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Dati Istat su povertà in Italia. Russo (Acli): “Problema strutturale, serve una comunità che sappia prendersi in carico le fragilità”

L’Istat ha certificato che nel 2021 la povertà assoluta è restata stabile. Come valutate questo dato?

In realtà ci dice che la situazione si è aggravata perché, andando avanti nel tempo, sarebbe auspicabile che alcuni problemi strutturali presenti nel Paese venissero affrontati e risolti. Stiamo parlando di 1,9 milioni di famiglie e 5,6 milioni di italiani che vivono sotto la soglia della povertà assoluta; è vero che la situazione sarebbe potuta peggiorare ulteriormente ma, superata la fase più acuta della pandemia, abbiamo sognato che le cose cambiassero e che ci fosse una ripartenza generale del Paese nel quale l’incidenza delle fragilità potesse calare. Così purtroppo non è.

Quali sono secondo voi i dati più significativi che emergono dalla fotografia dell’Istat?Quella descritta nell’ultimo Report è una povertà che colpisce le persone, le famiglie e soprattutto i nuclei più numerosi, gli immigrati. Per questo serve una comunità – nazionale e anche territoriale – che sia in grado di prendersi in carico chi è più fragile. E, purtroppo, i numeri ci dicono che di persone in questa situazione ce ne sono tante. Quali strumenti mettere in campo o migliorare per far fronte all’attuale situazione?Da un decennio Caritas e Acli nazionali hanno creato l’Alleanza contro la povertà che, nel corso degli anni, ha formulato proposte per affrontare in modo strutturale il problema consentendo di arrivare ad una misura diretta di contrasto alla povertà, il Rei, oggi sostituito dal Reddito di cittadinanza che, per noi, è uno strumento assolutamente utile, fondamentale per la lotta alla povertà. Oggi, poi, bisogna assolutamente rivedere il modello di presa in carico del cittadino che non può essere fatta solo da un sistema nazionale ma attraverso un sistema territoriale. Per un approccio multidimensionale ci vuole un’integrazione di politiche settoriali che coinvolgano lavoro, politiche sociali, educative e abitative. Se non andiamo verso una presa in carico dei potenziali beneficiari del Reddito di cittadinanza da parte di un sistema di soggetti territoriali il rischio è che il RdC rimanga una misura utile per sopravvivere ma che non risolve nel medio e lungo periodo il problema di riportare le persone a lavorare. Dai dati emerge che peggiora la condizione delle famiglie con maggior numero di componenti, con un disagio più marcato all’aumentare dei figli minori nel nucleo…Non è un caso che l’Istat parli di 1,4 milioni di minori in povertà assoluta. È ovviamente un danno sul presente – perché riguarda la povertà educativa, l’abbandono scolastico, la povertà alimentare… – ma anche in prospettiva. Se la povertà aumenta per le famiglie numerose è necessario innanzitutto incrementare il sostegno economico incrementando l’equità del Reddito di cittadinanza. Bisogna sostituire l’attuale scala di equivalenza – che non funziona – con l’Isee, magari eliminando il tetto per le famiglie numerose o comunque innanzandolo sensibilmente. Nel 2021 si è anche registrata una crescita generalizzata dell’incidenza di povertà relativa specie nel Mezzogiorno. Come evitare che si allarghi ulteriormente la forbice Nord-Sud?I dati dell’Istat certificano che ci sono territori con maggiori difficoltà. In una fase così complicata, in un Paese diseguale, ci sembra perlomeno sconveniente riaprire il dibattito sul federalismo differenziato. Con una guerra nel cuore dell’Europa – che speriamo finisca il prima possibile – e che ha fatto crescere il costo della vita, mentre siamo di fronte ad una nuova “emorragia” delle giovani generazioni che lasciano i territori nei quali ci sono più difficoltà a far ripartire l’economia e a trovare lavoro, è incomprensibile che la preoccupazione di Parlamento e Governo sia quella di riaprire il dibattito sul federalismo differenziato: per marcare quale differenza? La priorità dev’essere invece quella di accompagnare al lavoro i giovani agevolando la loro permanenza nelle comunità di appartenenza, con un Governo centrale che prova a colmare i ritardi laddove ci sono. Mi sembra importante richiamare l’attenzione sul quadro generale delle riforme, perché se si creano scompensi è assai difficile avere un Paese che cresce e lo fa insieme. L’Istat ha confermato che l’incidenza della povertà assoluta decresce al crescere del titolo di studio della persona di riferimento della famiglia. Essere istruiti è uno degli strumenti per evitare la povertà…La prima preoccupazione dev’essere quella che tutti possano accedere alla scuola e finire il ciclo di studi. E che tutti siano, il più possibile, professionalizzati per le cose che faranno da grandi. È preoccupante che il numero dei laureati in Italia non salga. Ma se vogliamo lavorare sul futuro il primo investimento da fare è quello sulla scuola, sulla cultura, sull’università perché oggi, in un mercato del lavoro in cui diventa complicato – anche per chi è laureato o ha un master – trovare un impiego per il quale si è studiato, è evidente che chi ha più competenze e titoli è più facilitato nella ricerca di un’occupazione. Per questo, innanzitutto, bisogna togliere i bambini dalle strade e portarli a scuola contrastando abbandono scolastico e povertà educativa. Poi serve attivare maggiormente i canali della formazione professionale e degli Istituti tecnici superiori, per far sì che si possa coniugare sempre più le proprie competenze con le esigenze del marcato del lavoro locale. Ma è fondamentale garantire che l’accesso allo studio sia nelle disponibilità di tutti provando anche a recuperare chi, per diversi motivi, nell’infanzia o nella giovinezza si sono persi per strada.