Dossier

Toscana a tavola: tipica e gustosa

di Marco LapiLeonardo Romanelli, enogastronomo, responsabile regionale della comunicazione per Slow Food toscano e fiduciario della condotta di Firenze, non ha dubbi. «Sulla tipicità – afferma – si rischiano molti malintesi. Invece è bene precisare che per tipico s’intende un prodotto che in una determinata zona riceve, dalle condizioni ambientali e attraverso una lavorazione studiata negli anni tali, una sorta di “unicità” nel risultato finale». È il primo, fondamentale argomento che affrontiamo nel corso di una lunga chiacchierata, che finirà per spaziare sulle singole tipologie di prodotti.

Quindi non è detto che un prodotto tipico sia per forza molto vecchio, o tradizionale…

«Infatti. In realtà oggi si può parlare di tipicità anche su produzioni relativamente giovani. Il “tipico” si può creare anche da zero quando si scoprono, per un prodotto in una determinata zona, potenzialità cui nessuno aveva pensato».

Qualche esempio?

«A parte i nuovi vini, e in particolare i supertuscan, uno secondo me molto evidente è legato al formaggio, che in Toscana è stato finora praticamente sinonimo di pecorino. Oggi invece nella zona del Chianti dei giovani hanno iniziato a fare una produzione di caprini di vario tipo, stagionati o erborinati, rispettando tutti i criteri del caso: animali allevati nella maniera giusta, lavorazioni professionalmente valide e via dicendo. Ed ecco che si arriva ad avere quindi un prodotto buono, che si può veramente chiamare tipico anche se in realtà è senza una tradizione. L’importante è la trasparenza della filiera produttiva. Tutt’un’altra cosa, ad esempio, rispetto agli olii aromatizzati spacciati per tipici ai turisti quando in realtà non solo non sono tipici, ma, come per quello al tartufo, sono addirittura prodotti sintetici».

Parola d’ordine, dunque, la trasparenza…

«Il termine più corretto è tracciabilità. E la regola fondamentale per un turista enogastronomico è appunto il poter capire, in un dato luogo, perché si fa quel prodotto, come nasce, come si trasforma e come si arriva al risultato finale».

I prodotti tipici, o almeno quelli di nicchia, conviene quindi andarli a cercare là dove nascono?

«In linea di massima sì, c’è maggior garanzia di evitare falsificazioni e per di più si contribuisce alla valorizzazione del luogo di produzione stesso. Ma ancor più è da rispettare la stagionalità. Inutile pretendere, ad esempio, di mangiare una buona ribollita d’agosto, dato che il cavolo nero, ingrediente indispensabile, è un prodotto tipicamente invernale.Eppure ci sono un sacco di ristoranti che la propongono. Tradizionalmente, in estate, si passava invece alla panzanella o alla pappa fatta col pomodoro fresco».

La tradizione, comunque, non scompare, anzi…

«No, resta importantissima, ma non deve impedire di sperimentare strade nuove. Tanto per fare un esempio legato al vino, una zona famosa come San Gimignano sta ora faticosamente cercando di risalire la china avendo capito che la Vernaccia non bastava più, visto che è il rosso a dare maggior risalto a livello internazionale. Quindi occorre esser capaci di capire le potenzialità di un luogo, e non semplicemente continuare a fare come si è fatto in passato. In fondo anche il mitico Brunello ha poco più di cento anni e si può dire sia diventato un fenomeno solo nel dopoguerra».

Ma perché «conviene» riscoprire la tipicità dei prodotti?

«Il fatto è che oggi mangiamo in modo sempre più massificato, e ci facciamo più problemi per acquistare un buon olio extravergine che non un litro d’olio per la nostra automobile. Si deve avere sempre di più a minor prezzo, poi magari ci meravigliamo per fenomeni come quello della mucca pazza. C’è certamente anche il piacere del gusto e della naturalità, ma riscoprire i buoni prodotti è decisamente anche salutare».

