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30 anni fa Tangentopoli, Paolo Brosio ricorda la rivoluzione nella politica

Oggi, sono passati trent’anni dal 17 febbraio 1992. Quel giorno Antonio Di Pietro, giovane magistrato del pool «Mani pulite», fece arrestare Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio, colto in flagranza di reato, mentre si era appena intascato una tangente di «soli» 7 milioni di vecchie lire da una ditta di pulizia monzese, che si comprava in quel modo un appalto. Nessuno si sarebbe aspettato il terremoto politico che avrebbe scatenato. Tra i testimoni che hanno seguito e raccontato quel periodo c’è Paolo Brosio, allora inviato del Tg4 diretto da Emilio Fede. «Ero appena arrivato in Austria – racconta Brosio – dove a Insbruck si stava esaminando l’uomo del Similaun, la mummia risalente all’età del rame rinvenuta in Trentino quando mi arrivò la chiamata del direttore che mi chiedeva di rientrare immediatamente per seguire questo arresto. E subito mi disse: preparati perché dovrai seguirla per diverse settimane. Le settimane diventarano mesi e poi anni». Memorabili i collegamenti del cronista davanti al Palazzo di giustizia milanese in collegamento con lo studio del tg: «Sono stato tra i pochi giornalisti ad aver seguito interamente Tangentopoli».

L’attacco dei giudici era diretto al sistema di corruzione e finanziamento illecito che coinvolgeva i vertici del mondo politico ed economico. Chiesa confessò infatti di far parte di un sistema di corruzione che incassava tangenti o bustarelle su tutti gli appalti pubblici. Le sue dichiarazioni ai magistrati fecero emergere i modi di una prassi consolidata nel sistema politico. In quegli anni la corruzione non era solo un modo attraverso il quale politici e funzionari si arricchivano individualmente, ma era soprattutto lo strumento con cui la politica stessa si autofinanziava. L’indagine del pool di magistrati individuava regole di spartizione dei fondi illeciti decise dalle segreterie nazionali dei partiti. Tra il maggio e il luglio del 1992 si effettuarono centinaia di arresti in tutto il Paese. Le confessioni di politici e imprenditori coinvolgevano tutti i partiti e le principali aziende, da Fiat a Ferruzzi. «Tremavamo tutti – sottolinea Brosio -: ministri, parlamentari, industriali, ma anche magistrati e militari importanti. Nessuna categoria sembrava più intoccabile. Lavoravamo notte e giorno per star dietro alle indagini dei magistrati». Di Pietro, Davigo, Borrelli, Colombo… «Tutti diversi tra loro – aggiunge -, sia caratterialmente che culturalmente, ma uniti dall’obiettivo comune. Ci depistavano per non essere seguiti, gli interrogatori non si sapeva dove venivano fatti: talvolta nelle carceri, altre volte nelle caserme della polizia, dei carabinieri, della guardia di finanza».

C’era l’illusione della fine della corruzione e degli intrighi, l’illusione secondo cui i magistrati erano i vendicatori della società civile contro una politica marcia. A costruire quest’immagine condivisa furono anche la carta stampata e le televisioni. «I magistrati presero il sopravvento – aggiunge – sostenuti anche dall’opinione pubblica che sperava attraverso Mani pulite di estirpare la corruzione dalla politica. E noi raccontavamo quotidianamente gli sviluppi. Emblematico il lancio di monetine addosso a Bettino Craxi all’uscita dall’Hotel Raphael a Roma che l’oramai ex segretario del Psi utilizzava come base».

I magistrati andarono forse oltre al loro potere? Fare un bilancio complessivo è forse impossibile, andrebbero discussi i singoli casi. «Molti reati erano stati veramente commessi e andavano perseguiti», sottolinea Brosio. Un tema molto dibattuto è stato quello relativo all’uso eccessivo della carcerazione preventiva. «Ci furono molti arresti, non raramente, finalizzati a dichiarazioni accusatorie degli indagati. Finché non parlavi non uscivi», racconta il giornalista.

Le indagini si portarono dietro anche una dolorosa catena di suicidi. Il primo fu il deputato socialista Sergio Moroni che, accusato di aver incassato tangenti, si suicida nel settembre 1992, dopo aver inviato una lettera al presidente della Camera dei deputati, dichiarando di aver agito per conto del suo partito. Poi Gabriele Cagliari, ex presidente dell’Eni, che si suicidò il 20 luglio 1993 nel carcere milanese di San Vittore, dove era detenuto dal 9 marzo. Tre giorni dopo fu Raul Gardini, «numero uno» del gruppo Ferruzzi-Montedison, a suicidarsi nella casa milanese dopo l’avvio delle indagini sul suo conto.

Le sole indagini condotte dal pool Mani pulite fecero finire sotto inchiesta 4.520 persone. E a causa di Tangentopoli scomparirono due grandi partiti: la Dc e il Psi. In questo scenario il Partito comunista italiano fu il solo che, trasformandosi, riuscì a sopravvivere. Nonostante l’arresto di Primo Greganti, il cassiere del Pci-Pds. «Rifiutò qualsiasi collaborazione con i magistrati del pool – sottolinea il giornalista – non rivelando nulla, malgrado i ripetuti interrogatori a cui fu sottoposto e i 6 mesi di carcerazione preventiva».

La fase cruciale dell’inchiesta finì con le dimissioni di Antonio Di Pietro, che lasciò la magistratura nel dicembre 1994 per una vicenda di prestiti non dichiarati. «Il vento all’improvviso cambiò, l’Italia era sul baratro economico e l’opinione pubblica smise di sostenere i pm», aggiunge Brosio che poi conclude con un’analogia con i nostri giorni: «L’emergenza di Tangentopoli assomiglia a quella pandemica del Covid-19: allora tutti pendevano dalle labbra dei magistrati, oggi tutti dalle diagnosi dei medici».