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Somalia, Leonella uccisa perché suora

di Patrizia Caiffa«Non so se l’omicidio di suor Leonella sia legato alle critiche al Papa, ma in Somalia già da anni si verificano atti di violenza che colpiscono persone della Chiesa portati avanti da gruppuscoli di malintenzionati. Ricordiamo Annalena Tonelli e poi Graziella Fumagalli. Probabilmente è stata uccisa in quanto una delle suore». A parlare è mons. Giorgio Bertin, vescovo di Djibuti e amministratore apostolico di Mogadiscio, che conosceva da anni suor Leonella Sgorbati, la missionaria della Consolata uccisa il 17 settembre a Mogadiscio insieme alla guardia del corpo. Nata a Gazzola (Piacenza) nel 1940, suor Leonella era stata in Kenya dal 1970 al 2002 e da quattro anni insegnava nella scuola infermieri del villaggio dell’Ong «Sos» che gestisce la struttura pediatrica, punto di riferimento per 200mila mamme e bambini. Mons. Bertin conobbe suor Leonella a Nairobi, quando era superiora generale del Kenya.

«Ci siamo visti l’ultima volta agli inizi di agosto – ricorda mons. Bertin –. Mi piaceva scherzare con lei perché era di taglia molto forte. Però il suo cuore era più grande della sua corporatura, infatti una delle pallottole è arrivata proprio lì. Ha avuto un grande amore per i poveri, sia in Kenya sia a Mogadiscio, dove ha portato avanti la creazione della scuola per infermieri con un forte senso di speranza, a volte di ingenuità, ma con un sorriso quasi serafico».

Il vescovo di Djibouti, alla guida di circa 7.000 cattolici in maggioranza francesi, mantiene la carica di amministratore apostolico di Mogadiscio, città in cui è vissuto dal 1978 al 1991, fino all’inizio della guerra civile, che ha costretto molti a rifugiarsi in altri Paesi. Prima i cattolici erano 2.000, ora solo una trentina.

Suor Leonella è stata uccisa insieme alla guardia del corpo. Quindi le religiose vivevano già in una situazione molto rischiosa?

«Le religiose si facevano accompagnare da guardie armate già da cinque o sei anni, da quando avevano rapito suor Marzia, poi rilasciata. Uno o due anni fa qualcuno ha anche buttato una bomba, che per fortuna non ha fatto danni. Già da tempo a Mogadiscio c’è chi semina odio contro ciò che è occidentale o si presenta come cristiano. Bisogna tenere conto anche di discorsi fatti da alcuni elementi radicali, per i quali la presenza di truppe etiopiche in Somalia crea un problema, anche perché l’Etiopia si presenta come una nazione cristiana. Forse anche le strumentalizzazioni del discorso del Papa hanno contribuito alla goccia in più che ha fatto straripare il bicchiere. Sabato mattina a Mogadiscio c’era stata una forte manifestazione di protesta nella quale gli organizzatori avevano invitato a vendicarsi. Non so se l’omicidio sia legato a questo, ma nel contesto generale già da anni si verificano atti di violenza che colpiscono persone della Chiesa. A mio parere non rappresenta il desiderio e la volontà della maggior parte della popolazione, ma in un Paese senza un vero e proprio governo, senza una vera sicurezza, è chiaro che gruppuscoli di malintenzionati possono approfittarne». Dopo questi episodi avete maggiore paura di ritorsioni?

«Sì; ritorsioni sono sempre possibili, soprattutto dove c’è ancora ignoranza e fanatismo, che rende le persone facilmente manipolabili. Ecco perché a Djibouti lavoriamo soprattutto sulle scuole. Crediamo che attraverso l’educazione le persone riescono ad avere una migliore conoscenza dell’altro, maggiore obiettività e rispetto. È un programma a lungo termine ma è su questa linea che bisogna camminare».

Dal suo punto di vista esiste realmente il rischio di uno scontro di civiltà?

«C’è un malessere a livello mondiale tra le diverse culture, società e religioni. Forse per la prima volta nella storia del mondo si vive o ci si percepisce così vicini. Allora queste differenze, che prima erano viste da lontano, possono creare un senso di malessere. Chiaramente questo viene sfruttato per i propri scopi, come è avvenuto in Somalia con i signori della guerra. Anche a livello mondiale questo può essere sfruttato dai malintenzionati per portare a uno scontro utile ai propri scopi. Ma lo scontro non è una rotta obbligatoria». Come smorzare queste tensioni?

«I responsabili della politica, delle religioni, dell’economia devono rendersi conto che bisogna guardare in faccia i problemi che esistono con rispetto e con franchezza, per evitare che si arrivi allo scontro. Vedere, cioè, quali sono i passi necessari che ci aiutano a vivere meglio insieme, con meno tensioni. E capire anche come fare per isolare gli eventuali microbi che possono aggredire il corpo. Per isolare non intendo solo un’azione poliziesca ma un’azione dal punto di vista culturale, intellettuale. È chiaro: non è un rimedio possibile dall’oggi al domani, però è necessario camminare con convinzione e perseveranza, nonostante tutto».