Italia

Anziani: Italia Longeva, assistenza domiciliare ancora carente e con forti disomogeneità territoriali

«In Italia l’assistenza domiciliare agli anziani continua ad essere sottodimensionata rispetto ai bisogni di una popolazione che invecchia, con un carico crescente di cronicità, disabilità e non autosufficienza». Nel 2030, si stima saranno 8 milioni gli anziani con almeno una malattia cronica grave, di questi 5 milioni saranno disabili. Eppure, ad oggi, «sono assistiti a domicilio solo 3 over-65 su 100, a fronte di 3 milioni di persone affette da multi-cronicità e disabilità severe che necessitano di cure continuative, che dovrebbero essere effettuate a domicilio, o almeno nel territorio, realizzando la ‘famosa»’ Assistenza domiciliare integrata (Adi)». Anche perché «il nostro Servizio sanitario non è in grado – e ancor più non lo sarà – di curare tutte queste persone negli ospedali, già oggi in sofferenza, con i Pronto Soccorso presi d’assalto, per lo più proprio da anziani».

I dati emergono dall’incontro «La Babele dell’assistenza domiciliare in Italia: key player a confronto», promosso da Italia Longeva, la Rete nazionale sull’invecchiamento e la longevità attiva, che ha riunito oggi a Milano, presso la sede di Regione Lombardia, tutti gli attori coinvolti nella filiera dell’assistenza domiciliare. L’iniziativa ha preso il via dalle due indagini di approfondimento sull’Adi realizzate da Italia Longeva nel 2017 e nel 2018, che hanno coinvolto 35 Asl di 18 Regioni, che offrono servizi territoriali a 22 milioni di persone, ossia oltre un terzo della popolazione italiana.

«Gli anziani, pochi, curati tra le mura domestiche ricevono, in media, 20 ore di assistenza domiciliare ogni anno, a fronte di Paesi europei che garantiscono le stesse ore in poco più di un mese. Inoltre, si osserva una forte disomogeneità dell’offerta lungo lo Stivale – che non segue in maniera chiara un gradiente Nord-Sud -, talvolta anche all’interno di una stessa regione».Prendendo in esame le sole Lombardia, Lazio, Toscana, Marche e Puglia si osserva, ad esempio, che due Ats lombarde (Brianza, Milano) e l’Asur Marche riescono a garantire ai loro anziani oltre il 90% delle prestazioni a più alta valenza clinico-assistenziale previste nei Lea, a fronte di valori di altre Asl che superano di poco il 60%.

Un’evidente disomogeneità riguarda il numero di accessi in un anno (si va da un minimo di 19 ad un massimo di 48 registrato nelle Marche) e le ore di assistenza dedicate al singolo anziano, che oscillano da un minimo di 9 ad un massimo di 75 nell’Asl Roma 4, quasi il quadruplo della media nazionale. Per quanto riguarda, infine, il costo pro capite dei servizi, prendendo ad esempio la regione Lombardia, si va dai 543 euro dell’Ats Montagna agli 891 euro dell’Ats Brianza, dunque un delta significativo nell’ambito di una stessa regione. Tuttavia, la differenza non è sempre ascrivibile a inefficienze delle aziende sanitarie. Al contrario, l’esistenza di modelli organizzativi così eterogenei, che presuppongono differenti gradi di intensità assistenziale, è dovuta alla suddivisione dei servizi stessi tra il sistema delle cure domiciliari e gli altri attori che contribuiscono alla long-term care. Tali differenze non sono altro che il frutto dell’adattamento dei servizi alle esigenze dei singoli territori.

La fotografia offerta dalle due indagini di Italia Longeva «conferma che continuiamo a curare i nostri vecchi – quasi il 25% degli italiani – nel posto sbagliato, perché ancora gestiamo la cronicità negli ospedali, con costi straordinariamente superiori rispetto alla gestione in Adi»: è il commento di Roberto Bernabei, presidente di Italia Longeva, professore ordinario di Medicina interna e Geriatria all’Università Cattolica e direttore del Dipartimento Scienze dell’invecchiamento, neurologiche, ortopediche e della testa-collo della Fondazione Policlinico universitario Agostino Gemelli Irccs. «Per superare questo stallo – osserva -, è necessario un fronte comune tra operatori pubblici e privati dell’assistenza domiciliare, per consentire alla più ampia fetta possibile di popolazione anziana e fragile di essere assistita tra le mura domestiche, vicino ai propri affetti e in continuità con le personali abitudini di vita». «Il nostro compito – osserva Bernabei – non è quello di identificare un modello univoco di organizzazione delle cure domiciliari da replicare su tutto il territorio nazionale, quanto piuttosto quello di individuare delle strategie per rafforzare e modernizzare l’assistenza domiciliare quale modello innovativo di welfare, vera e propria ciambella di salvataggio per il nostro Servizio sanitario».

Se non è possibile definire un modello univoco di organizzazione dell’Adi, è invece possibile identificare alcune coordinate per orientare l’erogazione delle cure domiciliari, con il fine ultimo di promuovere un accesso più ampio e garantire prestazioni di qualità. L’innovazione tecnologica in questo ambito riveste ancora un ruolo molto marginale: la digitalizzazione della cartella clinica e l’utilizzo di un sistema standardizzato di valutazione del bisogno che permetta un successivo piano di assistenza congruo, ad esempio, consentirebbero di rendere sistematiche le fasi di presa in carico e gestione dell’assistito, massimizzando la qualità, l’efficacia e l’efficienza dell’assistenza erogata. Altro cardine del processo di modernizzazione dell’Adi è il potenziamento dell’utilizzo della tecnoassistenza, che garantirebbe l’accesso alle cure domiciliari anche agli anziani che vivono nei territori geograficamente più ‘difficili’ del Paese, e che in generale accorcerebbe i tempi e gli spazi. Passi in avanti in tal senso si stanno facendo in alcune regioni, con il passaggio dai contratti con gli enti gestori stipulati sulla base di gare d’appalto a quelli basati sull’accreditamento, dal momento che tra i requisiti richiesti vi è l’erogazione di determinati servizi di tecnoassistenza.