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Futuro senza alternative per israeliani e palestinesi

di Asem KhalilIl Natale non era mai stato così agitato in quella parte del mondo, cara a Dio e agli uomini che è la Terrasanta. Ammettiamolo pure: non ce la facciamo più. «Quando mai vi metterete d’accordo?» mi chiedono spesso: Come se si trattasse di due adolescenti che trovano piacere a fare i capricci, a litigare. Invece no, le cose sono molto più complicate. Anche noi, palestinesi e israeliani, non ce la facciamo più, ma non sappiamo come fare. Peggio, ancora: non sappiamo cosa vogliamo esattamente. I palestinesi vogliono la fine dell’occupazione. Certo. Gli israeliani vogliono la sicurezza. Certo. Ma a parte queste due certezze, il resto cambia come la superficie di un minestrone bollente. La sfida dunque è di riuscire a conciliare le due esigenze. Facile a dirsi, difficile a realizzare. Invece, tanti vogliono crederci perché non c’è alternativa: «due popoli, due stati» ha stabilito il «Quartetto» e sottoscritto il Consiglio di Sicurezza. Come mai, allora, non si reagisce alla continua politica espansionista israeliana in Cisgiordania e al muro che divide i territori in cantoni disconnessi, che rende, de facto, la creazione di uno stato palestinese una missione impossibile? Avete Gaza adesso – mi dicono altri – cosa volete di più? A loro non dico più niente: ho deciso di scrivere. Dello stato – sembra – i palestinesi avranno solo l’apparenza: un passaporto, una bandiera e un governo. Perché no?, anche un governo «democraticamente eletto» (sotto occupazione, un dettaglio che spesso si prova a dimenticare) con gruppi di resistenza che si convortono – senza rendersene conto – in partiti politici. Tutti pretendono di aver fatto più degli altri per la «causa palestinese» e quindi, meritano di guadagnare posti al Consiglio legislativo palestinese (CLP)! Alla chiusura delle candidature per le elezioni legislative (il 14 dicembre a mezzanotte), i candidati erano 444 per 66 posti al CLP assegnati secondo il sistema maggioritario, con il territorio diviso in 16 circoscrizioni e 12 liste per i 66 seggi assegnati con il sistema proporzionale, con l’intero territorio considerato come un’entità unica. Questo interesse sorprendente alle elezioni, fa parte della «mania» di democrazia che incombe sul mondo arabo. Evidentemente qui, la democrazia si confonde, erroneamente, con le elezioni. Bush si congratula della grande partecipazione alle elezioni in Iraq, del ritiro siriano dal Libano, della collaborazione della Libia con le Nazioni Unite e delle riforme nei paesi del Golfo: tutto si dirige, dicono gli ottimisti, verso la realizzazione del «grande Medioriente». Invece no; la realtà del mondo arabo non è un film hollywoodiano con il solito piacevole finale. Prendiamo il caso dell’Egitto: un (piccolo) cambiamento verso la democrazia ha avuto una conseguenza immediata: l’elezione di candidati indipendenti vicini dei fratelli musulmani (un partito proibito in Egitto).

Il dilemma per i campioni e i difensori della democrazia è il seguente: come avere dei paesi arabi democratici senza veder finire il potere nelle mani dei gruppi islamici? Nel Forum di Parigi tenutosi il 12-13 dicembre scorso sulla sfida dell’Euromediterraneo, l’ambasciatore della Gran Bretagna in Francia, John Holmes, ha risposto: «una volta noi (gli Occidentali) abbiamo tollerato dei governi totalitari, oggi non lo possiamo più fare. La democrazia è rischiosa; abbiamo deciso di prendere il rischio di vedere gruppi islamici al governo». Sottinteso: «domani potremmo cambiare priorità, e, dunque, politica».

Nei territori Palestinesi la quarta fase delle elezioni municipali si è compiuta con risultati sorprendenti, anche se parzialmente previsti: Hamas è il grande vincitore. A Nablus ottiene 12 posti su 15 in consiglio municipale; a Jenin e Bireh 9 su 15. Fatah (il partito di Abbas) perde su tutti i campi, e la sua divisione è, più che mai, minacciata. Lo scenario delle prossime elezioni legislative del 25 gennaio 2006 non sarà tanto diverso: Hamas si presenta unita con la lista «Cambiamento e riforme».

