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«Mio padre Aldo Moro un uomo buono»

Ventinove anni fa il rapimento in via Fani 16 marzo 1978 alle 9,15, in via Fani a Roma, un gruppo delle Brigate rosse rapisce il presidente della Dc Aldo Moro e uccide i cinque uomini della scorta: i carabinieri Oreste Leonardi e Domenico Ricci e i poliziotti Raffaele Jozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi. Poche ore dopo Moro avrebbe dovuto partecipare, a Montecitorio, al dibattito sulla fiducia al quarto governo Andreotti, il primo con il voto favorevole del Pci. La prigionia durerà 55 giorni. Il 9 maggio il corpo senza vita di Aldo Moro è abbandonato in una Renault rossa in via Caetani, tra via delle Botteghe Oscure, sede del Pci, e piazza del Gesù, sede della Dc. DI FRANCESCA LIPPI A far innervosire Maria Fida Moro è la fiction che la Taodue di Pietro Valsecchi inizierà a breve, in previsione della messa in onda su Mediaset alla fine del 2007, della quale la figlia del presidente assassinato, non sapeva nulla. Valsecchi dice che parlerà di suo padre che è l’uomo di tutti.

«Mio padre non è assolutamente l’uomo di tutti, è proprio di nessuno visto che è stato lasciato morire sotto gli occhi di tutti, da solo. Ognuno appartiene solo a se stesso, nessuno appartiene ad un altro uomo, visto che per fortuna la schiavitù è stata abolita. Ma anche nel senso che intende Valsecchi, mio padre come personaggio pubblico, ribadisco che è stato abbandonato da tanti, perciò dubito che possa essere considerato di qualcuno».

Lei come farebbe una fiction su suo padre?

«Una fiction è una finzione, ma una cosa così drammatica, che è comunque storia del nostro Paese, non può essere romanzata e questa è la mia opinione di cittadina italiana e di figlia maggiore di Aldo Moro. Una fiction su questo argomento è fuori luogo».

E Piazza delle cinque lune, il film di Renzo Martinelli sul caso Moro, uscito nel 2003?

«Di Piazza delle Cinque Lune ho fatto in tempo a leggere la sceneggiatura, ho potuto partecipare solo marginalmente, ma il regista Martinelli si è così emozionato sulle cose che ho raccontato, sulle foto che gli ho fatto vedere che ha dedicato il film a Luca, (il nipote di Aldo Moro, figlio di Maria Fida, ndr). Il regista, inoltre, cercava una canzone da mettere nei titoli di coda, io mi sono permessa di fargli sentire quella di Luca contro il potere, Maledetti Voi, e gli è piaciuta tantissimo tanto che l’ha messa in chiusura del film interpretata da mio figlio. Martinelli è quello che ha fatto di più per noi, però anche lì io sono arrivata che era già finito il tutto».

Qual è il valore più grande che le ha trasmesso suo padre?

