Italia

Se il lavoro lo cerca papà

di Riccardo Bigi

I sociologi lo hanno chiamato «protagonismo delle famiglie nella ricerca del lavoro dei giovani». Tradotto in pratica significa che sempre più spesso i genitori cercano non solo di indirizzare e consigliare i figli, al momento dell’ingresso nel mondo del lavoro, ma anche di intervenire attivamente fino a sostituirsi a loro nell’inviare curriculum, nel prendere contatti con questa o quell’altra azienda, nel suggerire il modo di presentarsi o perfino accompagnadoli ai colloqui. Interventi che i giovani, generalmente insofferenti verso le «ingerenze» dei genitori nella loro vita, mostrano invece di gradire.

A «isolare» questo fenomeno (non ancora generalizzato, ma in forte crescita) è una ricerca realizzata dalla Fondazione Spazio Reale: l’indagine è stata presentata il 26 novembre in un seminario di studio organizzato in collaborazione con il Consiglio Regionale in occasione della Festa della Toscana, dedicata quest’anno proprio al tema del lavoro. «Avevamo notato che la cosa avveniva in maniera sempre più ricorrente, e abbiamo deciso di analizzarla in maniera scientifica per capirne le cause e le consuguenze» spiega don Giovanni Momigli, che oltre a essere direttore dell’Ufficio di pastorale sociale della diocesi di Firenze è anche presidente della Fondazione diocesana per il lavoro che si occupa proprio, tra le altre cose, di favorire l’inserimento lavorativo dei giovani. La supervisione dell’indagine è stata affidata a Giulio De Rita, amministratore della società di ricerche e consulenze etiche Lèghein. La sua impressione è che si tratti di un sintomo che mostra, ancora una volta, l’insicurezza dei giovani davanti al futuro. «Il problema – aggiunge il sociologo – è che il sostegno offerto dalla famiglia sembra in molti casi accrescere questa insicurezza, anzichè aiutare a superarla».

Quali sono le cause di questa tendenza? È più dovuta ai figli, o ai genitori?

«Diciamo che c’è una buona complicità tra genitori e figli. La nostra impressione è che i giovani che trovano, oggi, la loro autonomia in tanti campi, si affidino volentieri alla guida dei genitori nel campo dell’istruzione e della ricerca del lavoro. E i genitori a loro volta, che vedono i figli sfuggire al loro controllo, sono ben felici di affermare in questo campo una loro presenza. Io faccio sempre l’esempio del telefono: quando eravamo giovani noi i nostri genitori conoscevano almeno la voce dei nostri amici che ci chiamavano a casa, sapevano chi ci cercava più spesso. Oggi con il cellulare e i messaggi al computer questo non avviene più. I genitori non sanno niente della vita del figlio: con chi esci, cosa compri, quanto vai veloce in macchina, se bevi, se fumi… I genitori allora compensano questa mancanza di controllo in un campo, quello del lavoro, in cui si sentono più esperti, mentre i ragazzi sono intimoriti».

Da cosa nasce questa insicurezza?

«In parte, da motivi reali. Ai giovani, quando si trovano al momento di dover cercare un lavoro, mancano punti di riferimento, un orientamento. In Italia manca completamente la figura di un tutor che aiuti i giovani in questo senso: per questo i genitori si sentono autorizzati a dare consigli, pensando di saperne di più. Cosa in realtà non sempre vera, visto che il mondo del lavoro è profondamente cambiato e spesso i genitori non hanno gli strumenti per orientarsi in questi cambiamenti».

I consigli delle famiglie quindi a volte rischiano di disorientare ancora di più…

«L’insicurezza nasce solo in parte, dicevo, da motivi reali. In parte nasce anche da messaggi sbagliati che i giovani ricevono: il fatto che il mondo del lavoro è una giungla, che il precariato è una cosa terribile, che troveranno solo persone che li vogliono sfruttare… È vero che oggi il lavoro è cambiato: i giovani di questa generazione, rispetto alle precedenti, dovranno ad esempio saper essere più autonomi, organizzare da soli il proprio futuro. Ma devono trovare il coraggio, l’intelligenza, la forza per affrontare questi cambiamenti senza ricorrere necessariamente a qualche rete di protezione, che poi spesso si dimostra inefficace. Anche perché oggi il mondo del lavoro è in mano ai privati, molto più di prima, e le grandi aziende affidano questo settore a professionisti seri: la vecchia raccomandazione ormai non è detto che funzioni, o comunque ha un peso marginale».

Eppure la vostra ricerca dice che tra i giovani solo il 25% pensa che per trovare lavoro servono preparazione e competenza: tutti gli altri sono convinti che sia necessaria, o almeno utile, anche una raccomandazione.

«Questa è un’idea che purtroppo le famiglie trasmettono ai giovani, un’idea sbagliata, che dovrebbe essere superata: bisognerebbe invece spingere i giovani ad essere più intraprendenti. A molti giovani (non a tutti ovviamente) manca la capacità di vendere se stessi».