Secondo un recente sondaggio, Mustafa Bargouthi, il candidato alla presidenziale del gennaio 2005 (aveva ottenuto quasi 20% dei voti), era il più adattato a guidare la «sinistra» palestinese. Invece sembra che abbia fallito la formazione di un terzo gruppo, tanto atteso dalla popolazione, come alternativa alla dialettica Fatah-Hamas. Infatti, i gruppi della «sinistra» palestinese si sono presentati divisi dentro ai classici partiti o come indipendenti in 9 liste.

Ma il grande perdente è sempre Fatah, con un dettaglio ridicolo che esprime la tragica situazione interna: si sono presentate due liste ed entrambe sono presiedute da Marwan Bargouthi. Il leader della cosiddetta «nuova generazione», che cerca spazio all’interno del movimento, è condannato da un tribunale israeliano ed è prigioniero a vita. Questa irregolarità deve essere sanata prima del 1° gennaio 2006, come giustamente ha confermato Naser al-Kudwa, ministro degli affari esteri dell’AP, perché la legge proibisce che ci sia la stessa persona in due liste. Quella data sarà il limite per definire l’ordine nelle liste e per il ritiro delle candidatura. La lista officiale di Fatah è stata preparata dal comitato centrale del movimento, mentre l’altra lista, che si chiama «Il futuro», contiene nomi noti: oltre a quello di Marwan Bargouthi, Mohammad Dahlan e Jibreel Rjoub, che, secondo un recente sondaggio, sono tra i favoriti.

Il Consiglio legislativo palestinese dopo il 25 gennaio 2006 sarà sicuramente più rappresentativo della popolazione locale, ma il presidente Abbas sarà indebolito sia perché il suo partito dovrà coalizzarsi con piccoli partiti per sopravvivere, sia perché avremo una situazione alla francese con la coabitazione tra un presidente e una maggioranza del CLP appartenenti a partiti diversi. Infatti, l’ipotesi più temuta è che Hamas ottenga una maggioranza al CLP, magari coalizzandosi con indipendenti o appartenenti a gruppi di sinistra. La paura di vedere Hamas al potere, anche se giustificata, deve essere però relativizzata: la partecipazione alla vita politica responsabilizzerà il movimento perché per la prima volta Hamas dovrà rispondere all’elettorato con azioni e risultati concreti. Chi ha dubbi, può osservare i nostri vicini, gli israeliani: chi avrebbe mai immaginato uno Sharon che spacca il suo partito di origine, il Likud, per formarne un nuovo, il «Kadima», con un obbiettivo chiaro: vincere le elezioni e fare la pace con i palestinesi? Si crede – aveva osservato Simon Peres, all’indomani dell’uscita da Gaza – che le persone cambino la politica, invece no: è la politica che cambia le persone.

Insomma, qualunque sia il risultato, il presidente Abbas avrà nuovi bastoni tra le ruote, almeno per quello che riguarda i negoziati con Israele. Le sfide del nuovo CLP sono, però, di ordine diverso e riguardano solo indirettamente l’occupazione israeliana: i nuovi eletti devono mettere fine alla corruzione e al caos delle armi nei territori palestinesi. Secondo un recente sondaggio, dall’inizio dell’anno fino a settembre, il numero dei morti palestinesi, vittime della violenza interna è stato, per la prima volta superiore al numero delle vittime dell’occupazione israeliana! Di conseguenza, le nuove elezioni serviranno per mettere ordine all’interno della «casa palestinese» ma anche accelerano quel processo, iniziato con Oslo, di conversione del nazionalismo palestinese da un movimento di liberazione a un embrione di stato: le istituzioni dell’AP saranno più rappresentative e l’OLP sarà più debole con tutte le conseguenze immaginabili sugli obiettivi della lotta palestinese.

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