Slow Food contribuisce a questo anche con i Presidi…

«Sì, tutto nasce nel 1996 con l’“Arca del gusto”, che nacque proprio da quest’idea: i prodotti ci sono, vanno salvaguardati, non va fatto assistenzialismo e va ricreata però una condizione di mercato nella quale possano esser pagati quella cifra giusta che permetterà poi a chi lo produce di avere tutte le carte in regola per poter ottenere un reddito e continuare. Il fagiolo zolfino oggi è sicuramente a prezzi alti, però è il primo esempio nel quale si vede come una cifra giusta applicata al prezzo di un legume abbia permesso di far rinascere una coltura che stava scomparendo. Il concetto del Presidio italiano è nato proprio così, e oggi la Toscana è la regione italiana con il maggior numero di Presidi dopo la Sicilia. Ed è innovativo perché non parte dall’idea assistenzialista di dar soldi a chi ha bisogno, ma da quella di restituire alle persone la capacità di poter continuare a fare quello che fanno. Una volta identificato un prodotto da salvare, c’è un colloquio con i produttori e, valutate le potenzialità della zona si chiede loro di unirsi in associazione. A livello nazionale, Slow Food s’impegna quindi a creare i presupposti di valorizzazione del prodotto attraverso una partecipazione alle sue iniziative e aiutando gli stessi produttori di creare propri canali commerciali. Il tutto nel rispetto di un disciplinare sottoposto a continua verifica».

E le forme di tutela a livello europeo?

«Sono due, la Dop (Denominazione di origine protetta) e l’Igp (Indicazione geografica protetta). Prevedono purtroppo un iter molto lungo, ma certo contribuiscono, assieme ai Presidi, a tutelare la genuinità dei prodotti difendendoli dalle imitazioni che interessano almeno quelle più famosi. Come, appunto, i fagioli zolfini e il lardo di Colonnata. Ma tornando a Slow Food, vorrei aggiungere che la nostra opera va anche nella direzione di una nuova educazione al gusto, che, attraverso le nostre iniziative, arriva anche a interessare i bambini delle scuole. Perché manca ormai quella conoscenza che un tempo veniva tramandata di padre in figlio e che ormai il consumismo ha spazzato via, ed è proprio questa a dover essere ricreata».

Arsia, ben quattrocento schedesulle specialità di casa nostraOrmai i prodotti censiti sono circa 400, ed è in corso di ristampa la pubblicazione che li riguarda e che conterrà anche gli aggiornamenti del 2003. Il lavoro compiuto dall’Arsia, l’Azienda regionale per lo sviluppo e l’innovazione nel settore agricolo-forestale, è stato veramente enorme ma ha consentito di creare una banca dati davvero eccezionale anche per i suoi risvolti culturali oltre che pratici.

«Tutto – racconta l’amministratore Maria Grazia Mammuccini – nacque verso la metà degli anni ’90, come supporto ai produttori e ai relativi territori in merito alle domande di riconoscimento per Dop e Igp. In seguito, come contributo alla realizzazione dell’Atlante dei prodotti italiani, sorse la necessità di mappare tutti i prodotti tradizionali della regione. Un lavoro che è durato due anni e che ha visto la partecipazione di tecnici, personale universitario, fiduciari Slow Food e via dicendo. La prima fase ci ha portato a censire ben 310 prodotti tipici, numero che ha consentito alla Toscana di essere la prima regione dell’Atlante. Ma, più che altro, ci siamo resi conto delle grandi potenzialità che questo lavoro aveva nell’ottica del loro rilancio».

Il lavoro dell’Arsia – che, tra l’altro, è anche servito come base per chiedere le necessarie deroghe in merito a tipologie prodottive non previste dalle normative europee – ha innestato così un circolo virtuoso che ha comportato anche la progressiva riscoperta del territorio e delle tradizioni rurali. «Ma – continua l’amministratore – c’è anche un punto critico: dato che la rinnovata affermazione di questi prodotti, che in certi casi va oltre gli stessi confini della Toscana, non sempre è coperta dalla produzione reale, c’è il rischio che si stimolino prodotti d’imitazione».

Denomincazione di origine protetta e Indicazione geografica protetta, ovvero Dop e Igp, sono assieme ai Presidi Slow Food gli strumenti adeguati per salvaguardare e garantire quei prodotti che possono avere più sviluppo. «Certo – precisa Maria Grazia Mammuccini – non è che tutti e 400 possono essere tutelati alla stessa maniera: alcuni potranno essere reperiti soltanto andando sul territorio». Come, in fondo, è anche giusto che sia.

Le premesse di un’ulteriore crescita produttiva comunque ci son tutte: da cinque anni, del resto, i dati dell’agricoltura toscana sono positivi sia in generale che anche in termini occupazionali, e questo vuol pur dire qualcosa. Per non parlare delle grandi potenzialità che continua ad offrire l’agriturismo, anche a riguardo della promozione del «tipico».

Occorrerà comunque fare ancora tanti passi avanti nella riscoperta dei prodotti, anche da parte di certi addetti ai lavori. «Ad esempio non capisco – s’infervora l’amministratore dell’Arsia – perché, con tutti gli extravergine che abbiamo, troviamo spesso nei nostri ristoranti bottiglie d’olio anonime, prive di etichetta».

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