Anche perché i datori di lavoro non sembrano apprezzare più di tanto questo «protagonismo» dei genitori…

«Certo, non è una cosa apprezzata, anzi viene visto come il fumo negli occhi: il mondo imprenditoriale non ama queste intromissioni. Il datore di lavoro cerca ragazzi che si mostrino autonomi, capaci di scegliere»

L’intervento della famiglia non può a volte essere un fatto positivo? In fondo è comunque il segno di una preoccupazione per il futuro dei figli…

«Certo, l’intervento della famiglia può avere anche effetti positivi. Diventa negativo quando i giovani si adagiano su questo, anziché cercare una loro strada. Tra i giovani si nota spesso una mancanza di progettualità: non sono capaci di progettare la loro vita. Va detta un’altra cosa che la ricerca ha rilevato. I genitori spesso indirizzano i giovani verso il lavoro impiegatizio: le famiglie tendono ad allontanare i figli dal lavoro in fabbrica, come se fosse qualcosa di malsano. Lo abbiamo riscontrato ad esempio le pratese, dove le aziende tessili si trovano speso davanti a ostacoli posti dalle famiglie. In questo, i genitori non tengono conto del fatto che oggi le condizioni degli operai non sono quelle di trent’anni fa, che il lavoro in fabbrica può essere un lavoro gratificante come tanti altri lavori, anche dal punto di vista della retribuzione e degli orari».

SCHEDA

La ricerca è stata condotta dalla Fondazione Spazio Reale di San Donnino (Firenze), nata nel dicembre 2004 nell’ambito della parrocchia per promuovere attività socioculturali, formative e ricreative e favorire l’aggregazione e la crescita umana e spirituale (www.spazioreale.it).

Le finalità. Lo scopo della ricerca, condotta dallo staff della Fondazione, con la supervisione di Giulio De Rita, era quello di verificare la tendenza, rilevata empiricamente, del protagonismo eccessivo delle famiglie nella ricerca del lavoro dei figli.

Il metodo. Le fasi sono state due. Nella prima sono state raccolte 50 interviste a «testimoni privilegiato (imprenditori, responsabili sindacali, responsabili di associazioni di categoria…), per inquadrare il fenomeno. Nella seconda fase, quella quantitativa, sono stati utilizzati tre questionari: 50 a responsabili dei centri per l’impiego, piccoli e medi imprenditori ed agenzie interinali, 150 rivolti ai giovani (età media dai 20 ai 25 anni) e 50 per genitori (di figli di età media compresa tra i 20 ed i 25 anni).

Le testimonianze. Tra le testimonianze raccolte, quella del direttore della Cna (Confederazione nazionale artigianato) di Firenze, Luigi Nenci: «I giovani entrano in contatto con la nostra organizzazione inviando il curriculum per mail o tramite posta, oppure vengono personalmente, tuttavia accade che dei genitori, di solito i padri, (ma anche le madri) ci telefonino per chiedere informazioni sulla tipologia di lavoro che possiamo offrire, sulle attività che svolgiamo e sulle possibilità di inserire eventualmente il figlio in una delle realtà presenti all’interno della CNA. Questo fenomeno interessa anche molte delle realtà imprenditoriali artigiane associate, che riferiscono, talvolta in maniera informale, situazioni analoghe. La percentuale dei primi contatti presi direttamente dai genitori con la nostra organizzazione oscilla tra il 40% ed il 45% dei casi, se non di più. Di questi, circa la metà accompagna il figlio al primo colloquio». «Il comportamento del familiare che accompagna il giovane al colloquio  – prosegue Nenci – è quindi di solito invadente e non mostra nessun tipo di disagio nell’essere tale, chiede e fa domande al posto del figlio e cerca ad ogni costo di valorizzarne alcune capacità, spiegando i possibili motivi per cui il giovane è alla ricerca del lavoro, le caratteristiche personali e caratteriali del figlio».

Le conclusioni. Sono tre le necessità evidenziate al termine della ricerca:– i giovani debbono osare di più; debbono avere più coraggio nell’approcciarsi al mondo del lavoro. Soprattutto debbono costruire un progetto di vita, che preveda anche l’ambito del lavoro;– i genitori, più che svolgere un pesante ruolo di supplenza, debbono sostenere i figli nella formazione della loro personalità e nel fornire loro i supporti necessari al rafforzamento della loro autonomia e imprenditività;– è necessario riscoprire l’industria, sia come possibilità effettiva di occupazione che come ambito di lavoro che può sostenere lo sviluppo complessivo. A tal proposito appare necessario che le organizzazioni di categoria svolgano un protagonismo maggiore anche per contribuire a cambiale i parametri mentali sul valore del lavoro.

Piste di riflessione. I ricercatori hanno individuato anche delle piste di riflessione che richiederebbero ulteriori approfondimenti. Tra queste una chiarificazione del concetto di «giovane», visto che oggi si tende ad allargare la fascia dai 17-18 ai 30 ed oltre. Accanto alla precarietà lavorativa c’è anche una «precarietà culturale», dovuta al livello delle famiglie di partenza. I giovani, ma anche le famiglie, conoscono pochissimo il mercato del lavoro. Dalla logica del posto si passa alla logica delle competenze possedute, al grado di conoscenze ed abilità che più che in teoria devono tradursi nella pratica. Per questo continueranno a lavorare con maggior successo quei soggetti che avranno la capacità di re-inventarsi, mostrarsi flessibili e «svegli» rispetto al mercato.