Italia

Ripensare la guerra

di Piero TaniIniziato all’insegna delle grandi novità tecnologiche che promettevano un futuro radioso all’umanità, il secolo XX è stato invece caratterizzato dalla peggiore barbarie, da totalitarismi, stragi di innocenti legate a pregiudizi razziali e religiosi, e un gran numero di guerre. Con il concorso di eccezionali avanzamenti tecnologici, queste guerre hanno visto aumentata in modo esponenziale la loro capacità di distruzione e di morte: si calcola che, nel corso del secolo, abbiano determinato la morte di 190 milioni di persone.

Di fronte a questo terribile panorama, si è parlato del «XX secolo delle guerre». Con questo titolo, un nutrito gruppo di studiosi, di diversi paesi europei, sotto il coordinamento del Groupe d’Histoire Sociale di Parigi, ha recentemente pubblicato un volume di saggi (AA. VV., Le XXe siècle des guerres, Les Éditions de l’Atelier/ Éditions Ouvrières, Paris 2004). Il volume ha dato occasione ad un seminario, svoltosi lo scorso 25 febbraio a Firenze (Gabinetto Vieusseux) ed organizzato dal Forum per i problemi della pace e della guerra e dall’Istituto storico della Resistenza in Toscana.

Nonostante il titolo del volume faccia riferimento a tutto il secolo, i saggi si riferiscono soprattutto alle guerre che si sono svolte nella prima metà del XX secolo. È una scelta giustificata dal fatto che le due guerre più tragicamente importanti del secolo si sono svolte nella prima metà; si stima peraltro che nella seconda metà le vittime (soprattutto delle guerre di decolonizzazione e delle guerre civili che ne seguirono) siano state il doppio di quelle verificatesi nella prima metà.

Una caratteristica delle guerre del XX secolo è stata quella di un crescente coinvolgimento dei civili, vittime non soltanto perché coinvolti «casualmente» in operazioni belliche, ma perché la loro morte fu esplicitamente perseguita come strumento per raggiungere l’obiettivo della vittoria.

I saggi contenuti nel volume hanno una impostazione particolarmente originale. L’attenzione del libro – e del dibattito fiorentino – è, infatti, centrata non tanto sugli avvenimenti militari, sulle loro origini, svolgimento e conclusione, quanto – come si legge nell’Introduzione (pag. 15) – «su una dimensione delle guerre del XX secolo oggi troppo spesso trascurata: lo sconvolgimento radicale che le guerre operano nelle relazioni sociali. Al fronte, nelle retrovie, attraverso la gigantesca mobilitazione industriale, nella pratica del lutto, nelle esperienze di resistenza e di guerra civile, le guerre hanno solcato le società da cima a fondo. C’è stata certamente una brutalizzazione dei rapporti sociali, ma anche delle mobilitazioni per la democrazia sociale nelle fabbriche, delle rivolte contro la speculazione sulle derrate alimentari, lo sviluppo di politiche sociali e la formazione di ambienti e di reti militanti per la pace nella società come nelle élite».

Proprio dall’osservazione del diverso segno di questi effetti sociali – alcuni dei quali orientati allo stesso regresso verso la barbarie che caratterizza le guerre, altri che invece hanno aperto prospettive positive anche in direzione di un futuro di pace – il libro si interroga sulla natura del secolo appena concluso: è stato solo – o soprattutto – «il secolo delle guerre», o proprio alcune reazioni nate all’interno della società ne giustificano, nonostante tutto, anche una lettura più ottimistica? Quest’ultima alternativa è quella prevalente nel volume, soprattutto nelle tesi dei curatori. Una conferma importante a questa tesi può essere vista nel cammino compiuto dall’Europa: paesi tradizionalmente schierati su fronti opposti in guerre sanguinose, hanno preso l’iniziativa, a guerra appena terminata, di avviare la costruzione di un’Europa unita, proprio con l’intento di scongiurare ogni possibilità di guerra futura. E se anche la costruzione dell’Europa come unità politica è stata un’impresa molto faticosa e resta ancora non compiuta, i risultati raggiunti, sul piano del perseguimento della pace, sono ben evidenziati dal fatto che ci appare oggi inimmaginabile la possibilità di un conflitto bellico tra Paesi dell’Unione.

Ma altri lasciti positivi abbiamo ricevuto dal secolo scorso: la formalizzazione su scala planetaria del riconoscimento dei diritti dell’uomo, anche se ben lontana da un soddisfacente livello di realizzazione; un riferimento forte al diritto internazionale e al dialogo tra i popoli come strumenti essenziali per evitare la guerra; il rifiuto dell’idea che la guerra possa avere una funzione positiva (la guerra «igiene del mondo»!); il diffondersi di movimenti di promozione della pace. Tutti lasciti che debbono essere preservati e coltivati. Purtroppo, gli ultimi anni ci hanno fatto assistere al diffondersi di guerre etniche e religiose; al terrorismo; all’affermazione del diritto alla «guerra preventiva», inaugurata con la guerra irakena; al diffondersi di una lettura delle tensioni esistenti nel mondo in chiave di «scontri di civiltà», cui si vorrebbe rispondere in modo violento: tutti preoccupanti segnali che da certe conquiste può anche accadere di retrocedere.

Un’opinione pubblica che sappia vigilare e affermare la propria volontà di pace può avere – oggi ancora più che in passato – un’influenza determinante. Vigilare, cercare fonti di informazione attendibili e giudizi meditati e ispirati a valori forti è oggi un imperativo etico per chiunque ami la pace e voglia opporre ogni possibile impegno perché il secolo XXI possa passare alla storia come il secolo della pace.