra Santa
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Dal n. 27 del 13 luglio 2003

Islam e Israele, tre condizioni per la convivenza pacifica

di Franco Cardini
Un tempo, gli storici seguivano un'aurea regola: non impicciarsi mai di cose relative alla politica. Il che vuol dire che solo gli storici contemporaneisti scrivevano di politica o comunque di attualità sui quotidiani, mentre tutti gli altri potevano concedersi al massimo qualche rara incursione nelle gloriose «Terze Pagine».

Tale lodevole e prudente costume è stato abbandonato da circa un quarto di secolo e ha comportato come conseguenza il fatto che uno storico, il quale autorevolmente (e talora pretenziosamente) entra in una polemica – relativa magari a cose rispetto alle quali egli ha pur una qualche competenza obiettiva –, lascia cadere il suo illuminato parere credendo che tutti gli faranno tanto di cappello e scopre poi con disappunto di essere considerato come una voce tra le tante e trattato magari a suon di sberleffi e contumelie. Non sempre necessariamente immeritate, del resto.

È quanto a me è successo da alcuni anni. In un piccolo saggio di qualche anno fa, Noi e l'Islam, e in un libro più recente, Europa e Islam (entrambi usciti presso l'editore Laterza), mi è capitato di esprimere un parere del tutto indipendente e obiettivamente opposto a quello di Samuel P.Huntington, il quale notoriamente parla di un contrasto fra Europa (e Occidente: sono sinonimi?) e Islam che dura ormai da quattordici secoli. Al contrario io, avvalendomi di una competenza invero soprattutto medievistico, ho maturato l'opinione che la cultura europea e quella islamica siano semmai complementari e che il loro contrasto, espresso in forme politiche e militari, sia sempre stato tutto sommato episodico e superficiale, mentre duraturi e profondi siano stati al contrario i rapporti economici, commerciali, culturali, diplomatici.

Convinzione profonda
Ho creduto naturale esprimere anche a livello massmediale questa convinzione, che credo matura e profonda per i secoli fra VIII e XV ma che ho mantenuto anche accostandomi più da vicino (come ho fatto negli ultimi anni) alle età moderna e contemporanea: e mi sono trovato coinvolto in molte e pesanti polemiche – alcune delle quali mi hanno divertito, altre irritato e maldisposto – con personalità politiche e con opinion makers.

Non è stato senza rapporti con queste polemiche se qualche mese fa ho curato l'edizione di un libro a più voci, La paura e l'arroganza (ancora Laterza), dove addirittura si esprimono dubbi su quanto accaduto negli Stati Uniti l'11 settembre 2001, s'insiste sull'inopportunità dell'azione militare in Afghanistan come misura adatta a combattere il terrorismo internazionale, si sostiene che la difesa della pace e della democrazia costituisca ai giorni nostri (ma non solo...) un pretesto per legittimare la politica estera «imperiale» statunitense e si osteggia con decisione il parere – non certo universale però alquanto diffuso – che fondamentalismo e terrorismo «Islamici» sarebbero intimamente legati con la natura guerriera e addirittura violenta dell'Islam in quanto tale.

Vi direte che con premesse e posizioni di questo genere uno non può meravigliarsi se poi gli danno del filoislamico e dell'antiamericano: e magari, poiché tali sono ritenuti ingredienti naturali dell'antisionismo, anche di nemico dello stato d'Israele. Col che, non siamo ancora all'accusa di antisemitismo: ma ci si va vicino.

Sono consapevole di tutto ciò. E, dal momento che amo la cultura musulmana ma so bene come la «galassia» del mondo islamico d'oggi (della quale sostengo la varietà e l'irriducibilità a un solo modello) si discosti dallo splendore dell'Islam «classico»; e non mi sento affatto né antiamericano né antisraeliano – al contrario! –, credo che le polemiche siano in fondo state salutari. Perché mi hanno fatto pensare; mi hanno aiutato a individuare alcuni miei errori d'impostazione; insomma, mi hanno indotto a rimettermi in discussione. Che è sempre bene per uno studioso; e, anche se ci vuole del coraggio, è necessario se si tiene alla propria onestà intellettuale.

Il processo di globalizzazione
Credo di poter quindi esprimere adesso un parere abbastanza chiaro sul mondo contemporaneo. Sul processo di globalizzazione, che dev'essere gestito e governato: perché ha apportato all'umanità benefici che vanno tuttavia condivisi con chi per il momento non ne ha goduto; perché ha in sé anche componenti pericolose, quelle che potrebbero condurre ad ampliare il divario fra i ricchi e i poveri e a mettere a serio rischio l'equilibrio ambientale del pianeta. Sugli Stati Uniti, che nonostante le loro molte interne contraddizioni restano un paese nella civiltà del quale tutto il nostro Occidente non può non riconoscersi (anche senza totalmente identificarsi con essa); ma al cui interno esistono spinte ed istanze «imperiali» che non possono essere portate avanti sotto l'alibi dell'interesse comune dell'umanità; e che, come sostiene Joseph S.Nye jr. in Il paradosso del potere americano, non possono agire da soli perché la loro strapotenza non è riuscita a risolvere problemi come il terrorismo, il proliferare delle armi di distruzione di massa, il degrado ambientale (anzi, talora sono state proprio le loro scelte ad aggravare questi problemi). Sull'Islam, che a sua volta è una fede in crisi come tutte le fedi religiose nel XXI secolo, ma che oggi potrebbe pretestuosamente divenire la bandiera di molti diseredati della terra opportunamente manipolati da criminali politici senza scrupoli come sono i leaders del terrorismo internazionale.