«La bontà. Era una persona estremamente buona. E così viene ricordato dagli italiani, non perché era uno statista, una persona famosa, un bravissimo professore universitario, non perché era lungimirante, ma perché era straordinariamente buono». Come interpreta l’arresto, nei giorni scorsi, di molti presunti brigatisti accusati di voler compiere attentati? «Io penso che sia molto difficile fare un’analisi, perché i brigatisti sono diversi da quelli di prima ed anche il Paese è cambiato, però rimane il fatto che nelle nostre vite, se lo spazio della politica diventa vuoto e non c’è più un aggancio tra la politica e la gente, si creano delle sacche ancora più pericolose di vuoto che poi possono essere riempite da qualsiasi cosa: dalla malavita, dai terroristi, dalla crisi di valori. Mi sembra che il terrorismo di oggi assomigli più a un tentativo di riempire questi vuoti, mentre il terrorismo di allora dava l’idea di voler scardinare il tipo di politica». Dopo ventinove anni e vari processi, quali sono le considerazioni sull’assassinio di suo padre? «Glielo racconto in tutta tranquillità: tre anni fa mi sono resa conto che a dispetto di sette processi, delle commissioni d’inchiesta e del lavoro di tanti giornalisti, sul caso Moro c’era una confusione tremenda, allora con un gruppo di amici abbiamo deciso di scrivere il Bignami del caso Moro, che doveva essere un librettino, poi uscito con il titolo La nebulosa del caso Moro, dedicato ai ragazzi del futuro, quelli che nel ’78 non erano ancora nati. Ognuno di noi ha raccontato un solo argomento scelto, con un commento separato dalla notizia, in modo che questo fosse “uno strumento di verità”. Facendo questo lavoro, che si è attenuto esclusivamente agli atti processuali, ci siamo resi conto che i punti interrogativi erano circa 200 contro le 3 certezze presenti, quindi la proporzione è tutta a favore del mistero. Questa libro ha un’altra valenza, i suoi diritti d’autore sono devoluti ad un villaggio africano chiamato “Il Villaggio della Speranza” gestito da suore e da laici, in Tanzania, nel quale vivono bambini orfani, malati di Aids. Lei può chiedermi: perché ha pensato d’inviare dei denari a quei bambini? Perché la loro agonia solitaria nell’indifferenza del mondo, mi ricorda tanto quella di mio padre. Non solo, le suore che gestiscono questo villaggio l’anno scorso hanno dedicato la scuola elementare a papà. Mi fa piacere pensare che in un posto dell’Africa, lontanissimo da noi, è dipinto, con la vernice nera, in una piccola scuola che è un bungalow: “Aldo Moro”. Questo è molto bello, perché da un fatto di grande dolore è nata l’occasione di una cosa bella». Lei dice di aver perdonato gli assassini di suo padre, ma è davvero così? «Io ho perdonato tutti, compresi i mandanti e questa è una cosa molto difficile, e ho fatto servizio in carcere per circa tre anni e mezzo, su richiesta di alcuni di questi brigatisti, fino a che queste persone non sono state lasciate in libertà vigilata e poi sono uscite del tutto dal carcere. Ho fatto questa esperienza molto forte e molto importante, attraverso il giudice Imposimato e suor Teresilla e anche se noi avevamo deciso di non parlare mai del caso Moro, perché io non volevo, lo stesso questa serie d’incontri è risultata senz’altro molto formativa per me e per loro che hanno potuto vedere, attraverso le mie lacrime, la spirale di dolore che avevano messo in moto. Anche Anna Laura Braghetti (carceriera di Moro, ndr) ha il mio perdono, però vorrei che la smettessero di usarla come fonte di informazioni, non mi sembra serio, né corretto, perché alcuni che hanno scelto di scrivere con il sangue, possano anche poi scrivere la storia. Il perdono è una cosa privata, si può decidere di perdonare oppure no, ognuno lo fa se e quando si sente, a me è stato chiesto nell’83, ci ho pensato e ci sono andata. Non è un grande merito quello di perdonare, dipende molto da come sei stato allevato e poi dipende dal fatto che uno riconosca in sé la parte di male che pure c’è, ognuno di noi potrebbe fare cose terribili. Solo Dio giudica le intenzioni, non perdonare porta un risultato negativo, mentre il risultato positivo è quello di accettare e passare oltre, il che non significa non soffrire più, ma prenderne atto. Se non si perdona non si può proseguire». Come ricorda i suoi incontri con i brigatisti? «Al primo incontro a Rebibbia ero molto emozionata, mia madre mi ha dato un bellissimo mazzo di fiori da portare là, come segno del suo perdono. Ho dato i fiori, ho parlato con queste persone sotto gli occhi del giudice Imposimato e dopo loro hanno chiesto di incontrarmi di nuovo ed io sono tornata con suor Teresilla, una suora che ha dedicato la sua vita ad aiutare i carcerati, terroristi e non, e i familiari delle vittime, e ha fatto un lavoro molto bello». «Sete di verità» è l’associazione che lei sta organizzando, di cosa si occuperà? «L’associazione “Sete di verità che attraversa le nostre vite” vuole offrire risposte ai misteri italiani che sono tanti e temo rimarranno insoluti, ma anche e soprattutto ripristinare la veridicità delle cose; le faccio un esempio banale: i medici delle carceri si lamentano di non poter curare i detenuti ammalati, perché non hanno le medicine, si rende conto? In una situazione in cui in teoria lo Stato esplica un’azione giusta, dovrebbe comportarsi con giustizia, non crede? Altrimenti non esiste nessuna differenza tra chi commette il crimine e chi commina la pena, può diventare vendetta, ma ci sono moltissime cose in cui la verità è negata, c’è solo l’imbarazzo della scelta. La vita quotidiana è fatta di cose che vengono raccontate come vere, mentre non lo sono, noi vogliamo evidenziare alcune di queste cose e ripristinare la verità, ovviamente anche sulla fiction su mio padre, che sarà la prima cosa che andrò a fare, perché la fiction è emblematica di un tentativo dello Stato di chiudere questa vicenda, lasciando ai posteri una versione fittizia dell’accaduto. Io non sono d’accordo, sono quella del perdono, ma non sono d’accordo che su una questione così drammatica si possa fare un finzione romanzata, continuerò a battermi con buona pace di Valsecchi e di quant’altri. Loro vinceranno perché sono forti, io perderò, ma ciò non toglie che sia una battaglia doverosa, come hanno dimostrato le 1600 risposte degli italiani alla mia lettera sul blog di Beppe Grillo. Gli italiani mi chiedevano cosa si poteva fare, confermando che non era aleatorio quello che stavo dicendo e così è nata l’idea di un’associazione sulla verità».