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Gerusalemme, Pasqua di dolore

dall’inviataVALENTINA CONTE Posto di blocco a Ramallah. Sotto, scambio di doni con ArafatGerusalemme spettrale: strade deserte, negozi chiusi, luoghi santi silenziosi. Una Pasqua senza pellegrini, quella di quest’anno. Mentre fuori e dentro la città la situazione può precipitare da un momento all’altro. «C’è molta tristezza e preoccupazione» dicono i giovani cristiani israeliani, che si preparano a vivere una settimana santa difficile. «Rabbia e dolore» sono i sentimenti dei loro coetanei palestinesi che, ancora una volta, non potranno recarsi a pregare nei luoghi santi per le festività imminenti. In questo clima di tensione, prosegue la «missione di pace» dei 25 giovani italiani, arrivati la scorsa settimana, dopo aver ricevuto idealmente il mandato da Giovanni Paolo II nell’incontro in piazza S. Pietro. Un’iniziativa voluta dal Servizio nazionale di pastorale giovanile della Cei e dall’Ufficio per la cooperazione missionaria tra le chiese. Messaggeri di pace. «Siamo venuti a portare il volto della Chiesa italiana», spiega don Giuseppe Andreozzi. La delegazione – in rappresentanza di quasi tutte le regioni italiane e di molte associazioni e movimenti – nella giornata di sabato 23 marzo ha fatto il suo ingresso in territorio palestinese, passando il check point di Kalandia, dove centinaia di persone attendevano, a volte inutilmente, di proseguire. Poi la visita al campo profughi di Al Ama’ri, a 14 chilometri da Gerusalemme, 7 mila persone, che mostrava le ferite dell’assalto israeliano di soli dieci giorni fa. I militari hanno fatto irruzione nelle case distruggendo quanto hanno trovato. Infine l’incontro con Yasser Arafat, nel quartier generale di Ramallah. «Sono contento per questo incontro benedetto. Speriamo di celebrare insieme la prossima Pasqua a Gerusalemme». Così ha salutato e ringraziato i giovani della delegazione Cei che sabato gli hanno consegnato la lampada della pace di Assisi. «Per il mio popolo spero una pace giusta e totale», prosegue Arafat. «Chiedo a Giovanni Paolo II di continuare la sua missione per difendere la pace». Toccante il momento di raccoglimento del gruppo davanti alla lapide che ricorda Raffaele Ciriello, il fotoreporter ucciso a Ramallah due settimane fa. Accanto alla bandiera palestinese sventola il tricolore. Una processione tra i carri armati. La domenica delle Palme ha avuto come scenario Betlemme, dove è stata consegnata un’altra lampada alla parrocchia. A seguire la processione delle Palme, che da Betfage si è snodata sino a Gerusalemme, guidata dal patriarca Michel Sabbah. Toni dimessi, pochi canti, silenzio: una festa soffocata. «Una preghiera di penitenza e di pace», così viene annunciata. «Molte parrocchie non sono con noi oggi per paura», introduce Michel Sabbah, patriarca di Gerusalemme. Durante la processione – quasi due mila persone scortate a vista da militari armati – i giovani della delegazione Cei si sono passati la lampada della pace di Assisi, in un’ideale staffetta, per poi consegnarla al termine, presso la basilica della Natività di Maria, al Patriarca latino. Alla processione ha partecipato anche George Carey, arcivescovo di Canterbury, in pellegrinaggio in Terra Santa con un gruppo di 70 persone.

I giovani la pensano così. I giovani hanno avuto uno scambio di esperienze con i coetanei palestinesi di una parrocchia greco-cattolica di Ramallah, The Holy Family Church. «È impossibile parlare di pace fino a quando ci sarà l’occupazione», dice Albeit, 24 anni, lavora in banca. «Non riusciamo ad avere una vita normale, non possiamo pianificare la giornata. Viviamo al momento». «Non abbiamo bisogno di parole ma di azioni», aggiunge Kalil, 26 anni. «Tornate nelle vostre comunità e parlate di quello che avete visto. Molti in Europa non sanno neanche che qui ci sono cristiani». La realtà dei kamikaze, i giovani palestinesi che si fanno saltare, li tocca da vicino. «È l’unico modo che i palestinesi hanno per difendersi, usare il proprio corpo», dice Charlie. «Spesso è il disagio, la povertà, l’assenza di prospettive a spingerli verso questi gesti estremi». «Il problema non è la convivenza tra fedi diverse», incalza Khalil, «ma la possibilità di vivere in pace e in libertà». «Molti di noi vanno a studiare all’estero e poi ci rimangono per lavorare. Qui non ci sono prospettive e il lavora manca», continua Albeit. Tarek ha 22 anni, è un giovane musulmano di Ramallah. Studia per diventare un «leader», un politico, per il suo popolo. Si aggrega al gruppo cattolico. «Molti miei amici sono stati uccisi dagli israeliani. Anche mio cugino è morto all’inizio dell’intifada. È difficile accettare che una persona possa farsi esplodere. Il problema non è morire ma difendere le proprie radici. Per alcuni vuol dire combattere. Io credo in una soluzione politica».

