Italia

Mafia capitale», dalla Caritas denunce inascoltate

È la pagina più sporca dell’operazione «Mondo di mezzo» di Roma: il capitolo della gestione dei campi profughi e di prima accoglienza per gli immigrati sbarcati in Italia. Anche lì la mafia è arrivata, infilandosi nel sistema tra bandi e gare d’appalto. Le intercettazioni sono raccapriccianti: «Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno».

Monsignor Enrico Feroci è direttore della Caritas di Roma. Non avevate sentore di quello che accadeva nel mondo romano dell’accoglienza?

«Il 12 novembre, in un comunicato stampa sui fatti di Tor Sapienza, parlavamo di anni di abbandono e di politiche sbagliate verso i rom e i rifugiati. Denunciavamo le decisioni prese improntate sull’emergenza e soprattutto – così scrivevamo – ‘frutto di cooperative senza scrupoli che poco hanno a cuore la sorte delle persone che sono loro affidate’. Frasi che sono oggi la fotografia di quello che è emerso».

Vuol dire allora che le vostre denunce non sono mai state ascoltate?

«Davanti a situazioni di questo genere, non è mai la persona ad essere al centro ma l’affare, il denaro. È lo sfruttamento dei poveri per i propri profitti. Ci sono situazioni a Roma che si conoscono benissimo. Per esempio, Castel Nuovo di Porto: chi non sa che nel Cara (Centri di accoglienza per richiedenti asilo, ndr) sono state messe dentro 800 persone? Chi non conosce la situazione dei campi rom? È ovvio che queste situazioni con il passare del tempo si cronicizzano e creano disagio».

E allora dove nasce il meccanismo perverso dello sfruttamento mafioso?

«Il fatto è che ci vuole una progettualità che non esiste. Sono andato il 16 novembre dal sindaco per chiedere quale progetto ha il comune di Roma per i 7-8 mila rom. E non mi hanno saputo rispondere. Si vive sull’emergenza. E l’emergenza porta alle soluzioni immediate. E nelle soluzioni immediate possono facilmente agire anche le persone senza scrupoli che le utilizzano per se stessi. ‘Tu mettiti qui, facciamo così e abbiamo risolto’. Il problema è che noi lavoriamo sull’emergenza su tutto».

Perché è successo a Roma?

«Perché qui a Roma ci troviamo di fronte a istituzioni che non collaborano tra loro e non dialogano. Se la prefettura non dialoga con il Comune e il Comune con la Prefettura e il Municipio con il Comune e la Prefettura, come facciamo? E se non c’è una progettualità fatta bene e in accordo tra le varie istituzioni, come si può pensare di gestire la situazione in modo serio? La precedente amministrazione era quella che diceva: io voglio la sicurezza per la città. E allora ha preso tutti i rom e li ha portati fuori dal Grande raccordo anulare. A Castel Romano ne sono stati portati 1.200».

Le classiche cose fatte male…

«Li ha portati fuori dal Raccordo. Messi lì, abbandonati, senza controllo, senza nulla. E in questa situazione di degrado e di abbandono, chi comanda? I mafiosi, i più forti, quelli che terrorizzano gli altri. E i poveri che vivono dentro, saranno sempre sfruttati da tutti. E poi si fa circolare l’idea che siccome sono rom, sono tutti ladri e delinquenti. Non è possibile lavorare con questa superficialità e senza conoscere bene il problema, standoci dentro».

Monsignor Feroci, ci può indicare qualche buona regola di comportamento?

«La prima è saper vedere quello che realmente succede nel mondo della povertà e dell’emarginazione. E poi essere capaci di progettare. Possibile che a Roma non ci sia qualcuno in grado di fare un progetto serio per queste persone? È mai possibile che non ci sia un percorso che dia loro la possibilità d’integrarsi, così come sono, nell’ambito di un ambiente? E, infine, trovare le persone che davvero amano e abbiano a cuore queste realtà?».

Questa storia ha gettato un’ombra nera sulla solidarietà romana. La preoccupa questa situazione?

«No, assolutamente no. Perché noi quello che facciamo, lo facciamo a testa alta. Nel malessere di questa città, noi ci siamo dentro. Con i nostri 36 centri non solo non c’è una virgola fuori posto, ma ci sono tante, tantissime persone che nel servizio trovano il significato della loro vita».