Italia

A Pietralata dopo la visita del Papa

Ha ancora la luce negli occhi e quell’espressione di gioia sul viso che non riesce ad andare via. Marco viene dall’Ecuador. Non fa che ripetere: «È stata una cosa incredibile». Domenica Papa Francesco, prima di celebrare la Messa nella parrocchia romana di san Michele Arcangelo, ha fatto deviare il percorso, è sceso dalla macchina ed ha aperto il cancello di ferro, qui al numero 155 proprio dove da anni vive questo signore. Siamo nel «campo Arcobaleno», sotto un cavalcavia di Pietralata, periferia est di Roma. «Avevo organizzato una festa per sostenere una nostra amica malata di cancro – racconta Marco -. Quando all’improvviso, dal cancello, è apparso Papa Francesco. È entrato ed ha cominciato a salutarci mentre via via tutti ci siamo riuniti attorno a lui. Potevamo parlare in spagnolo. Poi insieme, abbiamo recitato il Padre Nostro, e alla fine ci ha dato la sua benedizione. La cosa più bella che ci poteva lasciare. Il Papa ha riempito di felicità questa umile casa e la sua presenza tra noi rimarrà come una luce per tutta la vita. Incredibile. È stato incredibile».

Dei colori arcobaleno il campo di Pietralata ha davvero poco: si tratta piuttosto di un insieme di baracche, costruite in cemento grezzo e lamine di ferro. Fa freddo, è umido. Gabriel, eritreo, che fa da accompagnatore, ha l’influenza. I bagni – dice – sono in comune e l’unica doccia è completamente all’agghiaccio, senza porte né riscaldamento. È già tanto che qui arrivi l’acqua potabile. Ma l’elettricità no, e la sera è completamente buio e se piove, le stradine diventano fiumi di acqua e di fango. Eppure, nonostante povertà e degrado, questo posto ha un suo ordine e una sua dignità. È il silenzio che ti accoglie e ti avvolge. Qui trovano casa attualmente una settantina di persone.

L’estate, con i flussi da Lampedusa, il loro numero può aumentare fino a 200: e allora il campo si popola di donne, giovani e bambini. Alti muri di cemento lo dividono in tre settori ben definiti: in una parte (la più curata e ordinata) vivono i sudamericani; nell’altra i rifugiati politici (soprattutto eritrei ed etiopi in fuga dalla guerra); nella terza vive la «gente dell’Est», in maggioranza ucraini e moldavi. Per molti, il campo romano è solo la tappa di una lunga migrazione che da terre lontane devastate da conflitti e disperazione, conducono verso l’Europa del Nord dove spesso si trovano parenti e amici. Sanno che in Italia, c’è poco futuro e poca speranza. Per questo motivo il campo si popola soprattutto nella bella stagione.

Ma il traffico migratorio non è affidato al caso: segue regole molto precise, perché sono gestite da organizzazioni sotterranee e mafiose che della migrazione hanno fatto una fortuna. Tutti lo sanno. Tutti sanno che la vicina stazione di Tiburtina diventa d’estate «un centro di smistamento», quella «terra di mezzo» in cui questi uomini e le loro donne e addirittura i loro bambini diventano merci preziose di scambio. Tutti sanno che fine hanno fatto i soldi stanziati per ristrutturare i bagni che ristrutturati non lo sono stati mai. Perché tutti sanno «che due più due fa quattro» e che «queste cose succedono quando non c’è dialogo tra le istituzioni». Tutti sanno che questi luoghi sono sì «tenuti sotto controllo» da forze dell’ordine e prefettura, ma rimangono pur sempre abbandonati a se stessi.

Don Mario Maggioni è parroco della parrocchia di Santa Maria del Soccorso. La sua chiesa si affaccia lungo via di Pietralata, a 200 metri appena dal Campo di rifugio. Domenica don Mario era con Papa Francesco. Ma è restio a parlarne perché sono stati giorni terribili di boom mediatico e orde di giornalisti. Tra le mura di questa parrocchia le braccia aperte ai poveri sono una quotidianità che non ha bisogno delle telecamere. Soprattutto d’estate quando in accordo con la prefettura, nei mesi di luglio e agosto, vengono distribuiti pasti caldi mentre le parrocchie circostanti offrono per tutto l’anno servizi di doccia.

Eccola la Chiesa di Papa Francesco che non fa rumore. La stessa che Bergoglio ha lasciato a Buenos Aires nelle villas miserias. La stessa che vive nel cuore di Roma. «La Chiesa in uscita – dice don Mario – è una Chiesa che si rifiuta di rimanere chiusa in se stessa, tra gente amorfa e autoreferenziale. Sceglie di mettersi in ascolto della vita reale delle persone e di respirare con quello che succede all’esterno». E aggiunge: «Chi è il povero? Sicuramente non è colui che ha bisogno del nostro aiuto. È facile fare qualcosa per gli altri. Più difficile decidere di rimanere in mezzo, creare un’amicizia. Il povero mette a nudo ciò che realmente siamo, privandoci delle nostre difese e dei nostri schemi. È un appello alla nostra conversione perché è facile essere buoni con le parole. Più difficile esserlo con il cuore. Il povero non lo inserisci in un calendario pieno di appuntamenti e attività. Magari questo ci spiazza come sacerdoti, ci rende forse più fragili, ma sicuramente più veri».