L’appello del nunzio. La delegazione Cei è stata ricevuta da mons. Pietro Sambi, nunzio apostolico in Terra Santa. «I cristiani escono da tre, quattro settimane di sofferenze enormi. La città santa sembra uno spettro. Ma non solo qui. Betlemme è stata colpita dai missili persino nelle scuole, negli ospedali, nell’università», dice Sambi. «La piccola comunità cristiana soffre perché non è rispettata dagli estremismi di entrambe le parti. Ha bisogno non solo di solidarietà spirituale, ma anche materiale ed economica. Come ambasciatore dei discepoli di Cristo, mi appello ai cristiani del mondo intero perché manifestino la loro solidarietà verso la Terra Santa». «C’è una certa sfiducia», ammette Sambi. «In molti credono che la pace non sia possibile. Ma per un cristiano l’ultima parola non è il venerdì santo ma la resurrezione». Gerusalemme deserta «pesa enormemente». «La paura dei pellegrini di venire accresce la paura dei cristiani a restare. La presenza degli stranieri può indurre le parti a moderare l’odio, la violenza e la sete di morte».

La pace è possibile. «Chi governa non vede la realtà con gli occhi di Dio, ma con quelli degli interessi di popolo contro popolo. Se si volesse, si potrebbe fare la pace domani». Con queste parole Michel Sabbah, patriarca di Gerusalemme, ha accolto la delegazione Cei in missione di pace in Terra Santa. Il gruppo si è poi recato presso il Ministero degli esteri israeliano dove ha consegnato la lampada della pace di Assisi a Godi Golan, responsabile degli affari religiosi. «Siamo tornati indietro di 60 anni – ha detto l’ambasciatore – e dobbiamo ricominciare tutto da capo». Godi Golan si è comunque dimostrato ottimista per un possibile accordo che può scaturire grazie alla mediazione americana di Zinni e a seguito dell’imminente incontro dei paesi arabi in programma a Beirut.Successivamente la delegazione si è spostata a Nazareth dove è stata accolta dal vescovo Giacinto Boulos Marcuzzo, al quale è stata consegnata nella basilica dell’Annunciazione un’altra lampada di Assisi. «È stato un pellegrinaggio storico», ha dichiarato il vescovo rivolgendosi ai giovani. «Ci sentiamo abbandonati: chiediamo alle comunità cristiane di venire qui per una testimonianza di solidarietà e di attaccamento a questa popolazione». Il vescovo si è anche soffermato sulla difficile situazione che colpisce i cristiani di Terra Santa. «Il tasso di disoccupazione in Israele è al 12% a fronte del 3,4 di appena tre anni fa. Nel settore arabo la percentuale sale al 19%. In particolare a Nazareth il 24% della popolazione è senza lavoro e i disoccupati arabi sono il 37%. Nei territori palestinesi lo scenario è ancora più drammatico: i due terzi non lavorano è metà della gente ha in media due dollari al giorno per sopravvivere. Il modo migliore per aiutare non è mandare soldi ma sostenere le strutture, come ad esempio le scuole. Il patriarcato non ha chiuso una sola scuola in tutta l’intifada. È un segno forte». «Se questa pace non viene dall’uomo, viene da Dio. Non dimenticate di pregare e far pregare», conclude Marcuzzo. Non c’è voglia di festeggiare. Nella serata i giovani sono stati ospitati da alcune famiglie cattoliche di Nazareth dove hanno avuto modo di scambiare esperienze. Samuele e Sabrina sono sposati da tre anni. Lui è arabo di Nazareth, lei di Verona. Si sono conosciuti in Italia grazie al fatto che entrambi lavorano come guide turistiche. Hanno vissuto come testimoni la nuova fase di intifada che solo in Galilea ha fatto 13 giovani. «Non crediamo in un accordo possibile», dice Sabrina. «A cosa serve un cessate il fuoco? Bisogna affrontare il problema alla radice. Il popolo palestinese è allo stremo. Una situazione insostenibile. Noi cattolici abbiamo difficoltà enormi».Padre Yousef è un arabo nato a Gerusalemme e da due anni è parroco di Reneh, una località alle porte di Nazareth, 10 mila musulmani e 3 mila cristiani, a metà tra cattolici e ortodossi. «Dall’inizio della nuova intifada è cresciuto lo spirito di odio tra arabi ed ebrei, anche se entrambi sono israeliani. Gli arabi si sentono cittadini di secondo grado. La gente non dimentica le vittime che l’intifada ha fatto anche qui», continua padre Yousef. «C’è un bel rapporto tra cristiani e musulmani a Reneh. La gente ha fede e trova rifugio in Dio, specie in questi tempi duri, con l’economia in ginocchio. Vedo un aumento di presenze cristiane che ricorrono alla chiesa anche per i servizi. La gente – conclude – ha fede e trova rifugio in Dio, specie in questi tempi duri, con l’economia in ginocchio. Ma c’è meno gioia rispetto alla Pasqua degli anni passati. Non si ha voglia di festeggiare». Altri serviziGerusalemme, la direttrice della Caritas denuncia: «Cristiani alla fame»Palestina: donne contro la guerraIsraele, tra le vittime degli attentati