Proprio questo rischio porta in primo piano, oggi, la questione israeliano-palestinese: ch'è necessario risolvere, e non sarà possibile farlo se statunitensi e israeliani non capiranno che la sua soluzione passa attraverso la mediazione internazionale. Il fallimento del nazionalismo arabo, fra Anni sessanta e Anni settanta, ha avuto come effetto la crescita anche in Palestina del fondamentalismo, considerato l'unica forza in grado di far sì che i musulmani ridiventino padroni del loro destino fronteggiando un Occidente che li odia e che favorisce sistematicamente Israele. Il che non è vero: ma lo sembra, visto dalla prospettiva arabo-musulmana.

Finché la questione palestinese era una questione «nazionale» araba, il fondamentalismo islamico se ne teneva in parte fuori; al tempo stesso, esisteva anche una forte opinione pubblica palestinese cristiana. Ma ormai, dalla guerra del Kippur in poi, l'opinione pubblica «nazionale» palestinese è stata umiliata e azzerata, e di conseguenza gli arabi cristiani vi hanno perduto ogni influenza. La questione della libertà palestinese è ormai considerata connessa con la grande battaglia per la rivincita dell'Islam nel mondo.

La causa palestinese
L'islamizzazione della causa palestinese rappresenta un serio pericolo per l'equilibrio vicino-orientale e per tutti. Essa collega pericolosamente tale causa al diffondersi del germe patogeno terrorista. Per batterlo, è necessario che Israele capisca che l'occupazione del territorio palestinese deve cessare, che gli insediamenti abusivi dei coloni debbono venire smantellati, che chi ha perduto le case e la terra dev'essere dignitosamente risarcito, che le risoluzioni dell'Onu vanno magari negoziate di nuovo, ma osservate: e che l'averle disattese con l'appoggio statunitense è stato un male per tutti.
Per questo gli Usa debbono rifiutare il loro appoggio agli oltranzisti della destra israeliana, anche se questo rischia di creare un contraccolpo nella politica interna statunitense data la presenza in quel paese di potenti lobbies ebraiche disposte ad appoggiare sempre e comunque, unilateralmente, quella destra. Per questo si deve capire che la funzione di gruppi come Hamas e Jihad, nella realtà palestinese d'oggi, è unicamente quella di sabotare la pace: che gli attentati suicidi e omicidi in Israele nascono da quella folle e aberrante ma lucida logica; che governo israeliano e autority palestinese debbono assolutamente collaborare con lealtà nella lotta contro il terrorismo.
Al di là degli errori da parte israeliana (addossare ad Arafat la responsabilità del terrorismo, difendere gli insediamenti dei coloni e battere la strada delle rappresaglie), da parte palestinese (atteggiamento ambiguo nei confronti delle forze che favoriscono il terrorismo) e da parte americana (giocar da soli il ruolo del mediatore), è necessario per gli Stati Uniti risolvere la questione palestinese e impedire con ogni mezzo politico e diplomatico che qualunque causa della quale sia protagonista un paese o una forza politica musulmana si saldi con quella dei terroristi. Fino ad oggi, questo obiettivo non è stato perseguito: forse non è stato neppure individuato con chiarezza.

Nel Vicino Oriente e forse in tutto il mondo la pace resta appesa a un filo. Vi sono tre condizioni per restaurarla. Primo, che i governi statunitense e israeliano s'impegnino a una soluzione dignitosa del problema palestinese a costo di far fare un passo indietro alla società israeliana sul piano territoriale (la questione dei coloni), ben sapendo che questo costerà loro un duro scontro con gli ambiente israeliani ed ebraici della diaspora più oltranzisti (e alcuni di essi, negli Usa, sono politicamente, finanziariamente, massmedialmente potenti). Secondo, che l'autority palestinese dismetta ogni complicità anche solo passiva con i terroristi, anche se questo le costerà una forte in popolarità in vasti ambienti del popolo che essa rappresenta. Terzo, che l'indipendenza palestinese e quindi la fondazione di uno stato palestinese sovrano si attuino al più presto, accompagnate da un onorevole (e realisticamente concordato) risarcimento per i palestinesi che dal '48 in poi hanno sofferto ogni sorta di violenza contro le persone, i beni, la terra: persuadiamoci che questa è anche l'unica condizione per la sicurezza d'Israele.

Israeliani e Palestinesi: le radici dell'odio

Islam e Israele, tre condizioni per la convivenza pacifica
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